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La società e la famiglia di Narciso

27 Nov 23

A cura di ct


Sono nato nel 1944 all’interno di una famiglia della borghesia medio-piccola di un paese del Sud: mio padre era un piccolo imprenditore, e proveniva da una famiglia di artigiani; mentre mia madre era una casalinga e proveniva da una ricca famiglia contadina, rovinata negli anni ’20 del secolo scorso dalla famigerata ‘Quota 90’ e dagli effetti sull’agricoltura italiana della crisi di Walls Street.
Sono stato educato ad un’etica del lavoro basata su un feroce risparmio e su una più che circospetta propensione all’investimento.
Da grande ho fatto il ’68 (a Trento), ho lavorato poi come psicoterapeuta all’interno dei servizi psichiatrici pubblici di Reggio Emilia. E nel 1975 son diventato padre. Mi son reso conto poi, a ‘cose sostanzialmente fatte’, di aver educato mia figlia in maniera alquanto diversa da come ero stato educato io dai miei genitori.
Quello che segue quindi è un tentativo di analisi dei nuovi profili di personalità dei nostri figli e dei nostri nipoti d’oggi da parte di un appartenente a quella generazione di mezzo, per svariati motivi inconseguente sia rispetto ai principi cui era stata educata, sia – almeno per certi aspetti – agl’ideali in cui aveva creduto e per i quali aveva lottato.
Partirò quindi dal ’68, o meglio: da una rivisitazione autocritica di quel movimento, che a mio avviso proprio sul piano educativo ha uno dei suoi punti di massima contraddizione. Passerò poi ad esporre un’analisi, fatta una ventina di anni fa sulla struttura di personalità del giovane reggiano di oggi, messo a confronto con quello di ieri e di avantieri[1], e terminerò con un aggiornamento, che verterà soprattutto su una puntualizzazione su quella “terza agenzia formativa”, che vent’anni fa era rappresentata dalla TV, e che oggi è sostituita oggi dai social media.

a. Uno sguardo sull’oggi da parte di un esponente della generazione di mezzo

Matilde Callari Galli già nel 1975 aveva fatto notare che l’adolescenza italiana di allora ormai non abitava più – come era stato per le generazioni precedenti – un luogo marginale e distinto dal mondo adulto. Non lo era da quando dopo il boom economico dei primi anni ’60 il consumismo era approdato in quell’Isola che non c’è che fino ad allora era stata l’adolescenza, allettando per la prima volta i suoi provvisori abitanti, così come i loro più circospetti genitori, con le sirene della pubblicità; e per ciò inserendoli all’interno di un circuito sempre più centrale ed integrale, che imponeva a tutte le fasce di età[2] le proprie leggi ed i propri gusti.
Questo fenomeno – come avremmo compreso più tardi – era potenzialmente dirompente, e destinato a diventare uno dei vettori principali che condurrà – come vedremo meglio più avanti -allo sconvolgimento del nostro vecchio modello di inculturazione, ed in sostanza a favorire il passaggio da un modello educativo incentrato, per dirla con Pietropolli Charmet, sull’immagine di Edipo, cioè di un bambino inteso come vortice istintuale da plasmare attraverso la repressione e\o la sublimazione alla legge del padre, ad una incentrata sull’immagine di Narciso, cioè di un bambino pieno in nuce di ogni virtù e perfezione, e per ciò da adorare e sostenere[3]. Un fenomeno però che, pur essendo già immanente nella scena sociale e familiare, non ci appariva ancora sotto questo aspetto.
Ciò che allora emergeva, a partire dal boom economico e dalle aperture introdotte dalla prima esperienza di centro-sinistra, era l’innesco di una mobilità verticale positiva che permetteva: da una parte il superamento (scuola media unica, liberalizzazione degli accessi all’università) del vecchio modello piramidale sul quale era stata fondata la scuola di élite di gentiliana memoria, dall’altra la ricerca di una nuova speranza di autoaffermazione in fabbrica e nel famoso “triangolo industriale” (Milano – Torino – Genova) da parte di una marea di giovani provenienti dalle zone più povere del Paese destinata a sconvolgere ancora di più gli squilibri territoriali già presenti nel Paese.
Si trattava di una società che non è possibile definire affluente – perché non era opulenta – ma che, purtuttavia, attraverso quella vigorosa spinta alla mobilità verticale positiva, aveva permesso a una generazione di giovani di entrare facilmente e stabilmente nel mondo del lavoro occupando una posizione più vantaggiosa rispetto a quella dei propri genitori. Di entrarvi in maniera costruttiva e critica, grazie alle idee che la caratterizzarono; e nonostante i sogni intrisi d’ideologismo che la attraversavano, soprattutto all’inizio; intraprendendo così da protagonisti quella lunga marcia attraverso le istituzioni (Dutschke) che poi ha costituito l’elemento più caratteristico della vita di questa generazione di mezzo.
In questo modo il passaggio dei sessantottini dal sogno megalomanico e palingenetico al progetto realistico, imperfetto e sempre in fieri[4] finì con rendere possibile la realizzazione in termini riparativi ed auto-riparativi di ciò che all’inizio sembrava impossibile.
Va detto però col senno di poi che le maggiori difficoltà e le maggiori incoerenze fra ciò che la generazione del ’68 continuò a predicare e ciò che effettivamente fece possono essere riscontrate soprattutto in quell’aspetto importante della riproduzione sociale cui si riferiva acutamente Matilde Callari Galli: e cioè sul piano educativo. Laddove l’adeguamento nei fatti alle sirene della società consumista ha concorso ad una profonda trasformazione nella formazione della personalità dei nostri figli e dei nostri nipoti. Basta fare un paragone fra la nostra spesso assente stanza dei giochi e quella dei nostri figli e dei nostri nipoti per rendersi conto del cambiamento[5].
E non è un caso che oggi coloro che fra di essi riescono a tenere il timone dritto nella iper-consumista società attuale appartengano a quello che è possibile definire come ‘il residuo anancastico’[6]: cioè a coloro che sono stati formati da noi, dalla pre-scuola, dalla scuola e dai media, più nel solco di Edipo che di Narciso.
Detto questo va aggiunto però che se guardiamo alla realtà attuale in termini sistemici diventa un atto di profonda miopia buttare la croce addosso a noi stessi e ai giovani d’oggi; la cui crisi va inquadrata all’interno di quell’insieme di cambiamenti di natura politica, economica e psicosociale che hanno condotto al neoliberismo, o – come diceva Gallino – al finanz-capitalismo.

