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Il volto perduto. La fonte dell’umanità in Dante e in Borges

23 Apr 24

A cura di Sabino Nanni

        Nelle traduzioni da una lingua straniera alla nostra, spesso incontriamo difficoltà: per certi termini o espressioni, non troviamo l’equivalente nel nostro modo d’esprimerci. Possiamo cercare di risolvere il problema in diversi modi: possiamo riportare il termine nella lingua originale, spiegando fra parentesi che cosa significa con un giro di parole del nostro linguaggio; oppure possiamo accontentarci di una traduzione approssimativa. Qualcuno, poi, rinuncia del tutto a tradurre. Qualcosa di analogo succede passando dalle realtà interiori, trattate utilizzando un sistema di pensiero religioso, al loro equivalente reso in un pensiero scientifico-laico. Quel che non conviene perdere di vista è che, sia che le si pensi in un modo sia nell’altro, le realtà che si cerca di mentalizzare sono le stesse; parlo di quelle realtà interiori immutabili, comuni a tutti gli individui, a tutte le culture e a tutti i tempi, che sono strettamente legate al ciclo biologico della nostra vita.
        Chi rinuncia del tutto alla “traduzione” dal pensiero religioso in quello laico è il materialista, per il quale esiste solo quel che si percepisce con gli organi di senso: quel che si vede, si tocca si ascolta, se ne sente l’odore. Costui non attribuisce alcun valore alla capacità di comprensione introspettivo-empatica, con la quale possiamo percepire l’invisibile vita interiore, nostra ed altrui, pur rimanendo all’interno del pensiero laico. Negando indiscriminatamente il valore di verità ad ogni aspetto del pensiero religioso, che nei millenni ha illustrato il mondo interno degli uomini, rinuncia ad entrare in contatto con la propria interiorità; rinuncia ad essere compiutamente uomo.
        Chi, viceversa, non ha perso del tutto un contatto con sé stesso, però si è allontanato dal pensiero religioso senza trovarne l’equivalente in termini laici, spesso non sa più come concepire e pensare certe realtà interiori che gli appartengono. Capita talora che avverta la dolorosa sensazione di qualcosa d’importante e grandioso che ha perduto e dimenticato nel corso della vita; qualcosa che non sa definire, né associare ad un simbolo concreto e percepibile: ad esempio un’immagine. Borges descrive tale sensazione in un capitolo de “El Hacedor” dal titolo “Paradiso, XXXI, 108”. Lo fa con queste parole:

 

        Diodoro Sìculo refiere la historia de un dios despedazado y disperso; quién, al andar por el crepùsculo, o al trazar una fecha de su pasado, no sintiò alguna vez que se habìa perdido una cosa infinita.

 

        [Diodoro Siculo racconta la storia di un dio straziato e disperso; chi, camminando nel crepuscolo, o cercando di ricordare una data del suo passato, non ha sentito qualche volta che s’era perduta una cosa infinita.]

 

        Nell’epoca in cui il sistema di pensiero religioso dominava in modo incontrastato la cultura, l’essere umano sapeva dove andare a cercare l’immagine evocativa della “cosa infinita” perduta e ritrovata; un’immagine cui associare un nome, una data, una storia, e che rappresentava il simbolo concreto e visibile di una dimensione grandiosa che sfugge agli organi di senso. Per Dante, tale immagine è il volto di Cristo. L’uomo moderno, avendo accantonato il pensiero religioso, ha dimenticato tale volto, però avverte la mancanza di ciò che esso rappresentava e non sa definirlo in termini laici. Quel che dice Dante al riguardo suscita ancora un certo fascino, ma non sa più suggerire nulla di preciso al pensiero.
        Quando il Poeta, giunto in Paradiso, si rende conto di trovarsi di fronte a San Bernardo, il cui viso riflette la beatitudine della contemplazione di Dio, avverte sentimenti di stupore e venerazione. Si paragona ad un pellegrino che, venuto da lontano (“forse di Croazia”), vede il volto di Cristo nel sudario della Veronica. Costui soddisfa, di fronte a quest’immagine, un vecchio desiderio (“antica fame”) ma non è mai sazio di rimirarla. Guardandola, pensa con gioioso stupore che quello che ha davanti è proprio il viso di Cristo come lo vedevano occhi umani.


