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LA LEGGE DEL PADRE, LA LEGGE DELLO STATO Il sintomo separatore Caso esposto al 11 Congresso della Eurofederazione di Psicoanalisi.

4 Ago 23

A cura di Maurizio Montanari

LA LEGGE DEL PADRE, LA LEGGE DELLO STATO

Il sintomo separatore

Caso esposto al 11 Congresso della Eurofederazione di Psicoanalisi.
Bruxelles, 1 – 2 Luglio 2023
Romy ha 20 anni quando si rivolge a me per un’anoressia molto invalidante. È da poco uscita dal carcere dopo aver, con la sua testimonianza, contribuito a far condannare il gruppo malavitoso capeggiato dal padre. Ebbe la sua iniziazione allo spaccio di droga a 10 anni divenendo un fedele soldato della malavita. Perse la madre a 3 anni. Il padre era il capo assoluto. L’inizio della scuola superiore a 14 anni, situata in una città fuori dalla zona controllata dal clan, segnò l’ingresso in un mondo nuovo che fece emergere parti del suo carattere inespresse: si scopriva pudica, timida e rispettosa della legge. Iniziò a frequentare dei compagni di scuola invitandoli nella sua zona libera: un orto da lei curato e protetto all’interno del terreno del clan ove radunava i gatti del quartiere.

Perché lì?
Le piante sono pure. L’orto era vietato a quel porco di mio padre e ai suoi.
Lo ‘scandalo’ un giorno esplose ed irritò il padre al punto da ordinare ai suoi sottoposti di dare alle fiamme il terreno ed uccidere gli animali.  È a seguito di ciò che cadde in una grave anoressia restrittiva. Vergognandosene perché vistosamente deperita (41 Kg), il padre le vietò di lasciare il paese e di tornare a scuola in città. Divenne per tutti pazza. È in quel momento che decise di andare alla Polizia e, col suo racconto, li fece arrestare.

Perché lo fece?
Volevo tornare là fuori, quel maiale aveva distrutto il mio sogno!
L’esordio anoressico dunque come risposta alla violenza del padre, modalità drastica di separazione dall’Altro, reso necessario dopo la distruzione del campo.
Il padre è condannato a 19 anni di carcere. Lei, come collaboratrice, sconterà pochi mesi. In prigione iniziò uno sciopero della fame che ne acuì la magrezza legata all’anoressia pregressa. Lo psichiatra del carcere la definì simulatrice in cerca di sconti di pena. Sconti mai chiesti considerando la pena il prezzo da pagare per tagliare i ponti con quel mondo.

Perché smise di mangiare in cella?
Rivolevo il mio orto!
Il direttore del carcere le permise di gestire il piccolo orto del penitenziario sino alla sua liberazione avvenuta circa un anno fa, quando inizio a vederla.
Il secondo tempo dell’anoressia sembra avere caratteristiche di tipo isterico. Non più godimento nel rifiuto dell’Altro ma manovra per bucare un Altro, incarnato dal direttore della prigione, del quale condivide i valori.

Il padre morì in carcere. Ella, dopo un periodo di anonimato, riebbe la propria fedina penale pulita e il proprio cognome.

Ma io sto ancora male

Dice il vero, l’anoressia è ancora forte, Romy non supera 51 kg.

Con quel mondo ho chiuso, perché ancora soffro?
Il corpo parla le dico, c’è ancora del lavoro da fare, ponendomi come garante del passaggio da un trattamento psichiatrico a quello analitico, dal rapporto con la legge dello Stato a quello con le regole dell’inconscio.

Perché il sintomo resiste? L’esplosione dell’anoressia originaria era la risposta alla violenza dell’Altro paterno: questi aveva distrutto il suo spazio separatore e lei si ossificava per sfuggire alla sua morsa. Il rifiuto radicale del cibo come rifiuto dell’Altro, come separazione.
Lo sciopero della fame successivo era una ripresa del fenomeno anoressico, ma mi è sembrato declinarsi ben diversamente: una domanda di riconoscimento, una domanda d’amore come accoglimento della propria particolarità, un messaggio indirizzato all’Altro del carcere, della Legge. Comunque un segnale per chiedere che la sua zona franca, l’orto, le fosse restituita.