b. La struttura della personalità di Edipo e quella di Narciso

L’Italia in generale, e l’Emilia in particolare sono state sottoposte in questo quarantennio ad un processo di cambiamento che in Inghilterra ed in Francia sono avvenuti nell’arco di centocinquanta anni. Il rischio sul piano della identità e della coesione sociale in situazioni di rapidissimo mutamento sociale, è quello dell’ingenerarsi di una situazione di anomia (Durkheim) in cui i soggetti hanno l’impressione che i vecchi valori siano diventati obsoleti e che i nuovi valori siano ancora incerti, scarsamente condivisi, ed anzi appena abbozzati.
Da un punto di vista etnoanalitico, possiamo inferire che sia il carattere etnico dei giovani d’oggi, e cioè l’insieme dei comportamenti previsti a livello sociale, sia l’inconscio etnico, e cioè l’insieme dei comportamenti socialmente rimossi (Devereux), siano profondamente mutati in questo quarantennio in modo che la struttura della personalità individuale e sociale ha definito nel tempo modelli di appartenenza profondamente diversi.
Avant’ieri nella società contadina e proto-industriale la struttura della personalità prevalente era quella basata sui caratteri nevrotici. Era su queste basi che nasceva quell’etica del lavoro, del risparmio e dell’investimento, che in Emilia e Romagna si coniugava con quel solidarismo socialista che è stata, probabilmente, la base sulla quale è stato possibile coniugare l’attivismo individuale con la spinta alla cooperazione, che sarà alla base della costruzione di quel reticolo di intraprese individuali e gruppali che furono poi gli assi portanti della ricostruzione ed del boom economico.
Potremmo dire che il freudiano principio di realtà, nella società proto-industriale emiliana, diventa un particolare principio di prestazione che coniuga intrapresa e solidarietà, iniziativa individuale e cooperazione e che noi abbiamo definito etica padana del lavoro[7].
Ma è indubbio che soprattutto tutti gli altri territori più dinamici della società italiana nello stesso periodo abbiano trovato la propria spina dorsale in particolari e specifiche etiche del lavoro in grado di coniugare la propensione al risparmio e all’investimento con l’ethos particolare di ogni territorio.
Per cui il giovane di avant’ieri, educato in questo clima familiare e sociale, diventava una operosa formica tutta dedita al lavoro, che avrebbe visto con esecrazione alcuni più recenti aspetti della società italiana: quelli più consumistici.
E ancora ieri, nella società industriale, nata alla fine degli anni Cinquanta e che sviluppatasi negli anni del boom (1961 – 64), la struttura della personalità prevalente era ancora quella basata sui caratteri nevrotici.
Ma proprio a partire dal boom economico un numero rilevante di ceti e di classi sociali viene sospinto verso il consumismo. Questa spinta al consumo, tutta centrata sulle impellenze del presente, ha cominciato a minare alle basi le varie etiche del lavoro, poiché il consumismo fa a pugni con i principi del risparmio e dell’investimento, che implicano la rinuncia al piacere immediato e la sua procrastinazione al fine di poter costruire un progetto per l’avvenire.
