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Malebolge (Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico – I Inferno, 4 Cerchio VIII)

8 Mag 24

A cura di Sabino Nanni

        Pubblico qui la quarta parte del mio lavoro “Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico” in cui raccolgo e commento i suggerimenti che l’Autore della Divina Commedia offre al clinico che si occupa della mente. In questa sezione, considero le dieci bolge del Cerchio VIII dell’Inferno (detto Malebolge), in cui vengono puniti i “fraudolenti contro chi non si fida”. Si tratta di individui sciagurati che s’illusero d’ingannare impunemente la vita ed i propri simili, ma finirono per ingannare anche sé stessi. La realtà (che per Dante è la Giustizia divina) non ammette false scorciatoie e raggiri, e prima o poi – se non altro in fin di vita, e per il Poeta nell’oltretomba – “presenta il conto”, molto caro, delle scelte sbagliate. Sono, quindi, di grande interesse, per noi medici della mente, i tredici canti in cui si parla della catastrofe finale di queste “anime”, e di cui noi clinici possiamo cogliere i segni premonitori, utili per prevenirla.


Canto XVIII

        Smontati dal dorso di Gerione, Dante e Virgilio sono ora nell’ottavo cerchio, detto “Malebolge” (da “bolgia”, ossia bisaccia, sacca), in cui scontano la loro pena i fraudolenti contro chi non si fida. Così il Poeta descrive questo luogo:


pag. 255, vv 1 – 3
Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra e di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.

Le parole di Dante suonano qui aspre e dure, come la “pietra di color ferrigno” che esse descrivono. Domina un colore spento, tetro, che evoca una vita interiore priva della vitalità di autentiche passioni. La “depravazione dell’anima” (De Sanctis) dei fraudolenti le ha annientate.

 

        Nel centro di questo luogo si apre un pozzo ampio e profondo, sulle cui pareti sono scavate dieci fosse (o “valli”, o “bolge”) ciascuna destinata ad un particolare tipo di fraudolento. Procedendo dietro a Virgilio lungo la parete infernale, Dante vede, al suo fianco destro, la prima bolgia. Qui sono puniti i seduttori, divisi in “seduttori per conto d’altri” (o ruffiani) e “seduttori per conto proprio”. Costoro sono costretti a correre nudi, frustati da diavoli cornuti, e sono divisi in due gruppi che procedono in direzioni opposte. I ruffiani corrono nella parte esterna della bolgia, più vicini ai Poeti ed in senso contrario ad essi (“venìen verso ‘l volto”). I seduttori per conto proprio procedono nella zona interna, nella stessa direzione in cui camminano Dante e Virgilio (“con noi”), ma più spediti (“con passi maggiori”)


pag. 260, vv 22 – 27
Alla man destra vidi nova pièta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.

Nel fondo erano ignudi i peccatori:
dal mezzo in qua ci venìen verso ‘l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,

        Gli aguzzini di questi dannati sono i diavoli cornuti. Essi percuotono i peccatori con sferzate talmente violente che ciascuno dei frustati, sentito il primo colpo, solleva le calcagna (“le berze”) per non ricevere il secondo e il terzo:


pag. 262, vv 34 – 39
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battìen crudelmente di retro.

Ahi come facean lor levar le berze
alle prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.

        Colpisce, in quest’immagine, la completa impotenza di questi dannati ed il carattere umiliante della loro punizione. “Ignudi”, ossia spogliati di tutti gli espedienti – nel loro caso particolare, delle capacità seduttive – con cui sopraffecero i propri simili, e se ne difesero, ora devono subire passivamente, e del tutto inermi, la violenza dei demoni.
        Questo, come altri casi di contrappasso, merita alcune considerazioni. C’è, qui, la Giustizia Divina” (ossia, come già si è detto, in termini laici è la realtà che inesorabilmente fa pagare il prezzo di scelte sbagliate): come costoro, tramite la frode della seduzione, resero incapaci di difendersi le loro vittime, ora sono posti nella stessa condizione di chi aggredirono. Come, nella vita terrena, acquisirono con l’inganno un ascendente immeritato, ora sono condannati ad una situazione mortificante.
        Il clinico, tuttavia, è stimolato a costruire una possibile storia di questi individui. Un’ipotesi è questa: essi cercarono di sfuggire ad una condizione originaria di umiliazione e impotenza sviluppando la capacità d’ingannare e sedurre; ma ora questa scelta si rivela sbagliata: prima o poi, il loro modo di farsi valere fallisce, ed essi, privi di altre risorse, ripiombano nella situazione cui credevano di sottrarsi.
        Tuttavia occorre tener presente che il Poema dantesco è l’illustrazione di una sorta di sogno; e si sa che l’attività mentale onirica, in gran parte dominata dai “processi primari”, non conosce una causalità lineare né una successione temporale. Dire che l’umiliazione ha reso questi individui seduttivi è altrettanto esatto, o altrettanto sbagliato, quanto dire che la seduzione (prima o poi fallita) li ha portati all’umiliazione. È solo tramite la “elaborazione secondaria” (attiva, per lo più, quando si ricordano e si raccontano i sogni) che si stabiliscono nessi causali e successioni temporali. È quanto il terapeuta cerca di fare nel momento in cui formula le sue “costruzioni” in analisi.

 

        Dante ha l’impressione che, fra i dannati, ce ne sia uno che gli pare d’aver già visto (“di veder costui non son digiuno”), per cui si ferma (“i piedi affissi”) e, per meglio osservarlo, ritorna un poco indietro col consenso di Virgilio (il “dolce duca”). Tuttavia quel peccatore, vergognandosi di mostrarsi in quella condizione, china il viso a terra. Ciò nonostante, il Poeta lo riconosce. Gli dice che se le sue fattezze (“fazion”) non sono ingannevoli egli è il bolognese Venedico Caccianemico. Gli chiede che cosa lo ha condotto (“che ti mena”) a tali “pungenti salse”. È probabile che qui ci sia un doppio senso: salse piccanti, non a tutti gradite, ma anche le “Salse”: un luogo presso le mura di Bologna in cui si seppellivano le persone ritenute infami: i giustiziati, i suicidi, gli scomunicati.


pag. 262 – 263, vv 40 – 51
Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
“Già di veder costui non son digiuno”;

per ch’io a figurarlo i piedi affissi:
e ‘l dolce duca meco si ristette,
e assentìo ch’alquanto in dietro gissi.

E quel frustato celar si credette
bassando il viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette,

se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico:
ma che ti mena a sì pungenti salse?”

        Venedico Caccianemico, appartenente ad una nobile famiglia bolognese di parte guelfa, sostenne le mire dei marchesi d’Este sulla sua città. Ora, vedendosi scoperto e ricordandosi della sua vita terrena (il “mondo antico”), è costretto a confessare d’aver indotto la sorella Ghisolabella a concedersi al marchese Obizzo II d’Este.


pag. 263, vv 52 – 57
Ed elli a me: “Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del Marchese,
come che suoni la sconcia novella.

        In Venedico, come in altri fraudolenti, non si nota traccia di rammarico, o di nostalgia, e neppure di rancore. L’unico sentimento che costoro manifestano è la vergogna, che equivale ad un’ammissione di colpa senza pentimento. È lo stato d’animo di chi avrebbe avuto bisogno di trovare, negli altri, conferma di proprie qualità apprezzabili, ma ha incontrato scherno, o riprovazione, o indifferenza (Kohut). È il sentimento di chi si sente disprezzato da Dio e dagli uomini, oltre che da lui stesso. Vengono in mente le parole terribili con cui si chiude “Il processo” di Kafka: “E gli sembrò che solo la vergogna gli sopravvivesse” – Per inciso, c’è in Kafka il paradosso dei sommi Artisti: persino quando esprimono la loro totale assenza di pregi per cui possano essere stimati e ricordati, al tempo stesso dimostrano di possedere un grandissimo valore che difficilmente sarà dimenticato.
        Il Marchese per compiacere il quale il Caccianemico ha prostituito la sorella è Obizzo II d’Este. Abbiamo già incontrato costui tra i tiranni, nel primo girone del VII cerchio (Inferno, XII, v 111). Venedico, oltre che ruffiano, è stato colluso nei confronti di un despota che una persona dotata di sano orgoglio e d’onestà avrebbe dovuto semmai contrastare. La vicenda dimostra anche come una scelta gravemente sbagliata (quella di sottomettere i propri simili con la forza) provochi, come una sorta di reazioni a catena, altre scelte sbagliate: quelle di chi si prostra, ponendosi in una condizione vergognosa.

 

        Il Caccianemico, come se il condividere con altri la stessa condizione vergognosa la rendesse meno riprovevole, sostiene di non essere il solo bolognese ad espiare la stessa colpa: la bolgia, così dice, è piena d’individui che, parlando nel suo stesso idioma, dicono “sipa” per esprimere affermazione, come si usa nel territorio fra i fiumi Sàvena e Reno. Costoro, il cui animo è del tutto privo di benvolere e generosità (“avaro seno”), sono portati a commettere lo stesso suo peccato. Mentre egli parla, un demone lo percuote con la sua sferza (“scuriada”), e lo caccia via apostrofandolo con parole sprezzanti.


pag. 263, vv 58 – 66
E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo luogo tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese

a dicer ‘sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
recati a mente il nostro avaro seno.”

Così parlando il percosse un demonio
della sua scuriada, e disse: “Via,
ruffian! qui non son femmine da conio.”

        Questo dannato riconduce la sua colpa all’animo “avaro” che lo accomuna ai suoi concittadini. Usa la parola “seno” che, definito “avaro”, evoca com’è ovvio un’imago materna che non offre un adeguato alimento. Quest’idea trova conferma ed ulteriore sviluppo nelle parole del demonio, per il quale le uniche persone che possono interessare il Caccianemico sono “femmine da conio”, ossia donne che possono offrire le loro grazie solo per denaro; femmine, quindi, avare d’amore.
        “Conio”, oltre che denaro, nel linguaggio dell’epoca significa anche “inganno”: quindi donne che possono essere conquistate solo col raggiro della seduzione. Simili appartenenti dell’altro sesso sono le uniche che il Caccianemico conosce. Dà per scontato che siano persone prive di dignità: nessuno scrupolo, quindi, a corromperle e a prostituirle. La seduzione o la corruzione, per questi dannati, rappresentano i soli mezzi che possono influenzare il sesso femminile; escludono a priori l’amore. Finiranno, perciò, per incontrare donne, a loro volta, incapaci d’amare e sensibili solo al denaro o all’inganno. È questa la punizione che la realtà infligge a tali peccatori già nella vita terrena.

 

        Dante raggiunge Virgilio. I due Poeti, dopo pochi passi, si avvicinano ad uno scoglio che fa da ponte sopra la bolgia. Vi salgono agevolmente; poi, raggiunta la sommità, si soffermano ad osservare la seconda schiera: quella dei seduttori per conto proprio. Anch’essi frustati dai diavoli, si muovono in fila in senso opposto ai ruffiani.
        Virgilio indica a Dante un dannato, definendolo un “grande”. Costui, a differenza degli altri peccatori (piegati dalla mortificazione e dalla vergogna), mantiene un aspetto regale e dignitoso: rimane impassibile alle sferzate (“non par lagrima spanda”). Si tratta di Giasone, l’eroe della leggenda greca. Egli condusse con coraggio e assennatezza (“con cuore e con senno”) la spedizione degli Argonauti nella Colchide, alla conquista del vello d’oro (“li Colchi del monton privati fène”)


pag. 264, vv 82 – 87
E ‘l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: “Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrima spanda:

quanto aspetto reale ancor ritiene!
Quelli è Iasòn, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati fène.

        Virgilio prosegue menzionando le colpe di Giasone: durante la spedizione, approdato all’isola di Lemno, sedusse Isifile, figlia del re Toante, abbandonandola poi dopo averla resa gravida. Le donne di quest’isola avevano ucciso tutti i maschi perché le trascuravano. Solo Isifile risparmiò il padre, facendo credere alle altre d’averlo ucciso. Giasone sedusse e abbandonò anche Medea, che pure lo aveva aiutato a compiere la sua impresa. Con queste parole, Virgilio conclude la sua descrizione della prima bolgia e di coloro che essa tormenta (“assanna”: azzanna).


pag. 266, vv 88 – 99
Ello passò per l’isola di Lenno,
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.

Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.

Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.

Con lui sen va chi da tal parte inganna:
e questo basti della prima valle
sapere e di color che ‘n sé assanna.”

        Giasone, a differenza degli altri dannati di questa bolgia, mantiene un atteggiamento dignitoso: non fu solo un seduttore fraudolento, fu anche un eroe, degno di stima (e di autostima) per la sua forza d’animo e la sua saggezza. Anche qui il Poeta suggerisce al clinico quanto sia importante che il paziente/dannato, pur nella condizione avvilente della rovina e della malattia, ricordi (e sia aiutato a ricordare) di possedere anche qualità degne di apprezzamento. Se l’autostima non crolla del tutto, è più facile che il malato mantenga il rispetto per sé stesso su cui si fonda il desiderio di guarire, e di collaborare col curante.
        Nonostante le sue buone qualità, Giasone si macchiò di gravi colpe. Dante le spiega (ma non le giustifica) accennando al mito, di cui ritiene che il lettore sia a conoscenza. Le donne di Lemno suscitarono l’ira di Afrodite perché ne avevano trascurato il culto. Per punizione, la Dea le rese maleodoranti e, quindi, sgradevoli all’altro sesso. Esse, come ritorsione, uccisero tutti i maschi dell’isola che le ignoravano. La paura e la diffidenza portarono Giasone a generalizzare il suo giudizio negativo sulle donne di Lemno; ciò gl’impedì di capire che Isifile era, nell’isola, l’unica persona degna d’amore. La trattò, pertanto, senza alcun riguardo: la sedusse, pensando così di “rabbonirla”, e poi l’abbandonò. Dante accenna soltanto ad un’analoga colpa commessa ai danni di Medea, senza fornirne una spiegazione.

 

        Percorrendo il ponte (“lo stretto calle”), i Poeti giungono al punto in cui questo s’incrocia con l’argine che delimita la seconda bolgia e su cui trova appoggio (“spalle”) un altro ponte. Dante avverte la presenza, nella bolgia, di gente che si lamenta (“si nicchia”), che respira con forza (“scuffa”) – presumibilmente per riprender fiato dopo essere stata sommersa e per liberare le narici e la bocca da materia disgustosa –, e che si percuote con le mani. Le pareti di questa bolgia sono ricoperte da una sorta di muffa, sgradevole alla vista e all’olfatto (“con li occhi e col naso facea zuffa”), simile alla gruma delle botti (“grommate”), prodotta dalle esalazioni del fondo (“per l’alito di giù”). La fossa è così cupa e profonda che, per vedere i dannati, i Poeti devono montare sulla sommità del ponte. Compare, quindi la schiera dei peccatori (gli adulatori) immersa (“attuffata”) nello sterco, materiale ripugnante che pare provenire dai cessi delle case (“dalli umani privadi parea mosso”)


pag. 266 – 268, vv 100 – 114
Già eravam là ‘ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle.

Quindi sentimmo gente che si nicchia
nell’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
luogo a veder sanza montare al dosso
dell’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che dalli uman privadi parea mosso.

