Che cosa fa sì che un rapporto d’amore arricchisca la vita interiore di una persona, oppure la mortifichi, facendo leva sulle sue tendenze auto-lesionistiche? Molto dipende dalla sua storia infantile, da cui deriva la capacità di concepire e investire affettivamente una relazione sana e costruttiva, piuttosto che una perversa. La scelta di un partner di un certo tipo, anziché di un altro, dipende spesso da una chiara riedizione del rapporto antico con i genitori, e di quello fra di loro.
Tutto questo a molti è già ampiamente noto e può apparire persino ovvio. Tuttavia, se illustrato da chi sa vivere e far vivere le esperienze – e non solo descriverle –, ossia dal Poeta, tale vissuto ci appare chiaro in tutta la sua complessità. Shakespeare, ad esempio, ce ne parla nei Sonetti CXXXI, CXXXII e CXXXIII.
(Per inciso: nei miei commenti faccio riferimento solo al punto di vista maschile, perché Shakespeare parla di sé stesso. Il punto di vista femminile è pressoché speculare, tenendo conto che, in un rapporto sano, anche il partner che una donna sceglie è bene sia una persona comprensiva, affettuosa e “materna”)
CXXXI pag. 152
Thou art as tyrannous, so as thou art,
As those whose beauties proudly make them cruel:
For well thou know’st to my dear doting heart
Thou art the fairest and most precious jewel.
Yet in good faith some say that thee behold,
Thy face hath not the power to make love groan;
To say they err, I dare not be so bold,
Although I swear it to myself alone.
And to be sure that is not false I swear
A thousand groans but thinking on thy face,
One on another’s neck do witness bear
Thy black is fairest in my judgement’s place.
In nothing art thou black save in thy deeds,
And thence this slander as I think proceeds.
[Tu, per così come sei, sei altrettanto tiranna / quanto quelle che la bellezza rende arroganti e crudeli; / perché sai bene che, per il mio cuore innamorato, / tu sei il gioiello più bello e più prezioso. / Eppure, alcuni che ti vedono dicono in buona fede / che il tuo viso non ha il potere di far gemere d’amore; / io non sono tanto audace da dire che sbagliano, / benché a me stesso io giuri ciò. / E affinché sia certo che non è falso quel che giuro / mille gemiti, sol che io pensi al tuo viso / uno dietro l’altro sono testimoni / che il tuo nero (brutto) io lo giudico il più biondo (bello). / Tu non sei nera (brutta) se non nelle tue azioni; / da ciò, io credo, proviene tale calunnia.]
La persona amata, oggetto d’investimento narcisistico idealizzante, è percepita come dotata, al massimo grado, delle migliori qualità: appare, agli occhi dell’innamorato, bellissima; e questo l’innamorato lo può giurare perché tale percezione riflette una sua realtà interiore indiscutibile. Da ciò consegue che, come tutti gli esseri cui si attribuisce il massimo valore, possiede il potere di trattare a suo piacimento coloro che l’ammirano: la donna amata, grazie al suo fascino, è regina e può comportarsi da tiranna. L’originario rapporto del neonato “onnipotente” con chi lo ha messo al mondo si riproduce a parti invertite, grazie all’investimento narcisistico idealizzante dell’amore.
Tuttavia, l’esistenza di una o più persone al di fuori del rapporto potrebbe garantire che l’innamoramento non sconfini nel delirio: il soggetto può prendere atto che costoro non vedono tale donna nel suo stesso modo, dato che ravvisano in lei un essere umano come gli altri. Paradossalmente, i due punti di vista possono coesistere. Può, inoltre, prendere atto che l’amata-tiranna non agisce a suo favore (la visione di lei non produce espressioni d’ammirazione e piacere, ma “gemiti”), mentre con gli altri è diversa. Nel supremo valore dell’oggetto arcaico idealizzato (vissuto nell’ambito di una situazione affettiva che inizia ad essere “triangolare”: soggetto – oggetto d’amore – terza/e persone) c’è la radice della distinzione fra quel che una persona è – ossia, nel caso della donna amata, dotata per l’innamorato di una bellezza e di un valore indiscutibili – e quel che fa, che può essere discutibilissimo: la persona amata non è brutta, se non nelle sue azioni.