Questa generazione di mezzo, come cercavamo di dire prima, risulta così dilacerata, soprattutto sul piano educativo, tra fedeltà all’etica padana del lavoro da una parte e adesione più o meno critica al consumismo dall’altra. Per cui – come emerge chiaramente dalla clinica (Jeammet, Pietropolli, Scabini) e dalla ricerca sociologica (Baudrillard, Bauman, Le Breton) – oggi, nella società postindustriale e terziarizzata, si assiste ad una eclissi della struttura della personalità nevrotica ed alla emersione ed alla diffusione fra i giovani di una struttura della personalità narcisistica di tipo anaclitico (Bergeret). Una personalità che per affermarsi, per mettersi in piedi, ha bisogno sempre di qualcuno o qualcosa con cui mantenere il contatto, qualcuno o qualcosa che aiuti, che sostenga, che tiri su. Qualcuno o qualcosa che riempia il soggetto di affetto o di oggetti di consumo che aiutino a non sentirsi soli, a non cadere in depressione, a sentirsi compresi; qualcuno e qualcosa che, dall’esterno si rivolga verso il soggetto anche nel momento della produzione, lo aiuti e dia senso al suo fare, che altrimenti sarebbe indefinibile e non giudicabile sul piano qualitativo, per l’assenza di introietti interni forti; qualcuno o qualcosa che, attraverso queste strade, aiutino il soggetto a definire i propri confini individuali.
Si assiste così al passaggio dalla società di Edipo a quella di Narciso. In altre parole ad un passaggio: – da società di tipo anancastico, cioè centrata sulle varie etiche del lavoro presenti nei territori più dinamici della società; – ad una società di tipo anaclitico, centrata su di una sorta di estetica consumista, all’interno della quale crescono i giovani d’oggi.
Passaggio però che solo in una prima fase – in Italia nella traiettoria finale della Prima Repubblica – si basa su una politica keynesiana di riforme, e su quei re-investimenti all’interno dell’economia reale che avevano permesso il boom e il varo di un numero enorme di riforme che rimane – nonostante le coeve gravi turbolenze – come elemento caratterizzante degli anni ’70[8].
Successivamente, a partire dall’abbandono delle politiche keynesiane e dal varo di quelle politiche neoliberiste presenti ancor oggi, comincia quella lotta di classe dopo la lotta di classe di cui parlava Gallino. E cioè un attacco pesantissimo al mondo del lavoro, sia direttamente attraverso il varo delle leggi sul precariato; sia indirettamente attraverso gli attacchi al welfare (aziendalizzazioni, tikettazioni, privatizzazioni, etc.); sia infine attraverso quel processo di svuotamento delle istituzioni democratiche di tipo elettivo[9] e l’accentramento dei poteri nelle mani di centri per lo più sovranazionali che indirizzano le politiche degli investimenti non più nel mercato reale ma nel campo della finanza.
Tutto ciò blocca quella mobilità verticale che aveva caratterizzato il periodo precedente; svuota sempre più di significato le istituzioni formative; e infine priva i nuovi Narcisi della speranza, li frammenta e li pone all’interno di limbo senza futuro e pieno di rischi.
Li confina in un nuovo tipo di famiglia: la famiglia lunga (Scabini, Zanatta ) in cui per un tempo spesso indefinito due generazioni adulte convivono: una – la più giovane – non ancora autonoma da un punto di vista economico, l’altra quella che declina, ma che, in base alla condizioni economiche in cui vivono i propri figli precari, in certo qual modo è “costretta” a svolgere ancora una funzione centrale: vedi l’imponente fenomeno del welfare familiare, che in Italia fino alla crisi del 2008 implicava un passaggio di oltre 80 miliardi di euro l’anno dai genitori e dai nonni ai loro figli.
E in ogni caso acuisce ancora di più il loro stato di dipendenza e la loro propensione a sentirsi realizzati solo nella loro bulimia consumistica.