        Fra gli adulatori, Dante scorge un personaggio a lui noto. Lo descrive con sprezzante ironia: il suo capo è così lordo di sterco, che non si capisce se sia un laico oppure un religioso con la cherica sacerdotale. Questi, gridando in tono di rimprovero (“sgridò”), accusa Dante d’essere particolarmente indiscreto con lui. Essendo riconosciuto dal Poeta come Alessio Interminelli da Lucca, il dannato si batte il capo (“la zucca”), e confessa d’essere immerso nella bolgia degli adulatori a causa delle lusinghe di cui la sua lingua non fu mai sazia (“stucca”)


pag. 268 – 269, vv 115 – 126
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un sol capo sì di merda lordo,
che non parea s’era laico o cherco.

Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì ingordo
di riguardar più me che li altri brutti?”
E io a lui: “Perché se ben ricordo,

già t’ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti.”

Ed elli allor, battendosi la zucca:
“Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca.”

        Lo sterco, simbolo del rifiuto, domina la bolgia degli adulatori. Essi, adescando le loro prede con lusinghe che facevano presa sulla loro vanità infantile, di fatto rifiutarono (“gettandovi sterco”) di riconoscere gli aspetti positivi più evoluti e reali delle persone di cui cercavano di procurarsi la benevolenza. Finirono, perciò, per essere sommersi essi stessi nello “sterco”: non avendo, per farsi valere, altro mezzo diverso dall’inganno dell’adulazione, dimostrarono di non possedere alcuna virtù che li rendesse veramente amabili. Pretendendo di eccellere con il raggiro, finirono per essere ritenuti il “rifiuto della società”, come spiega il commentatore G. B. Gelli.
        È stato notato che, con i dannati di queste due bolge, Dante “si spoglia di ogni compassione”. Un sentimento di commiserazione è possibile solo se la persona in difficoltà lo ritiene concepibile e implicitamente lo richiede. Sono condizioni che mancano ai seduttori e agli adulatori: costoro non conobbero alcuna compassione per le loro vittime; è un sentimento a loro ignoto, e non lo credono possibile neppure per loro stessi. Alessio Interminelli, privo di pietà per sé stesso, si percuote il capo per vergogna e per rabbia, e non certo per sensi di colpa o per invocare clemenza.
        Quando questi dannati si presentano come malati, la loro assenza di aspettative positive comporta per il clinico grosse difficoltà: anche se in crisi, difficilmente, da parte di costoro, c’è una chiara richiesta d’aiuto. Per lo più, si rivolgono al medico per la terapia di aspetti marginali del loro malessere. Occorre una cura lunga e paziente, non sempre possibile, e sostenuta per molto tempo più dalla fedeltà del terapeuta all’impegno preso che da uno spontaneo e sincero riguardo verso il paziente. Tale trattamento è necessario affinché questi pazienti, attraverso l’esperienza affettiva molto più che con parole convincenti, si rendano conto di poter essere oggetto di sollecitudine per quello che effettivamente sono, quando questo sentimento nasce finalmente in modo spontaneo nel terapeuta. Nel frattempo, com’è loro costume, cercheranno di conquistarsi la benevolenza del curante seducendolo o adulandolo; e se questi non comprende che si tratta di tranelli, la cura non può proseguire.

 

        Virgilio indica a Dante un’altra anima dannata: è quella della cortigiana Taide che, all’amante Trasone (“al drudo suo”) che le domandava se avesse riconoscenza per lui, rispose con parole di esagerata e affettata adulazione:


pag. 269, vv 133 – 135
Taidè è la puttana che rispose
al drudo suo quando disse: “Ho io grazie
grandi appo te?”: “Anzi maravigliose!”

        Dante, qui, parla di Taide, il personaggio de “L’eunuco” di Terenzio, come se fosse una donna realmente esistita. Per il Poeta, è il prototipo della meretrice che perverte doppiamente il rapporto d’amore: oltre che renderlo un fatto “da conio”, con l’adulazione rende falsa anche l’espressione di un semplice sentimento di gratitudine per un dono ricevuto. Se l’amore autentico coinvolge “anima e corpo”, persone come Taide corrompono l’una e l’altro.

 

        Virgilio pone fine alla visita alla seconda bolgia affermando che ora basta quanto di queste anime lorde hanno veduto; e con queste parole del Maestro, Dante conclude il Canto XVIII:


pag. 269, v 136
E quinci sian le nostre viste sazie.”

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Canto XIX

        Dante si trova nella terza bolgia dell’ottavo cerchio. Prima di addentrarvisi, egli rivolge una severa apostrofe contro coloro che qui sono puniti, ossia Simone Mago e i suoi seguaci: essi, avidi di ricchezze, crearono un vincolo d’adulterio (“avolterate”) fra le “cose di Dio” e l’oro e l’argento. Corrotti, prostituirono tali cose sacre che dovrebbero essere fedeli spose del bene. Il Poeta, come fosse un “pubblico banditore di misfatti e condanne”, “suona la tromba” per annunciare il Canto dei simoniaci.


pag. 271, vv 1 – 6  
O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontade
deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate;
or convien che per voi suoni la tromba,
però che nella terza bolgia state.

        La denominazione di “simoniaci” deriva da Simone mago di Samaria, che tentò di comprare dagli apostoli Pietro e Giovanni la facoltà di trasmettere ai battezzati lo Spirito Santo (Atti degli Apostoli, VIII, 9 e seg.). Simoniaci sono tutti coloro che, ecclesiastici o laici, fanno mercato delle cose sacre. Se il peccato degli avari (Inferno, Canto VII) fu di aver privilegiato a tutto il resto il denaro (lo “sterco del demonio”), i simoniaci lo usarono per insozzare le “cose di Dio”, ossia tutto ciò che, per il bene dell’umanità, dovrebbe essere preservato nella sua purezza e considerato “sacro”. 
        Un laico, che si è allontanato dalla Religione e dalla Chiesa, potrebbe commettere lo sbaglio di sottovalutare l’importanza di questo Canto. Le “cose di Dio”, infatti, non sono soltanto quelle legate alla spiritualità come la intendono i credenti; sono tutto ciò che brilla della luce riflessa che proviene dall’Oggetto interno ideale, ossia tutto ciò che è dotato del massimo valore per l’essere umano. Anche per gli atei, pur non essendone spesso consapevoli, esiste qualcosa di “sacro”: è tutto ciò che sostiene la vita e l’esistenza degli esseri umani come tali, in particolare la ricerca della Verità. Senza di essa, saremmo indistinguibili dagli animali, dominati soltanto dagli istinti. Ecco perché i fraudolenti “simoniaci” sono particolarmente pericolosi per le persone sane.
       Il Canto XIX è fatto soprattutto d’invettive, da parte del Poeta, rivolte a questi peccatori; accuse a rigore inutili, perché essi sono già dannati. Sembrerebbe che il clinico abbia ben pochi suggerimenti da trarre da tali espressioni d’indignazione. A giudizio di chi scrive, non è così: il carattere riparativo di quanto esprime il Poeta consiste nello smascherare l’aspetto fraudolento dei simoniaci; è un messaggio rivolto soprattutto al lettore, ed il suo scopo è evitargli il grave danno che gli deriverebbe se egli non fosse consapevole dell’inganno; è preservarlo da un “contagio”.
        Anche al di fuori della Religione, quanti “simoniaci” esistono al giorno d’oggi, vale a dire quanti pervertono quella cosa “sacra” che è la ricerca della Verità? Quanti “sacerdoti” del culto delle verità scientifiche, corrotti da conflitti d’interesse, alterano i risultati delle loro ricerche, prostituendosi e prostituendo la loro funzione che dovrebbe essere “fedele sposa del bene”?

 

        Nei fianchi e nel fondo della bolgia, Dante vede numerose buche circolari, tutte di uguali dimensioni. In ciascuna di esse sta, a capo in giù, un dannato con fuori (“della bocca soperchiava”) le gambe fino al polpaccio (“infino al grosso”). Le piante dei piedi sono tormentate dalle fiamme (“accese”). Per lo spasimo del dolore, le giunture (“le giunte”) si contorcono così violentemente che romperebbero qualsiasi legame (“ritorte e strambe”)


pag. 272, vv 22 – 27  
Fuor della bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e delle gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averìen ritorte e strambe.

        Agli eretici Dante assegna, come punizione, la condanna all’eterna immobilità, come sono, in questa vita terrena, i morti. Ad essi, tuttavia, egli riserva una “sepoltura” dignitosa, ponendoli in sarcofagi. Al contrario, la pena dei simoniaci è del tutto simile a quella inflitta agli assassini: la propagginazione, ossia l’esser sepolti vivi a testa in giù. Come gli assassini soppressero la vita di un proprio simile, i simoniaci annientarono il valore di un aspetto di vitale importanza dell’esistenza umana: ciò che è “sacro”.
        Secondo alcuni commentatori, le fiamme che lambiscono i piedi di questi dannati sono l’antitesi delle lingue di fuoco scese sul capo degli Apostoli nel giorno della Pentecoste. I simoniaci calpestarono, come se non avessero alcun valore, le cose sacre; ma ora la Giustizia Divina (la realtà) fa sì che quel che poteva essere fonte di conforto ora li tormenti.

 

        Aiutato da Virgilio a raggiungere la buca dove un dannato si agita in modo particolarmente violento, Dante chiede a costui chi sia. Si china su di lui, come il frate che confessa l’assassino condannato alla propagginazione, e che viene richiamato dal delinquente allo scopo di rinviare la morte (“per che la morte cessa”).


pag. 274 – 275, vv 46 – 51
“O qual che se’ che ‘l di su tien di sotto,
anima trista come pal commessa”
comincia’ io a dir “se puoi, fa motto.”

Io stava come il frate che confessa
lo perfido assessin, che poi ch’è fitto,
richiama lui, per che la morte cessa.”

        La risposta del dannato – che, più avanti, risulterà essere il papa Niccolò III – è per Dante sorprendente. Ogni simoniaco, dopo un certo periodo, precipita giù per una fessura della pietra, e viene sostituito nella buca da chi deve espiare un peccato analogo. Niccolò III, avendo scambiato Dante per Bonifacio VIII, destinato a prendere il suo posto, esprime il suo stupore perché gli era stato preannunciato (“lo scritto”) che sarebbe arrivato dopo parecchi anni. Il dannato aggiunge un rimprovero a questo papa: gli chiede se abbia soddisfatto così presto la sua avidità di ricchezze e potere (“di quell’aver sazio”), per la quale non esitò a “sposare” con l’inganno (“torre a inganno”) la “bella donna” (la Chiesa) per poi farne strazio.


pag. 275, vv 52 – 57
Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti torre a inganno
la bella donna e poi di farne strazio?”

        Niccolò III allude, qui, all’inganno con cui Bonifacio VIII indusse il pio e semplice – e ignavo – Celestino V a rinunciare al papato (Inferno, III, 59 – 60) ed a cederglielo.
        Quando si tratta di condannare la loro stessa colpa negli altri, i simoniaci sanno essere intransigenti. Sembra l’atteggiamento di chi vede persino “la pagliuzza nell’occhio altrui, ed ignora la trave nel proprio”. Tuttavia potrebbe trattarsi di un uso perverso del rigore morale, allo scopo di screditare i rivali.

 

        Dante, su invito di Virgilio, chiarisce l’equivoco. Niccolò III, visto che il Poeta ci tiene così tanto a conoscerlo d’aver percorso la ripa scoscesa (“la ripa corsa”) dall’argine della bolgia, si presenta e confessa i suoi peccati. Egli indossò il manto papale (il “gran manto”). Appartenente alla famiglia degli Orsini (“figliuol dell’orsa”), si adoperò con mezzi fraudolenti a far acquisire ricchezza e potere ai nipoti ed ai congiunti (gli “orsatti”). Per avidità, imborsò molte ricchezze (“l’avere”); e per lo stesso motivo egli ora si trova lui in quella “borsa”, o buca, in cui scontano il loro peccato i simoniaci.


pag. 280, vv 67 – 72
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol dell’orsa,
cupido sì per avanzar gli orsatti,
che su l’avere e qui me misi in borsa.

        Niccolò III, dopo aver spiegato che (come si è visto più sopra) altri simoniaci prenderanno il suo posto nella fossa, menziona chi subentrerà a lui e a Bonifacio VIII: è il papa Clemente V. Questi approfittò del favore del re di Francia per diventare pontefice, allo stesso modo in cui il biblico Giasone ottenne dal troppo accondiscendente re Antioco la carica di sommo sacerdote.
        Segue un’aspra invettiva di Dante contro i papi simoniaci. Ricorda che Gesù, quando affidò le chiavi della Chiesa a S. Pietro, non chiese denaro, ma lo invitò soltanto a seguirlo; e neppure gli Apostoli imposero un prezzo a Mattia, quando fu sorteggiato per prendere il posto di Giuda (“l’anima ria”). Invita quindi ironicamente Niccolò III a custodire il denaro con cui, a suo dire, fu corrotto (“la mal tolta moneta) allo scopo di favorire la ribellione siciliana dei Vespri contro Carlo I d’Angiò. Aggiunge che, se non lo trattenesse il rispetto per il Papato (“la reverenza delle somme chiavi”), userebbe parole ancor più gravi per condannare la cupidigia e l’assenza di generosità (“l’avarizia”) di questi pontefici, che porta alla rovina (“attrista”) il mondo opprimendo le persone oneste (“calcando i buoni”) e favorendo i malvagi (“i pravi”).


pag. 281, vv 88 – 105
I’ non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi a lui con questo metro:
“Deh, or mi di’: quanto tesoro volle

nostro Segnore in prima da San Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’.

Né Pier né li altri tolsero a Mattia
oro od argento, quando fu sortito
al luogo che perdé l’anima ria.

Però ti sta, ché tu sei ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza delle somme chiavi
che tu tenesti nella vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi

        Le accuse di Dante ai papi simoniaci sono chiare e violente. Tuttavia egli si guarda bene dal coinvolgere, nei suoi giudizi negativi, l’istituzione del papato e la funzione che esso svolge (o dovrebbe svolgere). Verso di esse egli mantiene il dovuto rispetto.
        C’è qui un importante suggerimento a noi clinici e a noi tutti. Quando soffriamo per le angherie di determinate persone – e sappiamo che ciò, in casi estremi, può contribuire allo sviluppo di una malattia mentale – spesso commettiamo l’errore di confondere gli indegni rappresentanti di una categoria con la categoria stessa e la sua funzione. Indignati per il comportamento di certi medici, o di certi giudici, o di certi genitori, rischiamo di condannare il ruolo stesso di medici, giudici o genitori. Ci priviamo, perciò, della possibilità di giovarci dell’aiuto di persone che, all’altezza del loro compito, svolgono una funzione simile, di vitale importanza. Ecco come un risentimento giustificato può volgersi a nostro danno. Sarebbe una grave scorrettezza se noi terapeuti assecondassimo tali reazioni emotive nei malati che hanno subìto maltrattamenti.

 

        Proseguendo nella sua invettiva, Dante rievoca, modificandola, una visione dell’Apocalisse di San Giovanni. Il Poeta raffigura la Chiesa come cortigiana che tresca coi re della terra, pur dominando il mondo (“siede sopra l’acque”, ossia sopra la terra circondata dagli oceani). Tale chiesa “meretrice”, finché ciò piacque al pontefice (il “marito”) fu invece come una donna virtuosa, potendo vantare i sette Sacramenti (le “sette teste”) ed essendo fondata sui dieci comandamenti (le “diece corna”). I papi simoniaci hanno “adorato”, al posto di Dio, l’oro e l’argento. Che altro può distinguerli dagli idolatri?


pag. 282, vv 106 – 114
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,
e dalle diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.

Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento:
e che altro è da voi all’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?

