Reggio Emilia, Aprile 2012
Nell’interessante dibattito sulla cura le femministe italiane distinguono fra cura e lavoro di cura: il lavoro di cura sarebbe tutto ciò che sul piano della cura proviene dal welfare; mentre sotto il nome di “cura” da parte di alcune di esse, almeno, si tende a raggruppare astoricamente – e perciò genericamente – tutto ciò che c’era prima e rimane oggi sul piano della cura al di fuori del welfare.
In questo modo da una parte ci si riferisce ad una entità storica – il welfare – che in Europa è nata dopo la Seconda guerra mondiale, ed in Italia a cavallo del ’68. Mentre dall’altra si tende a comprendere ogni altra forma di cura all’interno di un contenitore unico, fondato essenzialmente sul fatto che da sempre la cura si coniuga solo al femminile.
Ora è indubbio che da sempre in ogni società la cura è stata “affidata” alle donne: quella fra uomo e donna è stata la prima divisione del lavoro – diceva la buonanima di Engels – basata, appunto, sul fatto che l’uomo procurasse il cibo e la donna si occupasse della prole.
Ma nel frattempo le cose si sono un po’ complicate: sono nate svariate classi sociali, varie culture, varie credenze religiose, ed in ultima istanza varie modalità di vita che si sono andate trasformando nel tempo e nello spazio, dando luogo ad una molteplicità di cure che – è vero – in ogni cultura sono enormemente squilibrate sul piano del genere, ma che pure presentano al proprio interno un insieme di stratificazioni che non possono essere ricondotte solo al genere, ed anzi per essere comprese necessitano di un’analisi più puntuale e specifica, che comprenda un discorso di genere ma non si esaurisca in esso.
Insomma, raccogliere in un unico calderone ciò che la cura è stata e continua ad essere mi pare non aiuti a mettere a fuoco ciò che realmente è avvenuto nel tempo all’interno delle varie classi sociali e delle varie tradizioni culturali; e finisce col trasformare le donne in Donna e le cure in Cura.
Mentre, in totale discrasia con questo discorso astorico sulla Donna e sulla Cura, si tende a vedere il lavoro di cura, cioè il welfare, come qualcosa che viene dall’esterno del genere, quando è chiaro non solo che il welfare – qualsiasi welfare! come hanno ben messo in luce i sociologi (e soprattutto le sociologhe) di ogni latitudine – è nelle mani delle donne, che in questo modo sono comprese nel lavoro di cura sia come operatrici che come fruitrici; ma anche che dappertutto sono stati i movimenti femminili e femministi a imporlo e – con significative eccezioni che meritano una riflessione anche di genere, ma non solo di genere – a immaginarlo e guidarlo, nel bene e nel male.
A partire da questa immagine scissa della cura, in primo luogo, rischiamo di rimanere schiavi di immagini ideologiche e astoriche della maschilità e della femminilità.
In secondo luogo – e in conseguenza di questa scissione che ci spinge ad inforcare un paio di occhiali che impediscono una messa a fuoco storica, sociale e culturale della cura – rischiamo di non riuscire a capire di volta in volta di quale cura si tratti, quali siano i protagonisti e quali gli antagonisti all’interno di ogni specifico modello di cura, quali le ragioni degli uni e degli altri, e di conseguenza cosa fare in concreto di volta in volta sia sul piano di classe, sia, paradossalmente, anche sul piano di genere.
Faccio l’esempio della scuola e della prescuola per farmi comprendere: in Italia la presenza nella scuola dell’obbligo di un 96% di maestre e nella fascia prescolare del 100% di educatrici pone praticamente in mano alle donne l’educazione dei bambini dagli zero ai quattordici anni.
Non so se mi spiego: prima e seconda infanzia, fanciullezza e preadolescenza in mano alle donne!
Ma – domanda – sono tutte uguali queste donne? Sono attraversate dagli stessi modelli formativi? E da dove proviene la presenza in loro di questi modelli formativi? Da parte di “madre”? E di quale madre? Da parte di “padre”? E di quale padre? Quali modelli di maschilità e di femminilità esse trasmettono ai loro allievi, per quali vie e perché?