c. La società multietnica

Ormai in molte province italiane – e in quella di Reggio Emilia in particolare – l’afflusso di immigrati ha da tempo superato quella soglia del 5% dei residenti che secondo i sociologi rappresenta lo spartiacque al di sopra del quale la presenza di immigrati non emerge agli occhi dell’opinione pubblica.
Questa ulteriore trasformazione della nostra società, intrecciandosi inestricabilmente con quelle profonde e già problematiche trasformazioni del tessuto sociale e familiare cui abbiamo accennato alla fine del paragrafo precedente, rende ancora più problematica la situazione attuale, e impone nuove e difficili sfide al mondo della scuola. Cerchiamo di analizzare a grandi linee gli elementi più problematici imposti da questa che per noi italiani è una significativa novità.
– Innanzitutto l’insieme degli immigrati, che ad uno sguardo superficiale può sembrare come un tutt’uno, in effetti è costituito da una pluralità di appartenenze culturali spesso assolutamente non sovrapponibili l’una alle altre. Se ciò da una parte richiede uno loro sforzo di adattamento agli elementi costitutivi della nostra cultura, al nostro modo di vivere, alle nostre leggi; dall’altra ci interpella circa la nostra disposizione all’incontro con ciascuno di loro con ciascuna cultura di cui sono portatori.
– Si determinano per questa strada una serie infinita di possibili impatti fra noi e loro, riconducibili essenzialmente a tre grandi alvei: la ghettizzazione, l’integrazione, e il meticciato sociale e culturale.
Avendo cura di dar loro tempo, poiché il primo impatto, che per noi continua ad essere problematico, per loro rappresenta un enorme sforzo per superare quella fase iniziale in cui soprattutto la prima generazione immigrata delle saper elaborare il duplice grave lutto rappresentato da una parte allo sradicamento dalla propria terra d’origine, dall’all’altra il passaggio dalle illusioni nell’emigrato alle delusioni dell’immigrato (Sayad).
E avendo cura da parte nostra di darci tempo per agglutinare il presente multietnico col il nostro passato, che non è solo rappresentato dalle nostre tradizioni, ma anche paradossalmente dalle denegate e dilaceranti migrazioni dei nostri avi.
– Per quanto riguarda le seconde generazioni occorre tener presente che fin dal momento del parto-nascita, in cui – come dice Marie Rose Moro – alla madre immigrata manca quel milieu familiare, amicale e di vicinato che aiuta a dar senso a ciò che sta accadendo, e a seguire lungo tutti periodi di passaggio lo stato di fragilità in cui essi ed i loro familiari vengono a trovarsi, li espone spesso a più gravi rischi rispetto ai soggetti in età evolutiva autoctoni.
– La Moro, oltre l’evento parto-nascita segnala come in particolar modo problematici sia l’impatto con l’operatività e la scuola, sia quello con la crisi puberale. Sottolineando in entrambi i casi lo sforzo doppio ch’essi devono fare rispetto ai coetanei autoctoni.
Nel caso dell’impatto con la scuola primaria cercando di combinare e portare a sintesi le funzioni originarie di inculturazione svolte dalle famiglie con quella di acculturazione ai valori della cultura dominante, svolta essenzialmente dalla scuola.
Nel momento della crisi puberale, trovandosi in questo caso di fronte all’esigenza di trovare la distanza giusta dai genitori senza rimanere avviluppati negli schemi della cultura d’origine, ma senza tradirla; inventare strategie di meticciamento in questo periodo. Esperienze più o meno creative, più o meno dolorose (Moro) con il rischio – di fronte al fallimento – di ferite narcisistiche che incidono sull’autostima.
– Infine mi permetto di aggiungere un elemento di ulteriore difficoltà, che mi deriva dalla clinica: il giovane immigrato alla fine del proprio percorso scolastico spesso si trova di fronte alla famiglia d’origine che, mutamente, ma sempre eloquentemente, spesso dà l’impressione di volerlo costringere a cercare un lavoro qualsiasi, per fornire aiuto immediato alla famiglia che spesso si trova ancora nelle precarie condizioni iniziali. Ciò però fa a pugni con due istanze che premono dentro di lui in questo momento, soprattutto in quei casi in cui ci sia stato un successo scolastico: la vocazione individuale nel frattempo individuata a scuola, cioè sul piano della affiliazione, e le istanze di tipo riparativo, che spesso – come ci ricordano i Grinberg – consistono nella predisposizione ai lavori di cura[10].