        Nel canto XIX è ricorrente il tema della corruzione, o prostituzione, della figura femminile. Ad esempio, le “cose di Dio” che dovrebbero essere “spose” del bene, rese adultere (vv 2 – 4); oppure la “bella donna” (la Chiesa) di cui Bonifacio VIII “fece strazio” dopo averla sposata con l’inganno (vv 56 – 57); oppure, qui sopra, la chiesa che fu vista “puttaneggiar coi regi” per responsabilità del “marito”.
        La colpa di tutti i simoniaci (se intendiamo in senso ampio questo termine) è di profanare le cose “sacre” corrompendone la purezza. Nella storia individuale di ciascuno di noi, la prima esperienza “sacra” che incontriamo nella vita è quella della madre arcaica (la puerpera) che ci offrì il suo seno e cure precoci di vitale importanza. La genitrice che ci diede la vita e ci aiutò a preservarla quando eravamo fragilissimi (la Madonna per i credenti, e non solo per loro) è quanto di più “sacro” ci conviene mantenere nella sua purezza, se ci teniamo a vivere: essa, interiorizzata, continua a svolgere il suo ruolo protettivo nel resto della nostra esistenza, e coincide, in gran parte, con l’Oggetto arcaico ideale. Ecco perché la corruzione della donna che si sarebbe dovuta rispettare nella sua purezza (la sposa fedele, la donna virtuosa) costituisce una duplice infamia: quella ai danni della persona in carne ed ossa e, sul piano simbolico, quella contro la Madre ideale; il che equivale a dire: contro la vita umana.
         I simoniaci venerano il denaro come fosse il loro Dio. In questo non si distinguono dagli avari, adoratori dello “sterco del demonio”, ossia fissati, o regrediti, alla fase anale dello sviluppo (si veda, a questo proposito, il commento al Canto VII). In più i simoniaci aggiungono una particolarmente spiccata componente sadica, distruttiva e autodistruttiva: originariamente insozzarono nella fantasia e resero inutilizzabile il seno materno, fonte di vita, così come tendono a danneggiare tutto ciò che è “sacro” e che è alla base di un’esistenza propriamente umana.
        Se un “cancro” emotivo di questo genere è presente nei nostri pazienti, occorre prepararsi ad offrire loro una lunga e paziente esperienza affettiva correttiva. Meno difficile è la prevenzione del “contagio” in persone legate a tali individui distruttivi. Occorre, innanzi tutto, smascherare, in questi ultimi, le insidie dei loro tentativi fraudolenti di distruggere il “sacro”, e Dante ci offre le parole con cui pensare ed attuare tale operazione.

 

        Terminata l’invettiva di Dante, visibilmente approvata da Virgilio, il Poeta viene aiutato dal suo Maestro a risalire la parete della bolgia ed a raggiungere il ponte situato fra il quarto ed il quinto argine. Con le ultime parole del Canto XIX, Dante ci dice che sta “voltando pagina”:


pag. 283, v 133
Indi un altro vallon mi fu scoperto.

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Canto XX

        I due Poeti si trovano nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio. Prima di chiarire il tipo di peccato che qui è punito, Dante ci offre una viva descrizione della pena cui sono condannate le anime di questo vallone e della meraviglia e del terrore che essa gli suscita.


pag. 285 – 286, vv 4 – 18
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar nello scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.

Come ‘l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso;

ché dalle reni era tornato il volto,
ed indietro venir li convenìa,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza già di parlasìa
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.

        Dante scopre gradualmente la natura della scena. Dapprima vede il lento procedere di una schiera di dannati. Costoro, lacrimando in silenzio, camminano col passo con cui, nel mondo dei viventi, avanzano le processioni recitanti le litanie (“le litane”). Poi, guardandoli più attentamente al di sotto del volto (“più basso”), s’accorge che essi hanno il capo stravolto, ossia il viso, tra il mento e l’inizio del torace (“del casso”), è voltato (“tornato”) dalla parte dei reni. Perciò camminano all’indietro. Anche se ritiene la cosa improbabile, Dante paragona tale stravolgimento a quello di chi ha contratto una paralisi (“parlasìa”).

 

        I dannati di questa bolgia lacrimano in silenzio. C’è una manifestazione fisica di sofferenza (le lacrime che sgorgano in modo, si direbbe, automatico) non accompagnata da gemiti o da espressioni verbali. Alcuni commentatori spiegano questo fatto in base allo scongegno oggettivo degli organi vocali, dovuto alla rotazione del collo, che rende muti questi dannati. Tuttavia si era già visto, nel Canto precedente, che i simoniaci non esprimono il loro turbamento con la voce, ma dimenando le gambe. In entrambi si direbbe che il corpo, ma non la mente, avverte ed esprime sofferenza. Possiamo pensare che, essendo a costoro sconosciuto il sentimento della pietà verso gli altri, non sanno provarlo neppure per sé stessi, ed invocarlo in chi li guarda. In effetti, il tema della pietà compare nei versi che seguono.

 

        Dante è preso da pietà di fronte all’immagine dei propri simili così mostruosamente deturpata (“torta”) al punto che le lacrime di costoro, scendendo lungo il dorso, bagnano la fessura (“lo fesso”) tra le natiche; non può, pertanto, trattenersi dal piangere. Rivolgendosi al lettore, gli dice che, se ha tratto frutto dalla lettura (“lezione”) dei suoi versi, può facilmente capire quel che ha provato. Subito, però, Virgilio lo rimprovera.


pag. 286, vv 19 – 30
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ‘l pianto delli occhi
le natiche bagnava per lo fesso.

Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: “Ancor se’ tu delli altri sciocchi?

Qui vive la pietà quand’è ben morta:
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion porta?

        Qui Virgilio esprime un severo giudizio morale: una pietà è vera (“viva”) quando non se ne avverte (“è ben morta”) per questi peccatori, condannati da una sentenza di Dio. Come per illustrare con un esempio la sua affermazione, invita Dante a guardare un dannato che sta davanti ai loro occhi. Si tratta di Anfiarao, l’indovino che, pur avendo previsto la sua morte nell’impresa dei “sette contro Tebe”, nondimeno vi partecipò. E qui, finalmente, ci viene rivelato il peccato per cui queste anime sono punite: si tratta degli indovini e, in generale, di coloro che esercitarono arti “magiche”


pag. 286 – 287, vv 31 – 36
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse alli occhi dei Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti ‘Dove rui,

Anfiarao? perché lasci la guerra?’
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.

Mira c’ha fatto petto delle spalle:
perché volle veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.

        Durante l’assedio di Tebe, una voragine s’aprì sotto Anfiarao, inghiottendolo e facendolo precipitare fino agli Inferi. Dante immagina che i Tebani, vedendolo cadere nell’abisso, gli gridassero in tono beffardo: “Dove precipiti? (“rui”). Perché lasci la guerra?”. Avendo voluto vedere troppo avanti nel tempo, ora, per contrappasso, Anfiarao è condannato a guardare solo indietro.

 

        Dante, finora, ha visto le disgraziate e pietose condizioni in cui si trovano questi dannati e non è ancora stato informato riguardo al peccato che devono espiare. Ora, l’esempio di Anfiarao chiarisce sia il peccato, sia il senso del severo giudizio morale di Virgilio, per cui sarebbe cosa empia provare pietà per questi dannati: è iniquo avvertire compassione per le inevitabili conseguenze di decisioni scellerate – al solito, quella che, in termini laici, è la “sentenza di Dio” è interpretabile come il prezzo che la realtà fa pagare a chi fa scelte sbagliate –. Ora il carattere scellerato della scelta di Anfiarao, che pretese di vedere nel futuro, è più chiaro.
        Considerando il mito di Anfiarao, che Dante supponeva fosse noto ai lettori, questi versi acquistano importanti significati. Questo personaggio fu indotto ad andare in guerra influenzato dalla decisione della moglie Erifile, sorella del suo nemico Adrasto. Era stato pattuito che, se vi fossero stati contrasti fra Anfiarao ed il cognato, entrambi si sarebbero rimessi al giudizio della donna. Non essendo Anfiarao d’accordo con Adrasto sull’opportunità di muovere guerra a Tebe, Erifile decise a favore del fratello di lei perché corrotta da un prezioso dono. Per prevedere che in guerra si possa morire, non occorre essere indovini. Per contro, nonostante le sue pretese capacità divinatorie, Anfiarao non comprese che la moglie si era resa complice del suo nemico e l’aveva ingannato. Pur prevedendo il peggio, Anfiarao si unì alla spedizione.
        Convinto di saper prevedere il futuro, Anfiarao, in realtà, rivolse il suo sguardo al passato. Egli non vide in Erifile una moglie, ma una madre arcaica il cui potere suggestivo è capace di travolgere le facoltà critiche e la sensibilità del piccolo. Sopraffatto da una forma perversa di nostalgia, egli non solo obbedì passivamente alla donna/genitrice, ma si spinse anche al punto di voler tornare ad essere accolto nel suo grembo: la “madre terra” che, in effetti, lo inghiottì. Quel che riteneva fosse una previsione, era in realtà il soddisfacimento di un suo nascosto desiderio di morte. L’essere attratto irresistibilmente dal passato, confondendolo col futuro: è questa la scelta scellerata di Anfiarao, di cui ora subisce le terribili conseguenze.
        Dante, per voce di Virgilio, si rivolge al lettore. Questi è una persona che potrebbe incorrere negli stessi errori dei dannati, e che è bene sappia quel che potrebbe succedergli. Riguardo alle conseguenze di scelte scellerate, è bene mantenere il più rigoroso realismo: occorre aver ben presente a cosa decisioni di quel genere possono portare, senza lasciarsi commuovere e senza, per così dire, attenuare con la compassione la gravità di tali conseguenze. Un’autentica pietà, semmai, è bene che si rivolga a chi, trovandosi nelle circostanze in cui ha già sbagliato e potrebbe continuare a sbagliare, entra in crisi e chiede aiuto. Il clinico può, anche a questo riguardo, trarre un utile suggerimento da questi versi danteschi: aiutare il paziente a capire, senza attenuarla, la gravità dei danni che si è già procurato, e soprattutto di quelli che potrebbe ulteriormente procurarsi, significa rafforzare il suo esame di realtà. Ciò non è moralismo, è realismo.

 

        Ora l’attenzione dei Poeti si rivolge ad un altro dannato: Tiresia, un indovino tebano che esercitò la sua arte nell’esercito dei concittadini durante l’assedio dei sette re. Avendo colpito con una verga due serpenti in amore, fu trasformato in femmina; tempo dopo, avendo di nuovo percosso i due serpenti trovati nello stesso atteggiamento, riacquistò il sesso maschile (“le maschili penne”).


pag. 287, vv 40 – 45
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne
cangiandosi le membra tutte quante;

e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che riavesse le maschili penne.

        Anche in Tiresia, la scelta sbagliata fu l’aver confuso il passato col futuro: l’aver preteso di saper guardare avanti quando, in realtà, stava guardando indietro. Lo spettacolo dei due serpenti “avvolti” nell’amore fa pensare ad una tipica esperienza infantile: quella del bambino che, assistendo per la prima volta ad un amplesso (“scena primaria” se riguarda i genitori) si forgia le sue rappresentazioni della sessualità. Tiresia, anziché trarne indizi riguardo ad un suo futuro ruolo sessuale, violentando (“percuotendo”) il senso di tale scena, ne trasse motivo per riesumare antiche fantasie di bisessualità ed il desiderio “onnipotente” (realizzato poi in modo allucinatorio) di poter cambiar sesso a proprio piacimento. Fece violenza nei confronti della realtà oggettiva che, in quanto cieco, non poteva percepire.
        Premesso che un paziente è definibile come tale solo se, indipendentemente dal suo particolare modo di essere, entra in crisi e chiede aiuto, vediamo quali idee possiamo trarre da Dante riguardo alla cura di transessuali o bisessuali che soffrano per la loro condizione. Ovviamente un giudizio moralistico riguardo alla loro “scelta sbagliata” sarebbe del tutto inopportuno. Quel che è bene fare è cogliere nel transfert/controtransfert la riproduzione di una situazione affettiva originaria che li indusse a sentire il proprio sesso anatomico come una prigione opprimente da cui sentivano il bisogno di evadere. Un’esperienza affettiva correttiva può offrire a queste persone la possibilità (non un dovere, ma una libera scelta) di privilegiare la singola identità sessuale coerente con la natura del loro corpo. Occorre che, di fronte alla riedizione immaginata della scena primaria, non si sentano più obbligati a violentarne il senso (“percuotere” la coppia unita nell’amore); obbligati perché avevano motivo di sentirla come troppo sconvolgente.


Diversa è la descrizione dantesca dell’indovino e astrologo etrusco Arunte (o Aronte):

pag. 287, vv 46 – 51
Aronta è quei ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora onde a guardar le stelle
e ‘l mar non li era la veduta tronca.

        Arunte ebbe la sua solitaria dimora in una spelonca del Lunigiano (nei “monti di Luni”), là dove fa legna con la roncola (“ronca”) il contadino carrarese. Circondato dal candore dei marmi, Aronte poteva agevolmente osservare (“non li era la veduta tronca”) le stelle e il mare, probabilmente allo scopo di trarne le sue divinazioni.

 

        A proposito di questi versi, il Momigliano osserva: “In questa descrizione non c’è ombra di disprezzo: Dante qui dimentica la colpa dell’indovino e non vede che la sua poetica vita di solitario; lo attrae il paesaggio biancheggiante di marmi e quel silenzio che si stende dalle cime al mare e alle stelle”.
        A differenza di quanto aveva fatto con gli altri indovini, nel caso di Arunte Dante si sofferma un poco su una situazione che può aver favorito la scelta sbagliata di questo personaggio. Arunte sentiva il bisogno d’isolarsi vivendo, immerso nella natura, in una spelonca lontana dai centri abitati. Molto forte era il suo attaccamento all’antica “madre-ambiente”, che lo circondava col suo abbraccio. Su questa situazione, di cui Dante coglie il valore poetico, poté innestarsi una forma perversa di nostalgia. In virtù di questa, Arunte si convinse di poter recuperare i poteri “magici” attribuiti alla madre arcaica e condivisi con lei.
        Come nel caso del sentimento che legò Paolo e Francesca, Dante comprende tutto il valore positivo di situazioni che, tuttavia, furono la premessa di scelte scellerate; situazioni che si sarebbero potute sviluppare diversamente. Mi pare un importante suggerimento al clinico: molti pazienti commettono l’errore di giudicare, come negativi, indiscriminatamente tutti gli eventi del loro passato che precedettero l’esordio della malattia. Si sentono del tutto “sbagliati”. Dante c’insegna che persino nel passato dei dannati c’è qualcosa da salvare; un qualcosa che, nella cura dei malati, può rivelarsi prezioso in quanto aumenta la loro autostima e risveglia la speranza.

 

        Virgilio indica a Dante l’anima di una donna: Manto (figlia di Tiresia). Costei porta le “trecce sciolte”, secondo il costume delle incantatrici. Essendo il suo capo stravolto, i capelli, anziché sulla schiena, le cadono sulle mammelle. Dopo la morte del padre, essendo la sua Tebe – città fondata da Bacco (“Baco”) – caduta in servitù (“venne serva”), Manto fuggì e per lungo tempo se ne andò errando (“cercò”, “gìo”) per il mondo.


pag. 289, vv 52 – 60
E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogni pilosa pelle,

Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.

Poscia che ‘l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gìo.

        I versi dal 61 all’81 ci offrono una particolareggiata descrizione dei territori intorno a Mantova (città che Manto fondò), dove l’indovina finì per approdare.