Nondimeno, l’attaccamento alla persona idealizzata è irrinunciabile, qualunque cosa faccia. Ecco perché, quando agisce male, mentre gli altri la giudicano “brutta” e la evitano, l’innamorato finisce per vedere “bella” la sua stessa bruttura. C’è qui una perversione del giudizio che può essere la premessa di un rapporto masochistico autodistruttivo. Ciò può esser corretto solo da quanto il Poeta descrive nel sonetto seguente.
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CXXXII pag. 152
Thine eyes I love, and they as pitying me,
Knowing thy heart torments me with disdain,
Have put on black, and loving mourners be,
Looking with pretty ruth upon my pain.
And truly not the morning Sun of Heaven
Better becomes the grey cheeks of th’East,
Nor that full Star that ushers in the Even
Doth half that glory to the sober West
As those two mourning eyes become thy face:
O let it then as well beseem thy heart
To mourn for me since mourning doth thee grace,
And suit thy pity like in every part.
Then will I swear Beauty herself is black,
And all they foul that thy complexion lack.
[Amo i tuoi occhi ed essi, come se avessero compassione di me, / sapendo che il tuo cuore mi tormenta col suo disdegno, / si son messi a lutto ed amorevolmente piangono, / guardando con soave pietà il mio dolore. / E invero non il sole del cielo mattutino / meglio trasforma le grige guance dell’Oriente / né il lucente astro che inaugura la sera / dà altrettanto (metà) splendore all’austero Occidente / quanto quei due occhi piangenti il lutto trasformano il tuo viso. / Oh! Fa’ dunque che s’addica il tuo cuore / ad un lutto per me, perché ciò ti conferisce grazia / e si vesta di pietà ogni parte di te. / Io allora giurerò che la Bellezza stessa è vestita a lutto, / e laide sono quelle che non hanno il tuo incarnato.]
La donna-tiranna del precedente sonetto diventa qui una donna-mamma, molto più umana, capace di condividere empaticamente il “lutto” del soggetto per la perdita della sua autostima; e questo nonostante tale frustrazione sia stata causata da lei stessa. Ciò è significativo di rammarico e promette un atto riparativo. Nella storia antica dell’individuo, tale atteggiamento è ciò che rende “ottimale” la frustrazione (Kohut), ossia quanto la fa divenire tollerabile grazie all’empatia e all’affetto materni. In assenza di quest’aspetto, la genitrice non può che continuare ad essere vissuta come “tiranna”, anche se la delusione che ha provocato è inevitabile e giustificata da necessità oggettive.
La donna-mamma affettuosa – “umile e alta più che creatura” – è una regina che sa mettersi nei panni del suo suddito, evitando d’esasperare il suo malcontento, e ristabilendo l’equilibrio e l’armonia sia nel mondo interno dell’innamorato, sia nell’immagine che offre di sé stessa e nel rapporto con lei: il lutto che condivide col soggetto le conferisce maggiore grazia. Ciò facendo, ristabilisce una relazione di armonia anche con la realtà esterna: se essa impone qualcosa di “brutto” (la frustrazione), la percezione di questo non viene più pervertita, volendolo vedere paradossalmente “bello” se causato dalla persona amata. Il brutto resta brutto, ma diviene accettabile, in quanto realtà ineludibile. Tale percezione realistica del mondo esterno, da parte del soggetto frustrato, è resa possibile da una madre affettuosa ed empatica o da una donna che sa anche essere mamma.
Ora che il Poeta ha ritrovato un amore autentico e sano, la visione perversa di chi lo tiranneggia pare, al momento, superata. La donna-tiranna che non sa porsi come mamma amorevole non è più una persona vista come “bella” anche se è “brutta”: è una persona non sufficientemente umana, una donna animalesca, “laida” e senz’altro “brutta”. Meglio evitarla. Purtroppo ricompare, anche nel rapporto triangolare, nel sonetto seguente.
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CXXXIII pag. 154
Beshrew that heart that makes my heart to groan
For that deep wound it gives my friend and me;
Is’t not enough to torture me alone,
But slave to slavery my sweet’st friend must be.