d. Una nota finale sulla scuola come luogo di passaggio odierno all’età adulta

Etimologicamente il termine adolescenza deriva dal latino adolesco che significa mi nutro.
Allorché si parla di adolescenza quindi si allude a quel tempo e a quello spazio in cui il ragazzo prima ed il giovane, poi, hanno bisogno di nutrirsi per crescere, per fortificarsi nel proprio processo di crescita psicologica che li porterà dalla fanciullezza all’età adulta.
Così come avviene nelle fiabe, in cui sempre il nutrimento materiale allude al nutrimento spirituale, nell’etimo del termine adolescenza vi è quindi una allusione ad un processo spirituale lungo il quale ci si fortifica e ci si arricchisce. Un processo di passaggio, più o meno cerimonializzato che richiede un tempo e uno spazio ad hoc, distinti da quelli dell’infanzia, così come da quelli adulti. Un processo in cui, come in ogni grande cambiamento, all’inizio si sa[11] che non si è più ciò che si era, ma non si sa affatto ciò che si sta diventando. Un processo, infine, che implica la costruzione di un progetto, e quindi di una idea sul proprio futuro in un aspro confronto con le vecchie e nuove imago genitoriali ideali da demolire, da ricostruire, da levigare, da agglutinare, da de-idealizzare, alla fine, e da adattare alle esigenze reali del mondo del lavoro ed alle coniugazioni possibili nel mondo degli affetti, una volta diventati adulti.
Da una indagine storica ed antropologica emerge poi un secondo dato in tema di passaggio: ogni società, infatti, definisce una propria modalità di passaggio, delle proprie cerimonie di passaggio; per cui non esiste una adolescenza, ma tante adolescenze, alcune delle quali sono così brevi che si esauriscono nell’atto stesso del passaggio; mentre altre si protraggono nel tempo molto a lungo, e – come la nostra(!) – non si sa bene quando finiscono.
Per comprendere le ragioni in base alle quali vi è da una parte una pluralità di modelli di passaggio, dall’altra una esigenza – comune a tutte le culture – di cerimonializzare il passaggio, occorre partire dal significato della cerimonializzazione.
Essa rappresenta, secondo l’antropologia e la psicoanalisi, un tentativo di elusione delle ansie e delle angosce collegate al lutto derivante da una perdita, reale o simbolica, sentita come tale sia dal soggetto che da tutta la società. L’atto della cerimonializzazione, anzi, al di là della singolarità dei contenuti delle varie cerimonie, è la modalità difensiva gruppale attraverso la quale in tutte le culture si esprime il lutto (Van Gennep).
Nel caso dell’adolescenza la perdita consiste nella fine della fanciullezza del soggetto – autoctono o migrante che sia – e nel suo passaggio ad un nuovo stato, quello adulto: il che equivale, in termini simbolici, ad una morte e ad una rinascita[12]. Mentre la cerimonia consiste in una serie di modalità gruppali di separazione, marginalizzazione e riaggregazione, che ogni società assume nella sua totalità, o attraverso l’istituzione di ‘sacerdoti del passaggio’ che accompagnino il giovane lungo questo tragitto in nome della società.
Il prolungamento sine die dei tempi dell’adolescenza rende sempre meno evidente oggi la sua presenza e la sua esigenza. Eppure gli adolescenti odierni sentono tanto questa esigenza di fare ricorso, al fine di segnare sul proprio corpo ogni significativo passo avanti fatto sul piano del passaggio all’età adulta. Le Breton definisce questi riti individuali come ‘cerimonie intime parallele’ alludendo al piercing, al tatuaggio, etc. –
Eppure la scuola è uno dei luoghi più importanti in cui si apprende a diventare adulti, e i docenti dei preadolescenti e degli adolescenti, insieme genitori e all’ecosistema adulto che ruota intorno ad essi (Pietropolli), svolgono oggettivamente la funzione di ‘sacerdoti del passaggio’. Il fatto che nel tempo delle democrature questa funzione sia dimenticata e denegata è un ulteriore segno dei tempi.