 

        Tale descrizione, secondo alcuni commentatori, “si disperde in un esame eccessivamente analitico di dettagli topografici.” A giudizio di chi scrive, non è casuale che questi versi compaiano subito dopo quelli che ci parlano di Arunte. Come si è visto, Dante pose in rilievo l’attaccamento di quest’ultimo personaggio alla “terra madre”. Qui è Virgilio che esprime un analogo sentimento riguardo a Mantova, sua città natale, ed ai territori circostanti. La sua limpida descrizione di quella che si chiamerà Lombardia è ricca di dettagli che possono non interessare il lettore. È quanto succede a chi parla di ciò che è oggetto di un suo investimento narcisistico: per lui ha un valore “unico”, e gli è difficile capire che gli altri possano non nutrire i suoi stessi sentimenti. Capita, ad esempio, quando l’innamorato parla della persona amata, o un genitore dei suoi figli. Non per nulla Proust sostenne che una storia d’amore è interessante solo quando illustra il momento dell’attesa, o quello del rimpianto. Quando, viceversa, vorrebbe descrivere un amore presente e contraccambiato, finisce per risultare poco coinvolgente e noiosa.


Nel verso che segue, Manto è definita “vergine cruda”, ossia crudele, fiera, scostante.

        Virgilio, nell’interpretazione dantesca, sembra subito prendere distanza da questa madre della sua città madre. Persino il termine “vergine”, in contrasto con i pregiudizi dell’epoca, non sembra essere qui sinonimo di “virtuosa”, ma pare alludere ad una donna che, per il suo cattivo carattere, respinse tutti gli uomini.

 

        Passando per i luoghi sopra descritti, Manto vide, in mezzo ad una palude, una terra incolta e disabitata, e perciò adatta alla sua ostilità verso “ogni consorzio umano” e favorevole alle sue pratiche magiche. Qui si fermò con i suoi servi e vi visse fino alla fine; qui vi lasciò il suo corpo privato (“vano”) della sua anima. Gli uomini dei territori circostanti, dopo la sua morte, si raccolsero in quello stesso luogo perché, circondato dalla palude, era ben difeso. Sopra la tomba della maga costruirono una città che, dal suo nome, prese il nome di Mantova. Virgilio precisa che tale denominazione fu assegnata senza alcuno dei sortilegi (“sanz’altra sorte”) che si era soliti praticare quando s’imponeva un nome.


pag. 290 – 291, vv 82 – 93
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.

Lì, per fuggire ogni consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

Li uomini poi che ‘ntorno erano sparti
s’accolsero a quel luogo, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.

Fer la città sovra quell’ossa morte;
e per colei che ‘l luogo prima elesse,
Mantua l’appellar sanz’altra sorte.

        Se, come s’è visto, Virgilio si sente accomunato ad Arunte per il suo nostalgico attaccamento alla “terra madre”, tuttavia fa chiaramente presente che, a differenza dell’altro, non ha seguito un percorso a ritroso verso la madre arcaica ed i suoi poteri “magici”. La sua presa di distanza dalla madre della sua città madre è ribadita in più punti. Manto fu una “vergine”, il che smentisce che possa essere stata una sua ascendente. Costei fu ostile ad “ogni consorzio umano”; Virgilio, al contrario, mediò rapporti costruttivi con gli uomini tramite la sua Arte; un’Arte ben distinta da quella della magia praticata da Manto.
        Il Poeta è capace d’entrare in contatto coi suoi simili grazie alla sua capacità di comprensione empatica unita a quella di produrre Bellezza. La maga, al contrario, proprio perché ostile agli esseri umani e non in grado di comprenderli, per farsi valere ebbe come unica risorsa il pensiero magico e pratiche che furono capaci solo di favorire la regressione all’infantilismo in chi le dava ascolto. Virgilio è fiero d’appartenere alla città di Mantova, ma ci tiene a precisare che quel che lega il luogo dove nacque a Manto è solo il nome, e non un sortilegio o un auspicio di alcun genere.

 

        Virgilio conclude il suo discorso su Mantova lanciando un’invettiva contro quei politici (Alberto di Casaloidi e Pinamonte dei Bonacolsi) la cui lotta per il potere si ritorse ai danni della città che, devastata dal loro conflitto, restò spopolata.

 

        Con quest’invettiva, Virgilio manifesta nuovamente il suo affetto verso la città madre, tenendola ben distinta dalla “madre-maga”.

 

        Su richiesta di Dante, Virgilio indica altri indovini degni di nota. Fra di essi un dannato la cui barba sporge (“porge”) sulle spalle: è Euripilo, un augure che esercitò il suo ufficio durante l’assedio di Troia. In tale occasione, dalla Grecia quasi tutti gli uomini validi alle armi partirono per la guerra (“fu di maschi vota”) al punto che quasi se ne potevano trovare soltanto nelle culle (“cune”). Euripilo in Aulide, insieme a Calcante, indicò il momento propizio (il “punto” [astrologico]) per salpare (per “tagliar la prima fune”)


pag. 296, vv 106 – 111
Allor mi disse: “Quel che dalla gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu, quando Grecia fu di maschi vota

sì ch’a pena rimaser per le cune,
augure, e diede ‘l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.

        Dante, qui, non esprime un giudizio sull’opportunità della guerra di Troia. Tuttavia, il quadro che descrive della Grecia durante il conflitto è desolante: privata dei maschi validi alle armi (e quindi anche validi al lavoro), rimasero solo donne e neonati privati di uomini che potessero proteggerli e contribuire in modo decisivo a mantenerli. Che Euripilo sia posto tra i fraudolenti è prova che Dante non riteneva affidabile l’indicazione del “punto” astrologico favorevole che diede il via alla spedizione. Nondimeno fu un atto scellerato, perché avallò, con il potere suggestivo della “magia”, la volontà degli Achei di dare inizio a quello che sarebbe stato un massacro.

 

        Altri esperti nel “gioco delle magiche frodi”, che Virgilio addita a Dante, sono Michele Scotto e Guido Bonatti. Essi ebbero protettori autorevoli: rispettivamente Federico II e Guido da Montefeltro. Altri “maghi” più umili, ma non meno pericolosi, furono il calzolaio parmigiano Asdente ed un gruppo di donne sciagurate (“triste”) che, fattesi indovine (o “streghe”), abbandonarono l’ago, la spola e il fuso per dedicarsi a malie attuate con succhi d’erba e immagini di cera.


pag. 297, vv 115 – 123
Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
delle magiche frode seppe il gioco.

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio ed allo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ‘l fuso, e fecesi ‘ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.

        Dante, qui, pare alludere ad una motivazione di tipo sociale che spinse persone umili ad intraprendere la “carriera” di maghi. In quel tempo c’erano ben poche altre possibilità per migliorare la propria situazione economica e il proprio “status”. Nondimeno fu come “vendere l’anima al diavolo”: la regressione indotta, tramite la magia, negli altri e in loro stessi ebbe conseguenze nefaste. Se non altro, essa rappresentò un grosso ostacolo all’evoluzione della Cultura.

 

        Virgilio fa presente a Dante che si è fatto tardi, e lo sollecita a proseguire il viaggio. Nel frattempo (“introcque”) i due Poeti s’incamminano:


pag. 297, v 130
Sì mi parlava, ed andavamo introcque.

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Canto XXI

        Procedendo di ponte in ponte, i Poeti giungono a quello che sovrasta la quinta bolgia dell’ottavo cerchio. Arrivati sul punto più alto (“il colmo”) di questo passaggio, si soffermano a guardare, al di sotto, questa nuova fossa (“fessura”), dove avvertono altri inutili (“vani”) pianti di dannati.


pag. 299, vv 1 – 6
Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenevamo il colmo, quando

restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.

        I lamenti dei dannati sono inutili (“vani”) perché stanno soffrendo delle ormai irrimediabili conseguenze delle loro scelte. Ad esse neppure la pietà (quella per sé stessi e quella suscitata in altri) può offrire conforto.

 

        Dante s’accorge che, nel fondo della bolgia, bolle un denso strato di pece nera. Essa gli ricorda l’arsenale di Venezia dove, nelle pause della navigazione, bollono grandi caldaie di pece, impiegata per riparare i guasti delle navi.
        Virgilio richiama bruscamente l’attenzione di Dante verso qualcuno che si sta avvicinando alle loro spalle. Il Poeta vi si volge impaurito, come chi è ansioso (“l’om cui tarda”) di vedere ciò che gli conviene fuggire. Gli compare la figura nera di un diavolo; il suo aspetto è terrificante.


pag. 300, vv 22 – 33
Mentr’io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”
mi trasse a sé del loco dov’io stava.

Allor mi volsi come l’om cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura subita sgagliarda,

che, per veder, non indugia ‘l partire;
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.

Ahi quant’elli era nell’aspetto fero!
e quanto mi parea nell’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero!

        È stato notato, dal commentatore cui faccio riferimento, che “alla prima impressione di carattere generale (“diavol nero”) [cui, aggiungo, il suo avvicinarsi correndo] seguono osservazioni più precise: l’aspetto feroce (“fero”, che altri interpretano come “fiero”), gli atti acerbi (crudeli), le ali aperte, la rapidissima andatura (“sovra i piè leggero”).
        Dante, qui, illustra con mirabile realismo, l’esperienza dello spavento: dapprima compare, quasi allo stato puro, la sensazione di paura, insieme all’impulso a fuggire. Gradualmente, poi, vengono messe a fuoco le impressioni sensoriali: il colore nero del diavolo, il suo avvicinarsi correndo; infine notazioni più attente: l’aspetto fiero del demonio, il suo atteggiamento crudele, le ali aperte, come pronto a spiccare il volo verso le sue prede.
        Come si vedrà poco dopo, si tratta di uno dei diavoli il cui compito è sorvegliare e punire i colpevoli di baratteria. Ciò spaventa, perché si tratta di una colpa potenzialmente presente e oggettivamente possibile in ciascuno di noi, e di cui potremmo essere accusati ingiustamente: l’istanza superegoica nella sua configurazione arcaica non fa distinzione fra la pura intenzione colpevole e quella tradotta in atti. Di ciò potrebbero approfittarsene i nemici politici, come successe a Dante: a quei tempi, quando il potere, a seguito di una lotta, passava nelle mani di una fazione vincitrice, la baratteria era il capo d’accusa abituale per le inique condanne partigiane di cittadini che, oggettivamente, si erano dimostrati onesti anche se, come tutti, erano nel loro intimo potenzialmente colpevoli.

 

        Il diavolo porta su un omero un dannato di cui tiene afferrati i garretti (“il nerbo de’ piè”). Si rivolge ai compagni chiamandoli Malebranche (cattivi unghioni con cui abbrancano i peccatori); annuncia loro che sta portando un magistrato di Lucca (un “anzian di santa Zita”, ossia della città di cui la santa era protettrice). È una città in cui tutti sono barattieri, eccetto Bonturo Dati, in realtà il più barattiere di tutti. Essi (e qui si riferisce ai barattieri investiti d’autorità), corrotti, mutarono i divieti (“il no”) in autorizzazioni (in “ita”).


pag. 302, vv 34 – 42
L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito il nerbo.

Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un delli anzian di santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

a quella terra che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no per li denar vi si fa ita”

        Con il termine barattieri, al tempo di Dante, s’indicavano individui generalmente di bassa condizione che, non esercitando alcuna arte, si procuravano illeciti guadagni in modo fraudolento. Il Poeta, qui, ignora i barattieri di basso livello sociale, per i quali la condizione d’indigenza può costituire un’attenuante; si riferisce, invece, ai disonesti amministratori di cosa pubblica. Essi, pur avendo la possibilità oggettiva di svolgere correttamente il loro compito, si dimostrarono corruttibili. La baratteria, per una libera scelta, fu una loro pratica abituale.

 

        Il diavolo getta malamente il dannato nella pece della bolgia. Poi, con la velocità di un mastino che insegue il ladro (“lo furo”), riparte per catturare altre anime. Il peccatore, nuovo a questo genere di pena, cerca di sollevarsi dalla pece con la schiena piegata ad arco (“convolto”). Però i diavoli al di sotto del ponte gli gridano ironicamente che qui non si adora, come a Lucca, il “santo volto” (di Cristo) e quindi non ha senso genuflettersi; e neppure si nuota, come nel fiume Serchio. Lo ammoniscono, quindi, a non uscire fuori dalla pece (“far sopra la pegola soverchio”) se non vuole esser graffiato dai loro “raffi”. Poi il dannato viene preso dagli uncini e spinto sotto la pece. I diavoli, sempre ironicamente, gli dicono che gli conviene stare coperto dalla pece potendo, così nascosto, continuare a rubare (“se puoi, nascosamente accaffi”)


pag. 302 – 303, vv 43 – 54
Là giù il buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.

Quel s’attuffò, e tornò su convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha luogo il Santo Volto:

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio.”

Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: “Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi.”

        Colpisce l’assenza di una comunicazione diretta da parte dei diavoli. I loro messaggi brutali sono trasmessi soltanto in tono ironico e beffardo. Non fu mai possibile menzionare apertamente le losche attività dei barattieri che possedevano un’autorità temibile: parlando con loro e di loro, la comunicazione non poté che essere stata allusiva; oppure, il che è lo stesso, falsamente ossequiosa. Ora quel tipo di comunicazione che in vita li aveva preservati da aperte accuse, diventa, per loro, motivo di mortificazione: la beffa li priva di qualsiasi valore; persino di quello, del tutto negativo, che si attribuisce ai criminali apertamente condannati.
        A questi barattieri, in vita, fu possibile compiere le loro opere illecite perché furono nascoste agli sguardi altrui. Ora diviene tormentosa questa stessa “copertura”, rappresentata simbolicamente dalla pece bollente in cui sono immersi. Nascondendosi, isolandosi dal mondo, i barattieri poterono illudersi di restare impuniti; tuttavia si privarono della possibilità di correggere il loro modo di essere tramite rapporti autentici e sani in cui si potesse parlare in modo chiaro e diretto: questa è la loro inevitabile e severa condanna.
        Per un clinico sarebbe del tutto fuori luogo esasperare, con le sue affermazioni, la condanna che barattieri presentatisi come pazienti – tali se entrati in crisi – infliggono già a sé stessi. Piuttosto, è possibile che nel transfert/controtransfert si riproduca la situazione originaria in cui si formò il modo di essere di chi di nascosto, si appropria in modo fraudolento di beni altrui. Come in altri tipi di resistenza, è possibile che il paziente avverta l’impulso incoercibile ad isolarsi, a non far scoprire la sua reale natura, perché, nella situazione originaria (a torto o a ragione) non si aspettava che dal mondo potesse venirgli alcunché di buono. Come una sorta di risarcimento per quel che non aveva ottenuto spontaneamente, da bambino il paziente cominciò ad appropriarsi di nascosto di ciò di cui riteneva d’aver bisogno rubandolo, o acquisendolo con la frode. Divenire un’autorità che “ruba” (simbolicamente, il genitore che depriva il piccolo delle attenzioni a cui avrebbe diritto) rappresenta, qui, un’identificazione con l’aggressore.
        Tutto questo, pur adombrato nel caso del barattiere Ciampòlo di Navarra (“figlio di ribaldo distruggitor di sé e di sue cose” che vedremo nel canto XXII), non può ancora comparire in questi versi, dove ci vengono presentati i dannati, come tali mai entrati in crisi, la cui condizione disperata è ormai irrimediabile.