Paradiso, canto XXXI, vv 103 – 111
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,

ma dice nel pensier, fin che si mostra:
“Signor mio Gesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?”

tal era io mirando la vivace
carità di colui che ‘n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.

        Cristo è Dio fattosi uomo. Egli unì l’umano al Divino, il finito e precario all’Infinito ed Eterno. Per i credenti dell’epoca di Dante, l’esperienza della visione del Suo volto non era sostituibile con quelle realtà umane che sono le parole, neppure quelle che fanno parte di un Testo Sacro. Cristo, inoltre, è il Salvatore, portatore di speranza di Redenzione: il recupero del Paradiso perduto; una speranza che nessuna immagine visiva, che non fosse il Suo viso, sapeva allora suscitare.
        Borges non ha abbandonato la fede, ma anche lui, come tutti gli uomini del nostro tempo, non riesce più a rappresentarsi con certezza il volto di Cristo, con tutto quel che esso significa nella nostra vita interiore.

 

        Si realmente supiéramos como fue, serìa nuestra la clave de las parabolas y sabrìamos si el hijo del carpintero fue también el Hijo de Dios.

 

        [Se davvero sapessimo come fu, possederemmo la chiave delle parabole e sapremmo se il figlio del falegname fu anche il Figlio di Dio]

 

        La “chiave delle parabole”, ossia ciò che conferisce ad esse il carattere di verità, e ci consente di coglierne il senso, è la certezza che chi ce le comunicò fu realmente il “Figlio di Dio”, vale a dire unì in sé stesso la natura umana e quella divina; e tale certezza potrebbe darcela solo l’esperienza del viso di Cristo: un’esperienza che non sappiamo più rievocare. Lineamenti del tutto simili ai Suoi potrebbero esserci davanti ai nostri occhi, ma non li sappiamo riconoscere.

 

        Perdimos esos rasgos, como puede perderse un numero magico, hecho de cifras habituales; como se pierde para siempre una imagen en el calidoscopio. Podemos verlos e ignorarlos. El perfil de un judio en el subterraneo es tal vez el de Cristo; la manos que nos dan las monedas en una ventanilla tal vez repiten las que unos soldados, un dìa, clavaron en la cruz.
        Tal vez un rasgo de la cara crucificada acecha en cada espejo; tal vez la cara se muriò, se borrò, para que Dios sea todos.

 

        [Abbiamo perduto quei lineamenti, come si può perdere un numero magico, fatto di cifre abituali; come si perde per sempre un’immagine nel caleidoscopio. Possiamo vederli ed ignorarli. Il profilo di un Ebreo nella metropolitana è forse quello di Cristo; le mani che ci porgono alcune monete a uno sportello forse ripetono quelle che i soldati, un giorno, inchiodarono alla croce. Forse un tratto del volto crocefisso ci attende in ogni specchio; forse il volto morì, si cancellò, affinché Dio sia tutti.]

 