In questo modo da una parte ci si riferisce ad una entità storica – il welfare – che in Europa è nata dopo la Seconda guerra mondiale, ed in Italia a cavallo del ’68. Mentre dall’altra si tende a comprendere ogni altra forma di cura all’interno di un contenitore unico, fondato essenzialmente sul fatto che da sempre la cura si coniuga solo al femminile.
Ora è indubbio che da sempre in ogni società la cura è stata “affidata” alle donne: quella fra uomo e donna è stata la prima divisione del lavoro – diceva la buonanima di Engels – basata, appunto, sul fatto che l’uomo procurasse il cibo e la donna si occupasse della prole.
Ma nel frattempo le cose si sono un po’ complicate: sono nate svariate classi sociali, varie culture, varie credenze religiose, ed in ultima istanza varie modalità di vita che si sono andate trasformando nel tempo e nello spazio, dando luogo ad una molteplicità di cure che – è vero – in ogni cultura sono enormemente squilibrate sul piano del genere, ma che pure presentano al proprio interno un insieme di stratificazioni che non possono essere ricondotte solo al genere, ed anzi per essere comprese necessitano di un’analisi più puntuale e specifica, che comprenda un discorso di genere ma non si esaurisca in esso.
Insomma, raccogliere in un unico calderone ciò che la cura è stata e continua ad essere mi pare non aiuti a mettere a fuoco ciò che realmente è avvenuto nel tempo all’interno delle varie classi sociali e delle varie tradizioni culturali; e finisce col trasformare le donne in Donna e le cure in Cura.
Mentre, in totale discrasia con questo discorso astorico sulla Donna e sulla Cura, si tende a vedere il lavoro di cura, cioè il welfare, come qualcosa che viene dall’esterno del genere, quando è chiaro non solo che il welfare – qualsiasi welfare! come hanno ben messo in luce i sociologi (e soprattutto le sociologhe) di ogni latitudine – è nelle mani delle donne, che in questo modo sono comprese nel lavoro di cura sia come operatrici che come fruitrici; ma anche che dappertutto sono stati i movimenti femminili e femministi a imporlo e – con significative eccezioni che meritano una riflessione anche di genere, ma non solo di genere – a immaginarlo e guidarlo, nel bene e nel male.
A partire da questa immagine scissa della cura, in primo luogo, rischiamo di rimanere schiavi di immagini ideologiche e astoriche della maschilità e della femminilità.
In secondo luogo – e in conseguenza di questa scissione che ci spinge ad inforcare un paio di occhiali che impediscono una messa a fuoco storica, sociale e culturale della cura – rischiamo di non riuscire a capire di volta in volta di quale cura si tratti, quali siano i protagonisti e quali gli antagonisti all’interno di ogni specifico modello di cura, quali le ragioni degli uni e degli altri, e di conseguenza cosa fare in concreto di volta in volta sia sul piano di classe, sia, paradossalmente, anche sul piano di genere.
Faccio l’esempio della scuola e della prescuola per farmi comprendere: in Italia la presenza nella scuola dell’obbligo di un 96% di maestre e nella fascia prescolare del 100% di educatrici pone praticamente in mano alle donne l’educazione dei bambini dagli zero ai quattordici anni.
Non so se mi spiego: prima e seconda infanzia, fanciullezza e preadolescenza in mano alle donne!
Ma – domanda – sono tutte uguali queste donne? Sono attraversate dagli stessi modelli formativi? E da dove proviene la presenza in loro di questi modelli formativi? Da parte di “madre”? E di quale madre? Da parte di “padre”? E di quale padre? Quali modelli di maschilità e di femminilità esse trasmettono ai loro allievi, per quali vie e perché?
E poi ancora: prescuola e scuola. Luoghi di cura per lo più (ancora) pubblici in cui si forgiano gli uomini e le donne di domani. Luoghi che anche qui da noi in Emilia e Romagna tendono ad essere privatizzati, aziendalizzati, esternalizzati! è di pochi anni fa la notizia che a Modena uomini e donne hanno lottato, e vinto, perché i nidi rimanessero pubblici.
Come ci schiereremo quando toccherà a noi reggiani esprimerci su questi problemi? E quel nostro schierarci, o no, sarà fondato solo su un discorso di genere? e – nel caso – quale?
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