 

        Virgilio, comprendendo la paura di Dante di fronte all’atteggiamento minaccioso dei Malebranche, lo invita a nascondersi dietro una roccia che gli faccia (“t’aia) da schermo, mentre lui andrà dai diavoli a parlamentare. Lo invita a non aver paura se costoro cercheranno di arrecargli offesa, perché egli, in una precedente discesa nel fondo infernale, ha imparato a trattare (“a far baratta”) con loro. Poi, raggiunta l’estremità (il “co”) del ponte ed il sesto argine, si volge ai diavoli, consapevole di dover assumere un aspetto deciso (“mestier li fu d’aver sicura fronte”). Appena i Malebranche lo vedono, si slanciano verso di lui, come cani da guardia addosso al malcapitato mendicante (al “poverello”) fermatosi a chiedere l’elemosina davanti alla casa. Tuttavia Virgilio li ferma intimando con tono imperioso: “nessuno di voi osi esser crudele (“sia fello”)!”.


pag. 303 – 308, vv 58 – 72
Lo buon maestro “Acciò che non si paia
che tu ci sia” mi disse “giù t’acquatta
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;

e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
e l’altra volta fui a tal baratta.”

Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte.

Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello
che di subito chiede ove s’arresta,

usciron quei di sotto al ponticello,
e porser contra lui tutt’i runcigli;
ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!

        Viene qui nuovamente sottolineato il carattere minaccioso dei Malebranche verso veri o presunti colpevoli di baratteria. Solo Virgilio, grazie alla sua esperienza ed alla sua fermezza, riesce a fronteggiarli.
        Come altrove, anche qui la natura dei custodi infernali rispecchia in parte quella dei dannati. Dante sembra coglierne una caratteristica quando li paragona a cani aggressivi che infieriscono su di un “poverello”. È parte dell’identificazione con l’aggressore l’espulsione da sé, da parte dei soggetti, dell’aspetto fragile e indifeso del loro mondo interno. Questa parte “poverello” viene posta, tramite identificazione proiettiva, nelle vittime, e verso queste tali soggetti dimostrano una spietatezza non del tutto spiegabile in base alla ricerca di un tornaconto materiale: annientandoli credono di sopprimere una parte di loro stessi inaccettabile.

 

        Virgilio, rivolgendosi al capo dei diavoli, chiamato Malacoda, gli fa presente che non potrebbe essere arrivato in questa parte dell’inferno, superando le resistenze (gli “schermi”) di altri demoni, senza l’appoggio di forze molto più potenti di loro: il volere divino e il fato favorevole (“destro”). Queste parole producono un forte effetto in Malacoda, il quale desiste dal suo atteggiamento orgoglioso, lascia cadere l’uncino e dice ai compagni che, dopo quanto Virgilio ha detto (“omai”), non è più il caso di recare offesa (“non sia feruto”).


pag. 308 – 309, vv 79 – 87
“Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto” disse il mio maestro
“sicuro già da tutti i vostri schermi,

sanza voler divino e fato destro?
Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro.”

Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
che si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
e disse alli altri: “Omai non sia feruto.”

        I Malebranche, insensibili alle proteste d’innocenza delle vittime, trovano come unico argomento convincente, per desistere dalla loro ferocia, che qualcuno più forte di loro vi si opponga. Come i dannati da loro custoditi, non conoscono altro tipo di relazione che non sia una prova di forza. In alternativa alla frode, esiste solo il potere di costrizione che, se superiore al loro, li ammansisce. Tuttavia, come si vedrà subito dopo, non cessano d’ingannare anche se vinti: non sanno fare altro.

 

        Virgilio, ottenuto da Malacoda quel che voleva, invita Dante ad uscire dal suo nascondiglio (“tra li scheggion del ponte”) ed a raggiungerlo. Tuttavia Dante non è completamente rassicurato: vedendolo, i Malebranche si fanno avanti, ed il Poeta teme che non rispettino i patti. Egli si sente in uno stato d’animo simile a quello dei fanti pisani, quando, arresisi ai fiorentini, uscirono, sospettosi ed apprensivi, dal castello di Caprona [Fu un fatto che Dante vide coi suoi occhi, partecipando alla guerra mossa da Firenze a Pisa nel 1289. Avendo i fiorentini riconquistato il castello, fu pattuito che se i pisani si fossero arresi, sarebbero stati risparmiati]. Come quei fanti, Dante teme che i patti non vengano rispettati. Egli, perciò, corre dal suo maestro, ansioso di riceverne protezione; intanto non distoglie gli occhi da quei diavoli, il cui aspetto non è per niente rassicurante.


pag. 309, vv 88 – 99
E ‘l duca mio a me: “O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me tu riedi.”

Per ch’io mi mossi, ed a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto:

così vid’io già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.

I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi
dalla sembianza lor ch’era non buona.

        Con i fraudolenti di questa bolgia ed i Malebranche, loro custodi ma simili ai dannati, c’è un’atmosfera come di guerra. Questo perché, come s’è visto, tutti costoro non conoscono altro rapporto che non sia una prova di forza. Nei conflitti armati, come nella lotta politica, le qualità umane che rendono possibile la convivenza (la lealtà, l’affidabilità) si dissolvono, ed emerge il carattere fraudolento e feroce che appartiene, benché in varia misura, ad ogni essere umano. Dice Amleto, trovandosi immerso in un’atmosfera d’inganni e di malvagità: “Use every man after his desert, and who should ‘scape whipping?” [Tratta ciascuno secondo il suo merito, e chi dovrebbe salvarsi dalla frusta?]. Purtroppo occorre trovarsi in guerra, o nel mezzo di una lotta per il potere, per accorgerci di come noi esseri umani siamo, nel fondo del nostro animo.

 

        Come incoraggiati nella loro malizia dalla paura di Dante, i Malebranche si eccitano vicendevolmente, invitandosi a colpire il Poeta coi loro uncini (“raffi”), e parlando in modo ironico e volgare: “Vuoi che gli dia una botta (‘l tocchi”) sul groppone?” “Sì, fa’ in modo di accoccargliela!” (“che lile accocchi”).


pag. 309, vv 100 – 102
Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ‘l tocchi”
diceva l’un con l’altro “in sul groppone?”
E rispondìen: “Sì, fa che lile accocchi!”

        Se non possono manifestare la loro violenza con la forza, i Malebranche lo fanno con la volgarità e la provocazione. Sono, comunque, sempre in guerra.

 

        Malacoda, il capo dei diavoli, non è da meno dei suoi compagni. Simulando un atteggiamento protettivo, intima a Scarmiglione, il più minaccioso dei diavoli, di posare i “raffi” che lui e gli altri avevano chinato come in atto di colpire. Subito dopo Malacoda escogita una beffa (che si rivelerà come tale alla fine del Canto XXIII): in tono apparentemente premuroso, informa i due Poeti che il ponte (lo “iscoglio”) successivo, che sovrasta la sesta bolgia, crollò alla morte del Redentore, 1266 anni prima verso mezzogiorno, ossia cinque ore dopo quella attuale (“cinqu’ore oltre che quest’otta”); se vogliono proseguire, devono procedere sull’argine (“grotta”) fino a quando troveranno un altro ponte [Ciò si rivelerà un inganno perché, in realtà, tutti i ponti sono crollati]


pag. 309, vv 103 – 114
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto,
e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”

Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto.

E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.

Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.

        È più forte di lui: essendogli sconosciute la sincerità e la lealtà, Malacoda deve ricorrere ad una beffa. Come tutte le menzogne, per essere più credibile deve essere detta in tono amichevole e premuroso; deve, inoltre, contenere un frammento di verità: il ponte successivo è effettivamente crollato.

 

        Sempre simulando un atteggiamento riguardoso, Malacoda offre ai Poeti una scorta di dieci diavoli. Essi devono già perlustrare l’argine per impedire che i dannati escano dalla pece (“s’alcun se ne sciorina”); ora faranno anche da guida. Malacoda rassicura Dante e Virgilio: possono star tranquilli perché, in quest’occasione i diavoli non saranno malvagi (“rei”)


pag. 310, vv 115 – 117
Io mando là di questi miei
a riguardar s’alcun se ne sciorina:
gite con lor, che non saranno rei.

        Malacoda, premuroso e rassicurante, afferma che i diavoli che scorteranno i Poeti non si comporteranno male: tali parole, pronunciate dalle labbra di quel ceffo, possono essere credibili? Come si vedrà poco più avanti, Dante non è per nulla tranquillizzato.

 

        Rivolgendosi ai diavoli della scorta, Malacoda li nomina uno ad uno. Fra di essi Barbariccia che guiderà il drappello. Sugli altri nomi, tutti fantasiosi e bizzarri, questo scritto “trattar non cura”.
        Dante, tuttora dominato dalla paura, di fronte all’atteggiamento minaccioso dei demoni (“digrignan li denti”, “con le ciglia [gli sguardi] minaccian duoli”), vorrebbe fare a meno di tale scorta. Chiede al Maestro di procedere da soli, dato che questi, che è già stato in questi luoghi, conosce la strada (“sa’ ir”). Virgilio lo rassicura (e questa volta in modo credibile): ai diavoli è concesso il comportarsi in modo ostile purché lo facciano nei confronti dei dannati immersi nella pece bollente a “lessare” (“per li lessi dolenti”).


pag. 312 – 313, vv 127 – 135
“Ohmè, maestro, che è quel che veggio?”
diss’io. “Deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti,
e con le ciglia ne minaccian duoli?”

Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi:
lasciali digrignar pur a lor senno,
che’ fanno ciò per li lessi dolenti,”

        Frattanto i diavoli, tenendo la lingua, leggermente sporgente, stretta fra i denti (come per far cenno a Barbariccia d’essere pronti, o attendendo un cenno di questi) sono in attesa del segnale di partenza del loro capo; questo arriva, con un atto sconcio e volgare.


pag. 313, vv 136 – 139
Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti verso lor duca per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.

 

        Questi esseri (i fraudolenti ed i diavoli che li rispecchiano), essendosi emotivamente isolati molto presto dal mondo, non hanno mai ricevuto l’influsso di un’educazione a comportamenti rispettosi verso il prossimo. La loro natura, perciò, è rimasta essenzialmente rozza e primitiva.

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Canto XXII

        Dante, ancora nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio, ripensa al curioso segnale di partenza del Malebranche Barbariccia, come descritto nell’ultimo verso del canto precedente. Con espressioni fra il comico e il realistico, passa in rassegna i diversi mezzi di comunicazione del suo tempo: con trombe, o con campane, o bandiere, o fumo dai castelli, o altri mezzi nostrani o forestieri. Precisa che non ebbe mai a che fare con segnali così strani, come quello appena udito dal Barbariccia, per mettere in moto cavalieri, o pedoni, o navi. Distolto dall’ansia grazie a questi aspetti insoliti e buffi della comitiva che lo scorta, egli riesce un po’ meglio ad abituarvisi, così come in chiesa egli trova naturale la compagnia dei santi, o in taverna quella dei ghiottoni:


pag. 316, vv 13 – 15
Noi andavam con li dieci demoni:
ahi fiera compagnia! ma nella chiesa
coi santi, ed in taverna coi ghiottoni.

        Avanzando, il Poeta guarda con attenzione (“intesa”) verso la pece (“pergola”) bollente, allo scopo di comprendere quel che accade (“ogni contegno”) nella bolgia e nella gente che vi sconta la pena (“che dentro v’era incesa”). Vede i dannati che, per cercare un po’ di sollievo, emergono quasi ovunque dalla pece. Essi talora affiorano con il dorso, come delfini che segnalano agli equipaggi delle navi la prossimità di una burrasca, talora con il viso, come ranocchi che si sporgono sugli orli dei fossi. Tuttavia, all’avvicinarsi del Barbariccia, si rituffano velocemente dentro la pece bollente (“sotto i bollori”), temendo una pena ancora maggiore.


pag. 316, vv 16 – 30
Pur alla pegola era la mia intesa,
per veder della bolgia ogni contegno
e della gente ch’entro v’era incesa.

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco della schiena,
che s’argomentin di campar lor legno,

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori il dosso,
e nascondea in men che non balena.

E come all’orlo dell’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,

sì stavan d’ogni parte i peccatori;
ma come s’appressava il Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.

           Qui Dante, per illustrare il comportamento di questi dannati e dei Malebranche, usa metafore tratte dal mondo animale: i delfini, i ranocchi e, più avanti, la lontra, le gatte, il sorcio, l’anatra, il falcone, lo sparviero. Ciò sottolinea il carattere bestiale di questi individui: privi di umanità, la loro vitalità è tutta tesa ad alleviare o evitare lo strazio. La loro non è vera intelligenza, ma solo astuzia al servizio esclusivo della salvaguardia dell’integrità corporea. È ciò che riscontriamo in “bestie” insensibili a tutto il resto; insensibili, ad esempio, ai sentimenti di colpa e di umiliazione che un altro essere, differente da loro, proverebbe in questa situazione. Ancora una volta notiamo come la natura di questi dannati, privatisi di rapporti costruttivi coi propri simili, sia rimasta rozza e primitiva.

 

        L’attenzione del Poeta ora è attirata da uno spettacolo raccapricciante: un dannato, avendo troppo indugiato a rituffarsi nella pece, viene arpionato dal diavolo Graffiacane, che gli stava dirimpetto (“di contra”). Tratto in superficie e rimasto penzoloni, gocciolante e nero di pece, ha l’aspetto di una lontra.


pag. 317, vv 31 – 36
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ‘ncontra
ch’una rana rimane ed altra spiccia;

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ‘mpegolate chiome
 e trassel su, che mi parve una lontra.

        Dante, che aveva appreso i nomi dei diavoli quando furono scelti come scorta, ora sa individuarli quando qualcuno li interpella. Ora gli altri esortano uno dei demoni chiamato Rubicante a straziare il malcapitato peccatore con i suoi “unghioni”, fino a scuoiarlo.


pag. 317, vv 40 – 42
“O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”
gridavan tutti insieme i maladetti.

        Colpisce, in questi diavoli, la violenza gratuita, non contemplata nella loro mansione di custodi. Essa si rivolge contro questi dannati, completamente indifesi. La loro natura riflette quella dei peccatori della bolgia: come questi fecero in vita, simili a cani da guardia con l’inerme “poverello”, infieriscono con chi rappresenta una debolezza che negano in loro stessi, e che cercano di annichilire violentemente (si veda, a questo proposito, il commento del Canto precedente riguardo al meccanismo di identificazione con l’aggressore)

 

        Il Poeta, forse mosso da pietà per il dannato oltre che dalla curiosità, invita il suo Maestro a chiedere a questo peccatore chi egli sia; il che avrebbe avuto l’effetto di sottrarlo per un poco, parlando, dalle mani dei suoi persecutori.


pag. 317 – 318, vv 43 – 54
E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man delli avversari suoi.”

Lo duca mio li s’accostò a lato;
domandollo ond’ei fosse, ed ei rispose:
“I’ fui del regno di Navarra nato.

Mia madre a servo d’un segnor mi pose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo:
quivi mi misi a far baratteria;
di ch’io rendo ragione in questo caldo.”

        Il dannato rivela la sua provenienza e la sua identità: venne dal regno di Navarra (si tratta di Ciampòlo). Ebbe come padre un “ribaldo”, un essere distruttivo che, dopo aver privato sé e la famiglia di ogni bene, pose fine alla sua stessa vita. La madre lo affidò ad un “signore”, come servo. Successivamente Ciampòlo riuscì ad entrare nella corte (“famiglia”) del buon re Tebaldo di Navarra. Qui, approfittando del favore del sovrano, che gli aveva affidato incarichi nell’amministrazione pubblica, si diede alla baratteria.

