Anticipo qui un frammento di un lavoro in corso (che spero di poter portare a compimento) riguardo ai suggerimenti che Shakespeare offre al clinico nei suoi Sonetti. Nel Sonetto XCIV, il Poeta illustra la natura di un tipo di paziente particolarmente difficile (talora impossibile) da trattare per noi psichiatri: è una persona che, per gran parte della sua vita, sembra godere di un equilibrio interiore particolarmente solido. Difficilmente entra in crisi e chiede aiuto. Tuttavia, proprio per la natura della sua vita affettiva – che sembra renderlo “tetragono ai colpi di sventura” – , in caso di malattia, o quando gli effetti della vecchiaia cominciano a farsi sentire, crolla; e curarlo, a questo punto, è tutt’altro che facile. Ecco il Sonetto:
They that have power to hurt, and will do none,
That do not do the thing they most do show,
Who moving others, are themselves as stone,
Unmoved, cold, and to temptation slow:
They rightly do inherit heaven’s graces,
And husband nature’s riches from expense,
They are the Lords and owners or their faces,
Others, but stewards of their excellence:
The summer’s flower is to the summer sweet,
Though to itself, it only live and die,
But if that flower with base infection meet,
The basest weed outbraves his dignity:
For sweetest things turn sourest their deeds,
Lilies that fester, smell far worse than weeds.
[Coloro che hanno il potere di nuocere e non lo usano per niente, / che non fanno le cose che, al massimo grado mostrano di saper fare; / coloro che, emozionando gli altri, rimangono come pietra, / insensibili, freddi e refrattari alla tentazione; / giustamente ereditano i favori del cielo, / e, amministrando con parsimonia, preservano le ricchezze della natura dalle dilapidazioni; / essi sono signori e padroni del proprio volto, / e gli altri non sono che amministratori delle loro eccellenti qualità. / Il fiore estivo offre all’estate il suo profumo, / sebbene solo per sé stesso viva e muoia, / ma se la vile degenerazione lo attacca, / la più vile erbaccia supera la sua dignità, / poiché le cose più dolci rendono più aspra la loro natura; / i gigli che si corrompono diventano più maleodoranti delle erbacce.]
Il Poeta qui descrive persone che sembrano incarnare un ideale di totale autosufficienza. Sono individui che non traggono, dal rapporto con gli altri, alcun suggerimento o conferma riguardo alla propria natura e, in particolare, riguardo al proprio valore. Potrebbero dar prova della loro forza quando hanno motivo di comportarsi in modo aggressivo, ma non lo fanno. Potrebbero far sfoggio delle proprie capacità, ma se ne astengono. Sanno suscitare emozioni nei propri simili, ma rimangono freddi come pietra. Insensibili alle tentazioni, nessuno li può sedurre. Perfettamente padroni di quanto l’espressione del viso può comunicare, nessuno può penetrare nei loro intimi segreti e, eventualmente, approfittarsene.
Per tutti questi motivi, sembrano godere della “grazia del Cielo”: sono del tutto immuni alle disavventure ed ai fallimenti cui possono andare incontro coloro che s’impegnano nei rapporti coi propri simili. Appaiono, perciò, come saggi amministratori dei loro investimenti affettivi. Altri gestiscono le loro “eccellenti” qualità: loro malgrado, non passano inosservati; il più spesso vengono ammirati, perché ben pochi riescono, come loro, a superare ogni forma di dipendenza. Succede, così, che gli altri appaghino le loro istanze narcisistico-esibizionistiche e sostengano la loro saldezza interiore (il loro Sé) senza che loro lo abbiano richiesto e ne siano consapevoli. Come i fiori estivi, incantano il mondo per il loro profumo (il loro aspetto attraente, finché sono giovani, unito ad un’affascinante, totale autonomia), ma loro “vivono e muoiono” solo per sé stessi, insensibili a quel che gli altri possono provare nei loro confronti.
Tuttavia quando la vecchiaia (o la malattia) corrompe il loro aspetto e la morte si avvicina, quando cioè avrebbero più che mai bisogno dell’affetto e del sostegno altrui, per loro sostegno e affetto rimangono realtà umane sconosciute e incomprensibili. Essi stessi hanno cercato una condizione di totale isolamento. Abbandonati a sé stessi, perciò, rimangono del tutto inermi di fronte all’azione devastante del tempo o delle malattie. Ecco perché il fiore più bello, che “vive e muore solo per sé stesso”, quando marcisce, diventa ancor più sgradevole delle più sgradevoli erbacce. Sia pur tardivamente, la realtà fa loro pagare, senza sconti, il prezzo delle loro scelte affettive.
Una considerazione s’impone a noi clinici: tutte le volte che è possibile, è bene non aspettare che l’equilibrio patologico del paziente si dissolva. Che questo tipo di persona entri in crisi e chieda aiuto prima del crollo è difficile, ma non impossibile. Spesso noi medici trattiamo con leggerezza momenti di crisi che si manifestano con sintomi apparentemente lievi e facili da trattare; ci limitiamo a sopprimerli con farmaci o con psicoterapie “di sostegno” che non vanno oltre la superficie dei problemi. Non ci rendiamo conto che la crisi potrebbe essere l’occasione per mettere in discussione un equilibrio interiore patologico, prima che crolli. Accontentiamo il paziente, che vorrebbe porre fine alla sua sofferenza al più presto, ma non facciamo il suo bene. Ancora una volta resta confermata la saggezza popolare del detto: “il medico clemente rende la piaga purulenta”.
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