Bibliografia

  • Angelini L., La scuola di Narciso. Analisi, note, progetti, autoprod. con Amazon, 2020
  • Baudrillard D., J., La società  dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1976
  • Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002
  • Bergeret J, Personalità normale e patologica, Cortina, Mi, 1984
  • Callari Galli M., L’antropologia culturale e i processi educativi, La Nuova Italia, Fi, 1975
  • Durkheim E., Il suicidio,  UTET, Torino, 1970
  • Dutschke R, et al., La ribellione degli studenti, Feltrinelli, Milano, 1968
  • Gallino L., Finanzcapitalismo, Einaudi, To, 2014
  • Jeammet Ph.,  Psicopatologia dell’adolescenza, Roma, Borla, 1992
  • Le Breton D., Signes d’identité. Tatouages, piercing et autres marques corporales, Mètailié, Paris, 2002
  • Moro M.R. , Bambini immigrati in cerca di aiuto, UTET, Torino, 2001
  • Pietropolli Charmet G., I nuovi adolescenti, R. Cortina, Milano, 2000
  • Scabini E. et al., Giovani in famiglia fra autonomia e nuove dipendenze, Vita e Pensiero, Milano, 1997
  • Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino¸ Bollati Boringhieri, 1988
  • Vegetti Finzi S., Il Bambino della notte. Divenire donna, divenire madre, Mondadori, Milano, 1992.

[1] Struttura che ovviamente trae le sue fondamenta negli stili educativi che caratterizzano i primi scambi che avvengono nel gruppo primario, ma che solo in adolescenza comincia a concrezionarsi in una vera e propria costellazione di tratti specifici.
[2] Di lì a poco la pubblicità sarebbe stata diretta anche ai bambini. E addirittura agli adulti per tramite dei bambini!
[3] In altri termini: da una personalità di tipo ‘anancastico’ ad una di tipo ‘anaclitico’, nel senso che a queste due parole dà Bergeret.
[4] più tecnicamente è il famoso passaggio dal prevalere in adolescenza di un Ideale dell’Io megalomanico e onnipotente all’emergere di un Super Io adulto, riparativo ed autoriparativo, che parte dalla autoconsapevolezza della propria sempre relativa potenza.
[6] sul “residuo anancastico” vedi anche: “Recalcati e l’ultimo dei proci”
[7] Cfr.: Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista, in: Angelini, 2014, pp. 227\248
[8] Queste le più rilevanti: la nascita delle Regioni (1970) e, intorno ad esse, la nascita delle materne comunali e statali e degli asili nido; la riforma della scuola media (1962); la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962); la previdenza sociale unica (1969); l’abolizione delle gabbie salariali (1969); il varo dello statuto dei diritti dei lavoratori (1970); il divorzio (1970); la legislazione sul referendum (1970); la progressività fiscale (1974); il diritto di famiglia (1975); la legge urbanistica (1977); quella sull’aborto (1978); la 194 e i consultori; il servizio sanitario nazionale (1978); la chiusura dei manicomi (1978)
[9] che va sotto il nome di ‘democratura
[10] è per questo, penso, che nei paesi di meno recente immigrazione spesso la cura è in mano della seconda generazione immigrata.
[11] Ma non sempre in maniera tempestiva: infatti, come ci ricorda la Vegetti Finzi, mentre la ragazza è condotta dalla evidenza e dalla ciclicità del menarca a prendere atto dell’avvio del processo di cambiamento, non la stessa cosa avviene sempre nel ragazzo che, a causa della rapsodicità dell’erezione, può per un periodo più o meno lungo negare a se stesso il cambiamento e attardarsi nella fanciullezza.
[12] In alcune società, che privilegiano il dato della discontinuità su quello della continuità, il soggetto, dopo il passaggio, cambia anche aspetti molto nucleari della propria identità, quali ad es. il proprio nome, per cui, se nell’infanzia il soggetto aveva un nome x, allorché entra nella comunità degli adulti si chiamerà y

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