 

        Il padre era un “ribaldo”, termine col quale, a quel tempo, si designava un avventuriero senza arte, che viveva di attività vili e illecite; in più, si trattava di un essere distruttivo ed auto-distruttivo. Ebbe, quindi, una figura paterna del tutto inadatta a fungere da modello identificativo idealizzabile, con il quale Ciampòlo avrebbe potuto forgiare il suo Ideale dell’Io. Ne risultò, pertanto, un essere del tutto privo di dignità e di ideali.
        La madre, probabilmente nello sforzo di assicurargli un valido sostituto paterno, lo affidò ad un “signore”, ossia una persona di riguardo e dotata di autorità. In seguito, Ciampòlo riuscì persino ad entrare nella corte del re ed a conquistarsene la fiducia. Tuttavia, la natura del dannato era ormai corrotta in modo irreversibile. Fu incapace di trarre, dal favore di una figura paterna autorevole e benevola, la possibilità di sostenere una sana autostima. Al contrario, continuò ad agire allo stesso modo in cui si era comportato fin dagli inizi della sua vita: come allora, usò la frode per impadronirsi di tutto quanto desiderava, senza attendere che ciò gli venisse offerto spontaneamente. Di qui la baratteria.
        La sensibilità del Poeta gli permette di comprendere che il destino di ogni essere umano è fortemente condizionato dalla natura e dal comportamento di chi l’ha messo al mondo. Tuttavia ciò non può annullare del tutto la responsabilità personale delle sue scelte. Se queste sono sbagliate, la Giustizia divina (la realtà) lo punisce inesorabilmente.

 

        I Malebranche non si astengono a lungo dalla loro violenza: a questo punto, il diavolo Ciriatto, dalla cui bocca escono due zanne come ai cinghiali, colpisce di traverso (“sdrucìa”) Ciampòlo coi denti. Il malcapitato si trova come un sorcio circondato da gatte feroci. Tuttavia Barbariccia lo difende: tenendo Ciampòlo con le braccia dal di dietro (“lo ‘nforco”), ordina agli altri diavoli di trarsi in disparte. Poi invita Virgilio a porre al dannato altre domande, prima che gli altri ne facciano scempio (‘l disfaccia”). Il Maestro di Dante chiede a Ciampòlo se fra gli altri barattieri ci sia qualcuno di origine italiana (“latino”). Questi risponde che poco prima ne ha lasciato uno proveniente da una terra vicina all’Italia, e con cui desidererebbe trovarsi ancora insieme.


pag. 318 – 319, vv 55 – 69
E Ciriatto, a cui di bocca uscìa
d’ogni parte una sanna come a porco,
li fe’ sentir come l’una sdrucìa.

Tra male gatte era venuto il sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia,
e disse: “State in là, mentr’io lo ‘nforco.”

E al maestro mio volse la faccia:
“Domanda” disse “ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ‘l disfaccia.”

Lo duca dunque: “Or di’: delli altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?” E quelli: “I’ mi partii,

poco è, da un che fu di là vicino:
così foss’io ancor con lui coperto!
ch’i non temerei unghia né uncino.”

        Il Malebranche Libicocco, affermando d’aver pazientato (“sofferto”) troppo, strappa col ronciglio un pezzo di braccio (“un lacerto”) a Ciampòlo; e Draghignazzo gli si avventa alle gambe. Tuttavia il loro capo squadre (“’l decurio”), col suo cipiglio, frena i due scatenati.


pag. 319, vv 70 – 75
E Libicocco “Troppo avem sofferto”
disse, e preseli ‘l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso alle gambe; onde ‘l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.

        La violenza domina questi esseri, e sfida ogni disciplina. Devono essere frenati continuamente da chi li comanda.

 

        A Ciampòlo, che fissa la sua ferita, Virgilio chiede chi è il compagno di pena cui aveva accennato poco prima e da cui, facendo uno sbaglio (“mala partita”) si è allontanato. Il barattiere risponde che si tratta di frate Gomita di Gallura, un funzionario sardo rotto ad ogni frode (“vasel d’ogni froda”) e “sovrano” dei corrotti. Costui, dovendo decidere la sorte di nemici del suo padrone (“donno”), con un giudizio sommario (“di piano”) li prosciolse perché corrotto. A questo modo, ciascuno di loro restò soddisfatto (“se ne loda”).


pag. 319 – 324, vv 76 – 87
Quand’elli un poco rappacciati foro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ‘l duca mio sanza dimoro:

“Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?
Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d’ogni froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fe’ sì lor, che ciascun se ne loda.

Danar si tolse, e lasciolli di piano,
sì com’è dice; e nelli altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.

        Fra questi individui, privi di scrupoli e di dignità, si crea spontaneamente un rapporto di collusione. La corruzione risulta, così, più facilmente attuabile, e ciascuno ne resta soddisfatto, senza problemi.

 

        Ciampòlo dice ancora qualcosa di un altro barattiere, Michele Zanche. Tuttavia non è tranquillo: continuerebbe ancora a parlare (“direi anche”), però lo inquieta l’espressione di un diavolo, Farfarello, che digrigna i denti, ha gli occhi stralunati, e sembra sul punto di aggredirlo e straziarlo (“grattarmi la tigna”). Barbariccia (“’l gran proposto”), ancora una volta, riesce a tenere a bada questo demonio, ma ciò non basta al barattiere. Come per prolungare la tregua, propone di far emergere dalla pece altri sette peccatori “Toschi o Lombardi” che possano parlare ai due Poeti. Li può richiamare col fischio (“suffolerò”) con cui i dannati sono soliti comunicarsi che possono emergere. È disposto a farlo purché i Malebranche restino in disparte (“in cesso”) per non spaventare i nuovi arrivati. Come apparirà poco dopo, si tratta di un inganno.


pag. 324 – 325, vv 91 – 105
“Ohmè, vedete l’altro che digrigna:
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna.”

E ‘l gran proposto, volto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: “Fatti ‘n costà, malvagio uccello.”

“Se voi volete vedere o udire”
ricominciò lo spaurato appresso
“Toschi o Lombardi io ne farò venire;

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman delle lor vendette;
e io, seggendo in questo luogo stesso,

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette.”

        Cagnazzo, un diavolo malizioso, intuisce che il barattiere li sta ingannando: afferma d’aver capito che, una volta allontanati i diavoli, Ciampòlo si ritufferà nella pece, evitando così ulteriori violenze. Questi risponde d’essere troppo malvagio per voler sottrarre i compagni di sventure da maggiori tormenti (“tristizia”).


pag. 325, vv 106 – 111
Cagnazzo a cotal motto levò ‘l muso
crollando il capo, e disse: “Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: “Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ miei maggior tristizia.”

        Alichino, il più presuntuoso della compagnia, è talmente sicuro della velocità del suo volo da concedere a Ciampòlo di rimanere incustodito, mentre i diavoli si ritireranno dalla parte superiore dell’argine (“’l collo”) mettendosi dietro la ripa: se il barattiere s’azzardasse a tuffarsi, è sicuro che lo riacciufferebbe in un baleno.


pag. 325, vv 112 – 117
Alichin non si tenne, e, di rintoppo
alli altri, disse a lui: “Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di galuoppo,

ma batterò sovra la pece l’ali:
lascisi ‘l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali.”

        Ora Dante preannuncia una gara singolare (“nuovo ludo”) tra Ciampòlo e i Malebranche. Tutti i diavoli, preceduti da Cagnazzo – il più restìo (“crudo”) ad assecondare il dannato – si dirigono verso la ripa; e mentre distolgono gli occhi da lui, il barattiere coglie il momento opportuno per saltare nella pece, ignorando quel che aveva proposto. Ora ciascun demonio si pente (“fu compunto”) d’esser caduto nella trappola di Ciampòlo.
        Alichino, il maggior responsabile dello scacco subìto (il “difetto”), si slancia gridando al dannato: “Ti acchiappo, sei preso!” (“Tu se’ giunto!”). Tuttavia la paura (“il sospetto”) permette a Ciampòlo di battere in velocità la ferocia del demonio: rapido, s’immerge nella pergola, e costringe Alichino, giunto con un istante di ritardo, a risollevarsi in volo. Il barattiere sembra un’anitra che, al sopraggiungere di un falcone, veloce s’immerge nell’acqua, mentre al suo aggressore non rimane che ritornare a volare in alto, crucciato e affranto (“rotto”).


pag. 325 – 326, vv 118 – 132
Or tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun dall’altra costa li occhi volse;
quel prima ch’a ciò fare era più crudo.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, ed in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar: quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ‘l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna su crucciato e rotto.

        Tra i barattieri e i Malebranche, loro simili, di crea come una gara di malizia ed astuzia. Usano abitualmente queste risorse nella loro lotta, e non sanno concepire altro tipo di rapporto che non sia di lotta. Quando, però, malizia ed astuzia si rivelano inutili, emerge tutta la ferocia primitiva che rappresenta la passione dominante di costoro, come si vedrà nella scena seguente.

 

        Calcabrina, adirato per l’inganno (la “buffa”) di Ciampòlo, si getta dietro Alichino, avendo quasi piacere (“invaghito”) d’aver motivo d’azzuffarsi con lui. È ansioso di vendicarsi del comportamento malaccorto del presuntuoso compagno. Appena il barattiere scompare alla vista, Calcabrina volge gli artigli all’altro diavolo; ed eccoli, ciascuno afferrato (“ghermito”) dall’altro, sospesi sopra il lago di pece. Tuttavia Alichino è pronto come uno sparviero (“bene sparvier grifagno”) ad artigliare Calcabrina, ed entrambi finiscono per cadere giù fra i dannati. Il calore della pegola bollente fa sì che allentino la stretta (“sghermitor subito fue”). Tuttavia i tentativi di levarsi in volo, a questo punto, si rivelano vani (“era neente”), tanto le ali di entrambi sono invischiate di pece.


pag. 326 – 327, vv 133 – 144
Irato Calcabrina della buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;

e come ‘l barattier fu disparuto,
così volse gli artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ‘l fosso ghermito.

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, ed amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.

Lo caldo sghermitor subito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avìeno inviscate l’ali sue.

        La scena qui illustrata, più grottesca che comica, si riproduce spesso tra simili penosi buffoni che non hanno alcun motivo razionale, né alcun ideale, per contrapporsi l’uno all’altro, ma solo gretto egoismo ed una ferocia rozza e animalesca. Pirandello vede, in quest’episodio, “una grottesca rappresentazione della condanna [che subì] il Poeta e del suo bando”. Il sarcasmo che qui Dante usa “non è mai commedia [non è mai né lieto, né divertente], ma è sempre un dramma che non può rappresentarsi tragicamente come dovrebbe [non può assumere la solennità e la gravità di una tragedia] poiché troppo buffi, indegni e solo meritevoli di disprezzo sono gli elementi e le ragioni ond’è determinato”. Non sorge il sospetto che certe “zuffe” tra chi lotta per il potere abbiano un carattere del tutto simile?

 

        Barbariccia, come gli altri diavoli avvilito (“dolente”) per l’accaduto, ordina che quattro di loro volino verso l’altra proda, armati dei loro raffi o uncini. Dall’una parte e dall’altra, i Malebranche discendono al luogo (“la posta”) dove si trovano, imprigionati nella pece, i due sventurati. Li traggono fuori, già ridotti come pietanze stracotte (“cotti dentro dalla crosta”)


pag. 327, vv 145 – 150
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fe’ volar dall’altra costa
con tutt’i raffi, ed assai prestamente

di qua, di là discesero alla posta:
porser li uncini verso li ‘mpaniati,
ch’eran già cotti dentro dalla crosta;

        Avviliti per lo scorno subìto, e due di loro caduti nella pece bollente, i Malebranche finiscono per subire la stessa punizione divina (ossia l’inevitabile conseguenza) per il loro comportamento, del tutto simile a quello dei dannati che custodiscono.

 

        Dante e Virgilio, approfittando della confusione creatasi fra i diavoli, si allontanano e proseguono il cammino da soli.


pag. 327, v 151
e noi lasciammo lor così impacciati.

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Canto XXIII

        Dante e Virgilio, rimasti soli, riprendono il cammino procedendo uno davanti all’altro sull’argine che separa la quinta dalla sesta bolgia.


pag. 329, vv 1 – 3
Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come i frati minor vanno per via.

        I Poeti camminano in silenzio, come per ristorare i loro sensi dal chiasso della scena precedente. Procedono l’uno davanti e l’altro dietro, secondo il costume dei seguaci di S. Francesco (i “frati minor”): sembrano voler recuperare, anche sul piano simbolico, la virtù dell’umiltà dei francescani, in contrasto con la sfrenata avidità di ricchezze dei barattieri che hanno appena lasciato. Contrappongono una “silenziosa meditazione” – sottolineata anche dallo “accento lento e solenne” dei versi (cit.) – al movimento convulso e concitato della quinta bolgia. Tutto questo pare anticipare l’atmosfera che stanno per incontrare nella bolgia degli ipocriti.

 

        Dante sta ancora pensando alla zuffa dei Malebranche Calcabrina ed Alichino, e paragona la scena a quanto accade in una favola attribuita ad Esopo. Qui un topo, che voleva attraversare un fiume, chiede aiuto ad una rana, e questa accetta a patto che il topo leghi una zampa alla sua. Nel mezzo del fiume, la rana tenta d’immergersi per affogare il suo ospite. I due si agitano nella lotta, finché un nibbio piomba su entrambi, legati tra loro, e se li porta via. In modo simile, Calcabrina voleva nuocere ad Alichino; ma la pece, come il nibbio della favola, ha ghermito entrambi.
        Come un pensiero ne richiama improvvisamente (“scoppia”) un altro, al Poeta si affaccia alla mente qualcosa che rinnova in lui la paura: i diavoli, ingannati e scherniti anche grazie a lui ed a Virgilio – che, pur involontariamente avevano favorito la fuga di Ciampòlo – ora cercheranno di vendicarsi. Se l’ira si sovrappone (“fa gueffa”) sommandosi al malvolere, i Malebranche li inseguiranno, più crudeli del cane che addenta (“acceffa”) la lepre dopo averla raggiunta.


pag. 329 – 331, vv 10 – 18
E come l’un pensier dell’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fe’ doppia.

Io pensava così: “Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.

Se l’ira sovra ‘l mal voler fa gueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ‘l cane a quella lievre ch’elli acceffa.”

        In esseri il cui malvolere è costante, un’occasionale manifestazione di collera si esprime con una crudeltà priva di freni. Come spesso accade, la paura del più fragile ed indifeso rende costui particolarmente perspicace.

 

        Dante si sente già arricciare i peli dalla paura, e guarda dietro con apprensione. Si rivolge al Maestro invitandolo a fuggire: immagina l’inseguimento dei Malebranche con tale paurosa intensità che se li sente già alle spalle.


pag. 331, vv 19 – 23
Già mi sentìa tutti arricciar li peli
della paura, e stava in dietro intento,
quand’io dissi: “Maestro, se non celi

te e me tostamente, i’ ho pavento
de’ Malebranche: noi li avem già dietro:
io li’ magino sì, che già li sento.”

        Virgilio risponde che, se fosse uno specchio (“piombato vetro”) non rifletterebbe con maggiore fedeltà e immediatezza l’immagine di Dante come è in quel momento, e fa suo quel che avverte nell’animo dell’allievo. I pensieri e l’apprensione di questi sono penetrati nella sua mente, identici (“con simile atto e con simile faccia”), al punto che entrambi hanno un’unica idea.


pag. 331 – 336, vv 25 – 30
E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella d’entro impetro.

Pur mo venìeno i tuo’ pensier tra’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.