Ma se tutto è alle spalle, perché non riesco a mangiare?
Il suo corpo dice una verità (di un godimento) che il soggetto non vuol sapere e che si manifesta alla grande nel sintomo[1].
Il suo corpo magro le fa oggi enigma, un sintomo un tempo funzionale oggi divenuto fardello. Ciò è il frutto del lavoro faticoso di soggettivazione di un godimento maligno e insieme la memoria di un rapporto con l’Altro non ancora risolto.
Le offro una prospettiva discontinua: noi qua, lavoriamo con l’inconscio, che ha dei tempi diversi rispetto a quelli del fluire delle cose esterne. Il suo rovello, il suo voler ‘guarire’ non può incontrare, come in psichiatria, una risposta hic et nunc, ma trova la sua chiave di lettura in un distacco ben più duro e profondo, che prende il via con una serie di sogni che inizia a fare.

Sogna dapprima episodi del passato colmi di violenza, per poi fare sogni che la mettono al lavoro.
Mio padre è vivo. Dietro le sbarre. Io vado a trovarlo (cosa mai accaduta nella realtà), e i suoi documenti d’identità sono per terra, fuori dalla cella. Non capisco come sia possibile ma io li calpesto e li sbriciolo gettandoglieli in faccia. Poi esco dal carcere.

Il nome e il cognome del padre, carta straccia le dico

Chiudo la seduta ripetendo, come citazione: carta di identità!

Romy è colpita da questo taglio, e ribatte
ma io ho ancora il suo cognome.

Si, ma oggi è anche suo.

Questo sogno torna in diverse varianti[2] e segna uno snodo nel suo percorso. Nel sogno separa il suo percorso dall’identità paterna, calpestata e rigettata.
Chiede di intensificare le sedute.

Nel tempo Romy si accorge di trascurare il suo orto, e lo porta in seduta con dolore.
Senza quello non avrei lasciato quel mondo, e mi ha permesso di sopravvivere in carcere.

Oggi la sua vita è anche fuori da quell’orto.

Oggi è passata dai 51 kg a 56, soddisfacente per il medico, non per l’analista: a livello fenomenico sembra che il corpo non debba più svolgere la sua funzione dolorosa di strumento separatore. Il che ancora non può certo dirsi un indicatore chiaro della fine dell’anoressia, ma di certo indica che il corpo, così come è stato per il giardino, sta affievolendo la sua funzione di strumento separatore.

Questo è quanto è messo in luce dal tempo dell’analisi, che sta oggi percorrendo, con fatica. La domanda non è più legata alla sofferenza del sintomo, l’anoressia non è al centro da tempo: il soggetto ha comunque mostrato in che modo può servirsene di fronte all’Altro.

Il contesto in cui ho svolto il lavoro con Romy ha richiesto una presa di distanza dal sapere dell’istituzione: ho preso sul serio la sua sofferenza, non come chi le diceva:
L’anoressia? Una scusa per uscire prima.
Ho dato a Romy il posto di soggetto in questione, rifiutando quello del soldato fedele. Posizione che lei occupò si, ma solo inizialmente, essendo una bambina che obbediva alla sola legge che conosceva, vale a dire la parola del padre. A ben vedere il suo distacco da quella cultura patriarcale malavitosa era già in essere dopo l’infanzia: già da bambina aveva preso le distanze dalla parola del padre, implicata nel suo atto di denuncia e nell’accettazione delle conseguenze. Nel carcere poi non contestava la legittimità della pena, ma richiedeva un suo spazio di espressione. Il godimento sintomatico apriva stavolta alla dialettica con l’Altro ed ha ottenuto soddisfazione. Implicata infine oggi quando, all’affacciarsi impetuoso dell’inconscio che la porta davanti alla cella del padre, chiede di intensificare le sedute e non indietreggia di fronte  a qualcosa che la turba ma davanti al quale non fugge, pronta a pagare il prezzo di un distacco in fieri.

*La delicatezza del caso, ha imposto una rigorosa revisione dei dati anagrafici, storici e geografici al fine della salvaguardia della privacy. Non senza l’assenso del protagonista


[1] ADC, ‘ Gli imbrogli del Corpo’, Borla
[2] varianti (la carta identità che brucia o diventa poltiglia nell’acqua, sempre fuori dalla cella, con lei che ne tira i resti al padre),

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