“La psicologia clinica nei servizi pubblici – cura prevenzione, formazione, tirocinio” (reperibile su Amazon, sia in cartaceo che come e-book) è l’ultimo testo autoprodotto online sul quale abbiamo lavorato durante il lockdown, e che proponiamo alla vostra attenzione.
Qui sotto la premessa al testo.
Leonardo (Dino) Angelini e Deliana Bertani[1]
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Siamo due psicologi clinici: abbiamo operato nei decenni scorsi a Reggio Emilia all’interno dei servizi pubblici. E certamente, nei suoi particolari, il testo che oggi proponiamo al lettore presenta degli elementi di specificità che sono peculiari del luogo e del tempo in cui abbiamo operato. Ciò non toglie, però, che in termini generali il nostro percorso sia avvenuto nello stesso solco tracciato in tutta Italia dai colleghi e dalle colleghe che nello stesso tempo abbiano avuto la ventura di operare, come noi, nel pubblico.
Oggi la pandemia ha fatto emergere coram populo l’importanza del lavoro dello psicologo clinico, e perfino il legislatore -pur fra mille titubanze- pare orientato a muoversi sul piano dell’istituzione della figura dello psicologo di base. Questa, a nostro avviso, può essere un’occasione unica per tornare a riflettere sulle funzioni svolte dallo psicologo clinico, e soprattutto sulle modalità più efficaci attraverso le quali queste funzioni oggi possono essere esercitate.
Proponiamo perciò la lettura di queste pagine come testimonianza di un lavoro, e di un insieme di riflessioni sul lavoro, a partire dalle quali pensiamo sia possibile trovare molti spunti utili per una discussione sui problemi odierni della clinica psicologica.
Il primo dei quali è sicuramente quello dell’inquadramento dello psicologo all’interno di ciò che rimane del welfare: se, ad esempio, sia più efficace sul piano della cura una sua collocazione all’interno di un luogo monoprofessionale (come avviene nel caso della ‘psicoterapia sociale’ dell’amico e collega Luigi D’Elia), oppure in una equipe poli-professionale. In quali contesi istituzionali inserire questa nuova figura. Come definire il rapporto fra lavoro di base e prestazioni di tipo specialistico, e quello fra pubblico e privato. Quali possano essere le nuove esigenze formative connesse all’esercizio di questa nuova funzione. Come coinvolgere l’Università su questo piano e su quello del tirocinio. E, più in generale, come attrezzarsi per affrontare criticamente i nuovi problemi che sicuramente interverranno allorquando -come speriamo- lo psicologo di base -o qualcosa che gli somigli- vedrà la luce.
È con questo spirito che presentiamo il nostro testo, a tutta la comunità professionale, ma anche agli operatori e alle operatrici delle professioni limitrofe, e a tutti coloro che hanno a cuore le sorti del welfare italiano.
Il testo si articola in sette sezioni all’interno delle quali, a partire dall’ancora recente storia della psicologia clinica nel ‘pubblico’ (Sezione 1), si cerca di mettere in evidenza le molteplici funzioni svolte dall’equipe poli-professionale in cui quegli psicologi erano attivamente inseriti (Sezione 2); i percorsi del lavoro che portò alla chiusura dei manicomi, all’inserimento e all’integrazione dei gravi e dei disabili in famiglia, a scuola, nel lavoro e nella società (Sezione 3); e quello che subito dopo portò alla nascita di un servizio universalistico e gratuito di psicoterapia e di counselling di cui furono -come dimostrano ricerche svolte proprio a Reggio Emilia- utenti appartenenti a ceti medio-bassi (Sezione 4); la partecipazione dello psicologo nella costruzione della rete di reti che si creò soprattutto laddove il welfare fu ‘dei servizi’, e non ‘dei sussidi’ (Sezione 5); e come, successivamente, con l’emergere del Terzo Settore, questo legame inter-istituzionale poté essere trasfuso all’interno del welfare mix (Sezione 6). Per finire con una sezione sui temi delle formazione, che a nostro avviso soffre del fatto che non è pensata per il lavoro nel ‘pubblico’; e su quelli del tirocinio che continua ad essere espunto dai percorsi formativi sia dell’Università, che delle scuole di specializzazione, e affidato a tutor improvvisati, che a loro volta non sono stati formati da alcuno (Sezione 7).Da ogni sezione pensiamo emergano alcuni nodi di fondo che, con alterne fortune, abbiamo tentato di sciogliere lungo il nostro cammino: – La disposizione a considerarci come operatori di frontiera, che cercano quotidianamente di dialogare con le varie alterità. – La consapevolezza che programmi, procedure, protocolli non sono eterni, ma sempre perfettibili, soprattutto in una società in rapidissimo cambiamento come la nostra. – La convivenza con uno sguardo analitico, che permetta di assumere sempre un atteggiamento critico nei confronti del sociale. – La dimensione territoriale e reticolare del nostro lavoro, che, anche quando si svolge solo nel nostro ambulatorio, non deve mai rinunciare a immaginarsi come un potenziale nodo di una rete della cura, inserita a sua volta in una rete di reti. – La orizzontalità dei rapporti all’interno di ogni gruppo di lavoro. – La coniugazione del lavoro di base con quello specialistico. – Ed infine la circolarità della formazione, vista sempre come uno scambio in cui c’è sempre da dare e da ricevere, ed i cui contenuti vanno strettamente legati a ciò che emerge dai punti di crisi del nostro lavoro.
Dedichiamo questo testo a Giovanni Jervis, nostro primo maestro, e a Velia Vallini, assessore alla Sanità della Provincia di Reggio Emilia, che lo chiamò a dirigere il CIM (Centro di Igiene Mentale) all’interno del quale abbiamo avuto l’onore di cominciare a lavorare come psicologi.
L.A. e D.B.
Reggio Emilia, 12.5.’23
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