        La paura di Dante è di intensità tale da esprimersi in modo quasi allucinatorio: già “si sente” alle spalle i Malebranche. Egli trasmette al Maestro i suoi sentimenti e pensieri, più che con le parole, con l’espressione del viso e l’atteggiamento (l’immagine). La comunicazione è di tale immediatezza da essere paragonabile alla prontezza con cui lo specchio restituisce la sua figura a chi si guarda. Quel che Dante pensa e prova penetra nella mente di Virgilio al punto da produrre in lui la stessa idea dell’allievo.
        Un inciso di carattere clinico: registrare le sole parole di un paziente impoverisce notevolmente l’illustrazione di una seduta terapeutica. La comunicazione di quel che è emotivamente rilevante avviene in modo extra-verbale, ed è fatta di sensazioni che vengono trasmesse con grande immediatezza attraverso innumerevoli stimoli, anche subliminali. Anche le sole immagini visive, registrate in un filmato, possono essere fuorvianti se non si precisa quel che il terapeuta, e presumibilmente il paziente, provavano in quel momento.

 

        Virgilio pensa sia bene trovare un luogo dove la riva dell’argine non sia molto ripida, in modo da poter scendere nella sesta bolgia. Ha appena espresso quest’idea che appaiono, alle spalle dei Poeti, i Malebranche con le ali minacciosamente tese, pronti a catturarli.
        Il Poeta latino subito afferra il suo allievo. Sembra una madre che di notte, al divampare di un incendio, prende il figlio e fugge pensando a lui più che a sé stessa, al punto di non curarsi neppure d’indossare una camicia. Virgilio, tenendo Dante fra le braccia, si lascia andare giù supino lungo il pendio che porta alla sesta bolgia. I due Poeti hanno appena toccato il fondo del vallone, quando compaiono i diavoli sull’argine, sopra di loro. Questi, però, non possono più nuocere perché la Divina Provvidenza proibisce loro d’allontanarsi dalla bolgia loro assegnata.
        Al fondo della sesta bolgia, Dante e Virgilio incontrano dannati, la cui veste è dorata (“dipinta”), che procedono lentamente, piangendo. Il loro aspetto è affaticato e abbattuto (gente “nel sembiante stanca e vinta”). Essi sono ricoperti da cappe monacali, coi cappucci abbassati sugli occhi, di fattura (“taglia”) simile a quelle usate dai frati di Cluny (“Clugnì”, che alcuni interpretano come Colonia). Le cappe sono dorate, ma all’interno sono di piombo, e talmente pesanti che quelle con cui Federico II puniva i colpevoli di lesa maestà sembrerebbero di paglia.


pag. 337 – 339, vv 58 – 66
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi alli occhi, fatte della taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.

Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.

         Si tratta degli ipocriti che, esteriormente d’aspetto gradevole (“dorati”), portano, al loro interno, un metallo molto meno nobile dell’oro: il piombo, pesante e faticoso da trascinare. Dante, probabilmente, si è ispirato alle parole di Cristo riportate nel Vangelo di S. Matteo: “Guai a voi, scribi e Farisei ipocriti, che siete simili ai sepolcri imbiancati, che di fuori paiono belli, ma dentro son pieni d’ossa di morti e d’ogni bruttura…”. Il mondo interno degli ipocriti, in contrasto con le apparenze, è come il contenuto dei sepolcri: repellente come un cadavere in decomposizione e privo di vita. Privatisi di rapporti sinceri coi propri simili, non hanno potuto trarne alcuno stimolo vitale per la propria esistenza interiore; ciò rappresenta come un fardello che devono trascinare da soli, muovendosi faticosamente e lentamente, con la stessa circospezione che usarono in vita.
        Parlo, ora, come clinico: la giusta ed inevitabile condanna morale di queste persone rischia d’impedirci di capire come costoro arrivarono ad essere quel che sono: nella loro storia, fu solo l’ipocrisia a causare l’assenza di vita del mondo interno, o non fu anche una preesistente morte interiore (dovuta all’assenza di rapporti empatici vivificanti) ad indurli a manifestarsi come ipocriti nella relazione coi propri simili? I grandi Artisti, se sappiamo cogliere il loro messaggio in tutti i suoi aspetti, ci permette di porci questa domanda. Un residuo di aspirazione sana ad un rapporto autentico col prossimo si può intravvedere nell’ansia con cui gli ipocriti di Dante cercano affannosamente di raggiungere i Poeti, come apparirà fra poco. Un altro esempio ancor più chiaro ci è offerto nel capolavoro di Saltykov-Scedrin “I signori Golovlev”. Qui il protagonista Juduska, un ipocrita scellerato, verso la fine della sua vita entra in crisi e dimostra un’umanità che, finora, sembrava del tutto assente nel suo animo. Dobbiamo pensare che, al di sotto dell’ipocrisia, in alcune di queste persone (o in tutte?) sia rimasto un rimasuglio dell’originaria potenzialità evolutiva sana, ossia una tensione verso rapporti autentici; rimasuglio superstite che si manifesta quando il loro abituale modo di vivere fraudolento entra in crisi. Ovviamente, per noi clinici, è importante cogliere i segni di tale potenzialità quando si manifestano in crisi ancora superabili, e non attendere la catastrofe finale irrimediabile, come avviene in Juduska. Non possiamo permettere che un nostro giudizio morale (o moralistico) ci renda sordi a quel che il paziente sta cercando di comunicarci.

 

        I Poeti, volgendo come di regola (“ancor pur”) a sinistra, camminano nella stessa direzione dei dannati; ma, poiché questi procedono lentamente per il peso che portano, ad ogni passo ne vedono sempre nuovi. Dante, come al solito, prega Virgilio d’aiutarlo ad individuare qualcuno, fra gli ipocriti, che sia noto di nome o di fatto. Uno dei peccatori, sentendo l’accento toscano del Poeta, grida a lui ed al suo Maestro di trattenere il passo. Virgilio acconsente.


pag. 339, vv 67 – 81
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;

ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam novi
 di compagnia ad ogni mover d’anca.

Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi 
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi.”

E un che ‘ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: “Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi.”
Onde ‘l duca si volse e disse: “Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi.”

        Dante si ferma; l’ipocrita ed un altro dannato si affannano a raggiungerlo con un’ansia che traspare dal viso, pur procedendo a stento per il peso della cappa e per la ristrettezza della via. Giunti fino al Poeta, lo sogguardano di traverso (“con l’occhio bieco”). Poi, dopo una pausa di silenzio, osservano che Dante sembra vivo perché respira (“all’atto della gola”); e se, invece, lui e Virgilio fossero morti, così si chiedono, per quale privilegio sono privi di cappa? (“scoperti della grave stola”). Rivolgendosi a Dante, l’ipocrita gli chiede chi egli sia. Il Poeta risponde d’essere nato e cresciuto a Firenze, bagnata dall’Arno. Aggiunge che il corpo con cui si presenta è quello che gli è sempre appartenuto.


pag. 340, vv 82 – 96
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
dell’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ‘l carco e la via stretta.

Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:

“Costui par vivo all’atto della gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti della grave stola?”

Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio
dell’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio.”

E io a loro: “I fui nato e cresciuto
sovra ‘l bel fiume d’Arno alla gran villa,
e son col corpo ch’i ho sempre avuto.

        La fretta e l’ansia con cui gli ipocriti, pur arrancando, si avvicinano ai Poeti, riflette un desiderio, mai del tutto soppresso, di “raggiungere” (entrare in rapporto con) un proprio simile. Ciò, tuttavia, costa loro un’enorme fatica per il fardello della falsità, di cui non riescono mai a liberarsi.
        Questi dannati sogguardano il Poeta di traverso dato che, per il peso dei cappucci di piombo, non possono sollevare il capo. Tuttavia, ciò rappresenta anche un loro naturale atteggiamento: si rivolgono all’interlocutore senza fissarlo negli occhi, guardandolo quasi di nascosto, per timore che l’incontro con lo sguardo dell’altro faccia trasparire i loro veri sentimenti.
        Le due anime chiedono a Dante di dire chi egli sia, se non le disprezza al punto di rifiutarsi di parlare con loro. Fra le tante caratteristiche che potrebbero qualificarlo, il Poeta sceglie il suo essere nato e cresciuto a Firenze (la sua “città madre”) ed il suo presentarsi con il corpo che è sempre stato suo. Rispondendo ai dannati, Dante dimostra di non disprezzarli; tuttavia le sue affermazioni sembrano puntualizzare che egli è profondamente diverso da loro. La sua esistenza è differente da quella, incorporea, delle anime. Tuttavia, accostando tale affermazione a quella della città madre, sembra dire qualcosa di più. Il corpo, per ciascuno di noi, rappresenta ciò che originariamente mediò il rapporto con la madre arcaica; a suo tempo fu anche tutt’uno con lei. Esso è la fonte delle pulsioni e delle sensazioni più autentiche. Con le sue due affermazioni, Dante fa presente che, a differenza degli ipocriti, egli non ha mai interrotto il contatto con la sua autentica natura. La storia del suo corpo (delle sue vere sensazioni, della sua indole) ha mantenuto la sua continuità, dal tempo in cui esso era legato al più antico oggetto d’amore, fino al momento presente.

 

        Dante, a sua volta, chiede ai dannati chi sono, e per quale pena piangono con così vivo dolore. Catalano dei Catalani, uno dei due, forse per indurre nel Poeta un sentimento di pietà, inizia parlando della gravità della loro pena: in contrasto con il rivestimento color arancio (“rancio”) e sfavillante, le loro cappe sono fatte di un piombo così pesante che farebbe cigolare le bilance. Poi rivela l’identità sua e del compagno, Loderingo degli Andalò: furono entrambi Frati Gaudenti bolognesi. Chiamati a Firenze come podestà (carica di solito affidata ad una persona sola: “un uom solingo”) allo scopo di rappacificare le parti politiche, al contrario favorirono il partito guelfo. Confessano questo dicendo, con amara ironia, che ciò che fecero si vede bene da quel che resta delle mura del Gardingo; qui, infatti, c’erano le torri di proprietà dei ghibellini che, grazie anche alla loro opera, furono completamente distrutte dai guelfi.


pag. 340 – 341, vv 97 – 108
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?”

E l’un rispuose a me: “Le cappe rance
son di piombo s’ grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.

Frati Godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi,

come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace, e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo.”

        I due frati furono i fondatori dell’ordine religioso e cavalleresco di Maria Vergine Gloriosa, il cui scopo era comporre le discordie politiche e private. Presto esso degenerò, al punto che i suoi seguaci furono soprannominati per scherno “Frati Gaudenti”. Tuttavia la degenerazione di Catalano e Loderingo fu molto più grave e profonda del semplice indulgere al piacere. Non a caso il loro ordine portava il nome di Maria, “vergine e madre”, vale a dire la genitrice ideale dei primordi della nostra vita: una mamma di una tale purezza e di una tale dedizione ai figli da cancellare sul nascere, nel loro animo, ogni traccia di rivalità, di gelosia e d’invidia, ossia delle radici emotive di ogni successiva discordia. Questo è il grave peccato d’ipocrisia dei due dannati: proclamando la loro intenzione di porre fine alle lotte politiche, essi, in realtà, le esasperarono. Tradirono, a questo modo, la Madre Ideale, in nome della quale sostenevano di agire.

 

        Dante sta per rivolgere ancora la parola ai due frati quando la prima frase gli viene troncata nella bocca dallo spettacolo di un peccatore crocifisso in terra con tre pali. Questi, vedendosi osservato, si contorce (“si distorse”) per la rabbia e la vergogna, e soffia rabbiosamente nella barba, scompigliandola. Catalano informa il Poeta che si tratta di Caifas, il sommo sacerdote che propose al concilio dei Farisei di mettere a morte Gesù, prendendo ipocritamente il pretesto che ciò sarebbe stato per il pubblico bene (“per lo popolo”). Anche Anna, il suocero di lui, è condannato alla medesima pena per lo stesso peccato, come pure gli altri membri del concilio. Essi, crocefissi nudi sul percorso degli altri dannati, vengono da questi pesantemente calpestati. Vigilio, vedendo questi peccatori per lui nuovi, esprime la sua meraviglia. Egli, infatti, era disceso precedentemente nell’Inferno (“nell’etterno essilio”) prima della morte di Cristo.


pag. 341 – 343, vv 109 – 125
Io cominciai: “O frati, i vostri mali…”
ma più non dissi, ch’all’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.

Quando mi vide, tutto si distorse
soffiando nella barba con sospiri;
e ‘l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,

mi disse: “Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenìa porre
un uom per lo popolo a’ martiri.

Attraversato è, nudo, nella via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.

E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa.”

Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente nell’etterno essilio.

        Caifas è il prototipo del sacerdote che, impegnato nella lotta politica, tradisce la sua missione. Proclama ipocritamente d’agire nel nome del Signore e per il bene del popolo, ma in realtà il suo unico Dio è il potere. Non ha alcuno scrupolo a sacrificare, per il suo interesse, la vita di un essere umano. La sua vittima è “un uomo”: qui non viene precisato che si tratta di un uomo del tutto speciale, ossia il figlio di Dio. Quel che conta è che si tratta di un suo simile. Caifas non solo calpestò la sua fedeltà al proprio impegno religioso, ma anche il più elementare sentimento che lega gli esseri umani sani ai propri simili: il rispetto per la loro vita. La Giustizia Divina (la realtà dell’ipocrita in crisi) lo condanna ad essere calpestato lui stesso, per l’eternità.
        Ritenendo, probabilmente, che questo sia l’unico modo per sopravvivere, l’ipocrita sacrifica tutto il resto al proprio egoismo. Lo fa nel modo peggiore: vanificando i più alti ideali ed i migliori sentimenti con le sue affermazioni menzognere. Per un clinico, l’ostacolo maggiore ad entrare in un rapporto con queste persone è il loro carattere distruttivo e sgradevole.

 

        Virgilio chiede a Catalano se esiste un modo per passare alla settima bolgia senza ricorrere all’aiuto dei diavoli. Il frate gli risponde che è abbastanza vicina la frana del ponte crollato della bolgia. Salendo sulle macerie, i Poeti potranno raggiungere l’argine, per poi proseguire verso la bolgia seguente.
        Il Maestro di Dante, apprendendo questa notizia, s’accorge che Malacoda (“colui che i peccator di qua uncina”) lo aveva ingannato (“mal contava la bisogna”) dicendogli che c’era un altro ponte su cui passare; rimane, perciò, amareggiato, a testa china. Catalano gli ricorda ironicamente che chi ha studiato teologia, come lui a Bologna, può facilmente immaginare qual è la natura dei diavoli: tra i loro innumerevoli vizi, non può mancare la menzogna.


pag. 344 – 345, vv 139 – 144
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: “Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina.”

E ‘l frate: “Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra’ quali udi’
ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna.”

        Un mentitore seriale, posseduto dal “demonio” (la personificazione delle pulsioni distruttive rimosse) non finisce mai di sorprendere; ne rimane vittima persino una persona saggia ed esperta qual è Virgilio. La beffa di Malacoda non è divertente, e neppure causa grossi danni ai Poeti. Per il senso comune, appaiono incomprensibili ed imprevedibili simili menzogne del tutto inutili. Eppure un motivo per raccontarle c’è: individui di quel genere non risparmiano, nella loro distruttività, nulla che sia di vitale importanza. Anche la comunicazione veritiera ed affidabile, fondamento della collaborazione fra esseri umani, viene attaccata e trasformata in menzogna. Non importa che gli effetti di tale bugia siano irrilevanti: è la possibilità di comunicare che viene distrutta.