        Il volto di Cristo è come un mosaico che rappresenta qualcosa di “magico” e sacro. Esso è andato in frantumi; ne conserviamo le tessere, le vediamo nella nostra esperienza di ogni giorno, ma non sappiamo più attribuire ad esse un significato e rimetterle insieme.
        Tradurre in termini laici le realtà interiori illustrate dalla Religione, comporta un pericolo: quello di “desacralizzare” tali realtà. Ciò sarebbe riduttivo: nella “traduzione” nei termini di ciò che si può percepire – non solo con gli organi di senso, come sostengono i materialisti, ma anche con le nostre capacità di comprensione introspettivo-empatiche – c’è il rischio che vada perso quel carattere sacro che è proprio di ciò di cui parla la Religione. Eppure l’esistenza del “sacro” (di qualcosa di valore supremo e indiscutibile) è una realtà umana innegabile, presente anche in chi non crede in Dio: può essere il valore attribuito alla Bellezza, alla Verità, alla vita umana; realtà che, per i credenti, sono espressioni di Dio sulla terra, ma che anche gli atei, se non si sono disumanizzati, non possono disconoscere e svilire.
        Per trovare qualcosa che corrisponda il più possibile all’esperienza religiosa del volto di Cristo, utilizzando un sistema di pensiero scientifico-laico, dobbiamo risalire molto indietro, ad una fase antica della nostra esistenza. Occorre mettere da parte il nostro ruolo di osservatori adulti esterni, e porci nei panni, che un tempo furono nostri, di un bambino che per la prima volta riconosce il viso materno. Esso è umano, percepibile con gli occhi, ma al tempo stesso “divino”: evoca quel “sentimento oceanico” che avvertimmo all’interno del ventre materno, evoca il “paradiso” perduto al momento della nascita, e che la sollecitudine della mamma ci permette, in parte, di ritrovare. La “madre-ambiente”, la “Dea” invisibile che finora ci ha avvolto e protetto, finalmente ha un volto, uno sguardo in cui possiamo rispecchiarci, ed organi di senso pronti a cogliere ogni nostro messaggio. I suoi occhi, oltre che riflettere la nostra realtà individuale, ci trasmettono qualcosa di “divino” (di valore supremo, di sacro) che, nel corso della nostra esistenza potremmo coltivare. La nostra vita acquista un senso: veniamo finalmente alla luce come autentici esseri umani.
        Più sopra ho accennato a realtà interiori, condivise da tutti gli uomini in quanto legate ad un ciclo biologico attraverso cui ognuno di noi deve passare. Più precisamente, quel che si ritrova in tutti è la presenza di problemi esistenziali (che ognuno, poi, affronta a suo modo) legati alle esperienze di separazione e perdita – solo parzialmente compensate dalle acquisizioni successive – che s’incontrano nel passaggio da una fase all’altra della vita: concepimento e vita intrauterina, nascita, crescita, condizione adulta, vecchiaia e morte. Immersi nella realtà oggettiva della nostra esistenza “terrena”, il “paradiso perduto” che ritrovammo nel volto materno come lo riconoscemmo per la prima volta, passa progressivamente in secondo piano. Con la sola eccezione delle poche persone profondamente immerse nella propria vita interiore (gli individui sinceramente religiosi, i veri Artisti, qualche terapeuta della mente) finiamo per dimenticare quel volto. Quel che resta è solo il sentimento di una perdita dolorosa.
        Borges, tuttavia, sia pure intercalando le sue parole con espressioni dubitative, ci lascia un filo di speranza:


       Quién sabe si esta noche no la veremos en los laberintos del sueño y no lo sabremos mañana.

[Chi sa se stanotte non lo vedremo nei labirinti del sogno, e domani non lo sapremo]

        Accanto alla nostra vita della veglia, tutta protesa verso la realtà esterna, ne esiste un’altra parallela, tutta raccolta nel mondo interno, cui in genere non attribuiamo la dovuta importanza: è la vita del sogno, da cui (se riusciamo ad uscire dai suoi labirinti) può emergere l’immaginazione creativa. È la parte del nostro essere in cui le tracce delle impressioni sensoriali diventano esperienze cui diamo un significato personale; la parte in cui nulla di quel che fu e di quel che è la nostra vita viene perduto. I Poeti, o quei pochi terapeuti che sanno essere Poeti, oltre che Scienziati, sanno guidarci attraverso quei labirinti. Lo possono fare come Virgilio condusse Dante nel percorso attraverso l’oltretomba, ossia nel mondo di ciò che non è più visibile nella vita quotidiana, e cui l’Autore della Divina Commedia, con la sua Arte, ridiede vita.

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