Me from myself thy cruel eye hath taken,
And my next self thou harder hast engrossed,
Of him, myself, and thee I am forsaken,
A torment thrice three-fold thus to be crossed:
Prison my heart in thy steel bosom’s ward,
But then my friend’s heart let my poor heart bail,
Who e’er keeps me, let my heart be his guard,
Thou canst not then use rigour in my jail.
And yet thou wilt, for I being pent in thee,
Perforce am thine and all that is in me.
[Maledetto sia quel cuore che fa gemere il mio cuore / per quella profonda ferita che infligge al mio amico e a me! / Non è abbastanza torturare me solo, / ma anche il mio dolcissimo amico deve essere schiavo alla stessa schiavitù? / Il tuo occhio crudele ha sottratto me a me stesso, / e più tenacemente ancora hai catturato (assorbito) a te l’altro me stesso; / da lui, da me, da te sono ora abbandonato. / Ahi! Quale triplice tortura essere così tre volte messo in croce! / Imprigiona il mio cuore nella cella del tuo petto d’acciaio, / ma lascia che al mio povero cuore il cuore del mio amico sia affidato; / chiunque sia il mio guardiano, lascia che a guardia di lui sia il mio cuore; / tu allora non potrai usar tanto rigore nella mia prigione. / Ma tu lo farai, perché essendo io racchiuso in te / per forza sono tuo, e tuo è tutto ciò che è in me.]
In questo sonetto, le relazioni primitive del bambino (o del bambino che sopravvive nel fondo dell’animo di tutti noi) si estendono più decisamente ad un rapporto triangolare. Esso, finché soddisfa le esigenze fondamentali del piccolo, assume la forma della “triade narcissique” descritta da Grünberger. Il Poeta qui vive (e ci fa vivere) l’esperienza della “altra faccia” di tale situazione primitiva, quando l’equilibrio si rompe.
Finché tale equilibrio permane, il soggetto è come “padrone dei suoi padroni”. Questi ultimi è come se vivessero per soddisfare le sue esigenze narcisistiche. Ciascuno dei due sembra non avere altro rapporto privilegiato che non sia col soggetto, ed anche la relazione fra loro è esclusivamente in funzione del soggetto stesso. Ognuno svolge un suo specifico compito: nell’iconografia religiosa tradizionale (riprodotta in termini laici ne “La tempesta” del Giorgione), la Madonna-mamma e il Divin Fanciullo sono al centro della scena. Lei lo tiene fra le sue braccia, lo accudisce e lo nutre. Il S. Giuseppe-padre è quasi sempre in disparte, pronto ad intervenire, all’occorrenza, per proteggere e soccorrere la coppia. Nessuno dei due genitori chiede qualcosa per sé stesso, né l’uno all’altro, né al Bambino. Quest’ultimo, grazie al rapporto armonioso con chi l’ha messo al mondo, s’impadronisce gradualmente del suo valore e di sé stesso.
Tuttavia, nulla è perfetto: tale armonia può rompersi. La madre può recuperare tutto il potere che possedeva nel rapporto duale ed esercitarlo, stavolta, anche nei confronti del padre: la donna-mamma torna ad essere regina-tiranna. Se la donna s’impadronisce di questo genitore, il bambino subisce una triplice perdita: quella della madre, del padre e anche di sé stesso, in quanto può sentire d’esistere con un qualche valore solo grazie all’attenzione esclusiva dei genitori. Ciò può verificarsi in modo traumatico in rapporto alla “scena primaria”. Ecco perché una delle possibili evoluzioni successive può essere il ritorno ad una sottomissione masochistica alla donna-madre-tiranna, padrona esclusiva di tutto e di tutti.
Solo se i genitori sono dotati di capacità di comprensione empatica, la frustrazione del bisogno narcisistico di una “triade” può non essere traumatica, ma graduale e “ottimale” (Kohut); come tale capace di produrre una maturazione. Il bambino comprenderà gradualmente la reale natura dei genitori, in quanto persone adulte unite in un rapporto d’amore in cui nessuno dei due è “padrone”; identificandosi con uno di loro, potrà gradualmente accedere lui stesso in modo sano all’età adulta. Nella situazione illustrata da Shakespeare questo, purtroppo, non succede.
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