 

        A Virgilio, turbato ed irritato, non resta che allontanarsi a gran passi. Dante segue le sue orme (le “poste delle care piante”), lasciando anche lui i dannati carichi di pesi (“li ‘ncarcati”).


pag. 345, vv 145 – 148
Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io dalli ‘ncarcati mi parti’

dietro alle poste delle care piante.

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Canto XXIV

        Sul volto di Virgilio si leggono ancora i segni dell’irritazione per l’inganno di Malacoda ed il commento ironico di Catalano. Ciò rende inquieto Dante; tuttavia il timore che il Maestro abbia perso la sua pace è di breve durata: Virgilio presto si rasserena. Il Poeta paragona i cambiamenti del proprio stato d’animo a quelli del povero villanello nel suo rapporto con la Natura. Questi, svegliandosi una mattina del tardo inverno – quando il sole con i suoi raggi (“i crin”) si trova nel segno zodiacale dell’Acquario e già le notti tendono a durare quanto i giorni (“al mezzo dì sen vanno) – vede la terra tutta bianca di brina, e pensando che si tratti di neve (“la sua sorella bianca”), è preso dallo sconforto (“si batte l’anca”): teme che ciò privi il suo gregge del foraggio. Presto, però, la brina si dissolve (il mondo ha “cangiata faccia”) ed egli si riconforta (“la speranza ringavagna”); preso il suo bastone (“suo vincastro), esce con le sue pecorelle per il pascolo.


pag. 347 – 348, vv 1 – 21
In quella parte del giovanetto anno
che ‘l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,

quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura alla sua penna tempra;

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,

ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ‘l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,

veggendo il mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro,
e fuor le pecorelle a pascer caccia.

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ‘mpiastro;

ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.

        I cambiamenti della Natura risvegliano, nel villanello, l’antica apprensione del bambino piccolo di fronte al turbamento che legge nel viso materno. Teme che la genitrice abbia perso la pace interiore e, con essa, la sollecitudine da cui dipendono il suo benessere e la sua stessa vita. Tuttavia presto la madre si rasserena, e nel piccolo ritornano la fiducia e la speranza. Tale è il rapporto del pastore con Madre Natura, e di Dante con Virgilio. Il Maestro riprende la dolcezza che il Poeta conobbe all’inizio del suo viaggio (“a piè del monte”). Questo succede quando Dante e la sua guida sono arrivati alle rovine del ponte caduto alla morte di Cristo, simbolo del crollo della speranza nella Redenzione. Tuttavia, anche se le rovine del ponte evocano tale tragico avvenimento e rappresentano un ostacolo al cammino, l’espressione rasserenata di Virgilio fa rinascere in Dante la fiducia che il viaggio verso il riscatto della sua anima proseguirà. Il Poeta, però, deve ancora affrontare dure prove.

 

        Ora Virgilio si rivolge con rinnovato affetto al suo discepolo: lo prende fra le sue braccia e, dopo aver studiato il possibile percorso per salire fra le rovine del ponte, lo sospinge suggerendogli le sporgenze (le “schegge”, le “chiappe”) cui aggrapparsi. Dante osserva che, per quella via così disagevole, non sarebbe potuto salire nessuno degli ipocriti, vestiti della pesante cappa di piombo. La strada verso il fondo dell’Inferno è in discesa; tuttavia, per percorrerla, ora i Poeti devono affrontare una faticosa salita per giungere al culmine dell’argine (“precinto”) che delimita la settima bolgia.


pag. 348 – 349, vv 22 – 42
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ‘nnanzi si proveggia,
così, levando me su per la cima

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia.”

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve ed io sospinto,
potavam su montar di chiappa in chiappa;

e se non fosse che da quel precinto
più che dall’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Ma perché Malebolge inver la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta

che l’una costa surge e l’altra scende:
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende.

        Questi versi rendono con grande efficacia le emozioni di una difficile salita. Benché la strada che porta al male (al fondo dell’Inferno) sia in discesa, tollerare l’esperienza evocata del crollo della speranza di Redenzione (il percorso tra le rovine del ponte) comporta uno sforzo notevole, paragonabile a quello di una salita faticosa. Gli ipocriti, con la loro pesante cappa di falsità, non riuscirebbero a sostenerlo.

 

        Appena arrivato (“nella prima giunta”) alla cima dell’argine, Dante, privo di fiato (“la lena del polmon munta”) ed esausto, si pone a sedere. Tuttavia Virgilio lo esorta ad alzarsi ed a proseguire il cammino (“convien che tu così ti spoltre”). Oziando fra le mollezze (“seggendo in piuma” e “sotto coltre”) non si acquista fama; e, senza di essa, ogni traccia dell’uomo sulla terra si dissolverebbe come fumo nell’aria o schiuma nell’acqua.


pag. 349 – 351, vv 43 – 51
La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui su, ch’i’ non potea più oltre,
anzi m’assisi nella prima giunta.

“Omai convien che tu così ti spoltre;”
disse ‘l maestro “ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;

sanza la qual chi vita sua consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere ed in acqua la schiuma.

        L’ozio, che viene superficialmente giudicato come frutto di semplice pigrizia, è in realtà significativo di grossi ostacoli che si oppongono al cammino verso la virtù; ossia verso la realizzazione di nobili progetti per cui si acquisterebbe una fama meritata. Si tratta dell’ignavia, dell’accidia, dell’infingardaggine ipocrita, che tolgono all’individuo la determinazione ed il coraggio d’affrontare l’esperienza dello sconforto (il ponte crollato) e la consapevolezza degli aspetti peggiori del proprio animo (il percorso verso fondo dell’Inferno); consapevolezza necessaria per poterli porre sotto il proprio controllo e non permettere che prevalgano.
        Virgilio, qui, si appella all’aspirazione alla fama di Dante, più che ai suoi doveri. Analogamente, un buon terapeuta, si appoggerebbe all’Ideale dell’Io del suo paziente, più che alla condanna superegoica della sua inerzia.

 

        L’esortazione di Virgilio trova pronta rispondenza in Dante che, rialzatosi, si dichiara “forte e ardito” e mostra al suo Maestro una rinnovata energia (“lena”) che in realtà non avverte in sé stesso.


pag. 351, vv 58 – 60
Leva’mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentìa,
e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito.”

        C’è qui una caratteristica di Dante che rivedremo, attribuita ad Ulisse, nel Canto dedicato a questo personaggio. In entrambi, la tensione verso una meta ideale (“virtute e conoscenza”) prende il sopravvento su qualsiasi altro affetto, persino sul riguardo per sé stesso e la propria integrità corporea.
        Non si può fare a meno di pensare a Primo Levi, cui stavano a cuore i versi dell’Ulisse dantesco, al punto di ricordarli persino mentre si trovava ad Auschwitz. Il perseguimento tenace e instancabile dell’auto-conoscenza rappresentò, per il grande scrittore, un alto ideale, ma anche una delle cause della sua tragica fine. Continuò a scavare negli aspetti più angoscianti del suo mondo interno senza alcuna pietà per sé stesso e, per lungo tempo, senza la protezione di una guida. Quando, poi, decise di farsi aiutare, entrando in analisi, era ormai troppo tardi.

 

        Parlando ad alta voce, per non apparire infiacchito (“fievole”), Dante percorre col suo Maestro il ponte che sovrasta la settima bolgia. Il passaggio è più malagevole (“ronchioso e stretto”) di quelli incontrati precedentemente. Qui avverte, proveniente dal fondo della fossa, una voce indistinta (“a parole formar disconvenevole”), come di chi sta camminando (“ad ire mosso”, che alcuni interpretano come “mosso dall’ira”). Il Poeta cerca, guardando in basso, di capire da chi tale voce provenga, ma i suoi “occhi vivi” non riescono a discernere nulla nell’oscurità. Prega, perciò Virgilio di raggiungere l’argine successivo (“cinghio”) e da qui discendere nella bolgia, allo scopo di poter meglio vedere i dannati.


pag. 351 – 356, vv 61 – 75
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì dell’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.

Non so che disse, ancor che sovra ‘l dosso
fossi dell’arco già che varca quivi:
ma chi parlava ad ire parea mosso.

Io era volto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch’io: “Maestro, fa che tu arrivi

dall’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’i’ odo e quinci non intendo,
così giù veggio e neente affiguro”

        Il ponte sospeso sulla bolgia dei ladri (che, come vedremo, vengono qui puniti) è malagevole da percorrere. Dante non si trova a suo agio, posto di fronte allo spettacolo della potenzialità dell’animo umano che informò gli atti e lo stile di vita dei ladri. La natura di costoro è tanto lontana dall’immagine cosciente che Dante ha di sé stesso che egli non può intenderne i messaggi stando distante: deve proprio raggiungerli per vederli e comprenderli.

 

        Virgilio dà il suo consenso a scendere nella bolgia. Qui appare a Dante un terribile ammasso (“stipa”) di serpenti di vari tipi (di “diversa mena”). Il solo ricordo della scena gli strazia (“scipa”) il sangue.


pag. 356, vv 82 – 84
e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.

 
        Tra questa moltitudine (“copia”) di rettili corrono le anime dei ladri, “nude e spaventate”, senza trovare un rifugio in cui nascondersi (un “pertugio) o una pietra di virtù magiche, come l’elitropia, cui si attribuiva il potere di rendere invisibile chi la portava, e di guarire dai morsi degli animali velenosi. Le mani dei dannati sono legate dietro la schiena dai serpenti; questi mettono la testa e la coda attraverso le reni, formando un nodo sul petto (“eran dinanzi aggroppate”). I peccatori sono terrorizzati da tali animali ma, come si vedrà nel canto seguente, talora si trasformano essi stessi in serpenti.


pag. 357, vv 91 – 96
Tra questa cruda e tristissima copia
correan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e il capo, ed eran dinanzi aggroppate.

        Non è casuale che, per accedere alla bolgia dei ladri, occorra passare dal ponte crollato, simbolo della morte di Cristo e della perdita della speranza di Redenzione. La bolgia è dominata dai serpenti, uno dei quali fu causa del peccato originale e dell’espulsione dall’Eden. Per i dannati ladri, quindi, la speranza di Redenzione si è dissolta per sempre, ed il Paradiso è definitivamente perduto.
        Sul piano simbolico, il serpente dal morso velenoso rappresenta il sadismo orale e, in generale, la vita pulsionale che, ad un certo punto nella vita del bambino, prende vigore. Con essa, le possibili frustrazioni si moltiplicano. Queste testimoniano che la madre arcaica ha una vita propria, e che il soddisfacimento pulsionale dipende dalla sua volontà. Ha, così fine quella “illusione primaria” in virtù della quale il piccolo viveva nella situazione “paradisiaca” di chi sente il mondo come un prolungamento di sé, docile ai suoi comandi. Nella storia di ciascun individuo esistono, quindi, un’antica appartenenza all’Eden, un peccato originale, ed una cacciata dal Paradiso.
        Che cosa fa sì che i ladri perdano per sempre la possibilità di redimersi dal loro personale peccato originale? Il motivo è che essi sono catturati per sempre dai serpenti, ossia dal demone del sadismo orale. Quanto resta in loro del bambino sano ne prova paura; tuttavia non riusciranno mai a liberarsi dal rettile, ossia dalla tendenza ad impossessarsi violentemente del nutrimento e ad attaccarne la fonte. Non essendo capaci di porla sotto il proprio controllo, finiscono per identificarsi con tale istanza distruttiva, diventando tutt’uno con essa.

 

        Ed ecco un serpente avventarsi di colpo contro un dannato che si trova davanti ai Poeti (“da nostra proda”). Lo trafigge alla gola; poi, con la velocità con cui si scrive una “o” o una “i”, il peccatore s’accende, si riduce in cenere e immediatamente (“di butto”) rinasce da essa, riacquistando le sembianze di prima.


pag. 357, vv 97 – 105
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ‘l trafisse
là dove ‘l collo alle spalle s’annoda.

Né o sì tosto mai né i si scrisse,
com’el s’accese ed arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;

e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa,
e ‘n quel medesmo ritornò di butto:

        Dante paragona tale metamorfosi a quella della mitica Fenice, l’uccello che ogni cinquecento anni muore e rinasce dalle sue ceneri. La rappresentazione, tuttavia, è resa quasi viva e reale (e particolarmente calzante come metafora) dall’esempio dell’epilettico che il Poeta aggiunge: questi cade a terra privo di sensi – come preso da un demone incontrollabile o da altro impedimento (“oppilazion”) cui l’uomo non riesce a sottrarsi –; cade e poi si ridesta, disorientato ed angosciato. Dante rimane impressionato dalla potenza della vendetta di Dio contro questi peccatori; essa è tale da scaricare violentemente addosso a loro (“croscia”) simili terribili colpi.


pag. 358, vv 112 – 120
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,

quando si leva, ch’intorno si mira
tutto smarrito della grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira;

tal era il peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!

        Il carattere subitaneo ed irrefrenabile con cui la pulsione a rubare s’impone all’individuo, simile, in questo, ad un accesso epilettico, è particolarmente evidente nella cleptomania. Assistiamo, cioè, ad un ricorrente fallimento, da parte del soggetto, dei suoi sforzi di “resistere agli impulsi a rubare oggetti non necessari per uso personale, o di valore monetario” (DSM-5-TR). Non c’è, quindi, alcun tornaconto materiale: gli impulsi cleptomani sono fini a sé stessi. C’è, inoltre, una parte sana del soggetto che, pur fallendo, cerca di resistere all’impulso a rubare. La ferita narcisistica dell’incapacità di controllarsi e le conseguenze sociali del furto rappresentano la “punizione divina” (da parte della realtà) del cleptomane, anche se questi, cedendo all’impulso a rubare, prova piacere o sollievo. Qui, come suggerisce la metafora dantesca, il “delitto” coincide col “castigo”.
        Queste ed altre caratteristiche sembrerebbero distinguere nettamente il cleptomane dal vero e proprio ladro, per il quale il furto sembrerebbe in armonia col resto della personalità, e comporta un vantaggio materiale. Tuttavia, nel mondo interiore degli esseri umani, difficilmente si riscontrano distinzioni così nette: se nel giudizio diagnostico, non si va al di là di quel che è “oggettivamente rilevabile” (ossia della superficie, com’è nell’ottica del DSM), possono sfuggire molti, importanti aspetti soggettivi; certe rigide definizioni, più di carattere legale che clinico, non ne tengono conto.  Se questi individui entrano in crisi e chiedono aiuto, la sensibilità del terapeuta (come quella del Poeta), in alcuni casi può cogliere le manifestazioni di una parte sana residua del paziente: il bambino spaventato dal “serpente”, ossia dalle sue stesse pulsioni sadico-orali, predatorie e distruttive, che minacciano d’impadronirsi di lui, di limitare la sua libertà interiore e di rovinare la sua vita. La “potenza di Dio” (della realtà) può far entrare in crisi queste persone, infliggendo duri colpi al loro stile di vita, delinquenziale e malato: nessuno è perfetto, neppure il ladro, ed esistono in costui debolezze per cui talora finisce per tradirsi e, se la Giustizia terrena fa il suo mestiere, finisce per pagare il prezzo dei suoi sbagli; ed è una grande fortuna per lui se ciò capita quando ai suoi misfatti si può ancora porre rimedio, e non al momento del “redde rationem” che precede la fine dell’esistenza.

 

        Virgilio chiede chi egli sia al dannato che ha così drammaticamente attirato l’attenzione dei Poeti. Questi risponde d’essere giunto da poco nella bolgia (in “questa gola fera”), e rivela il suo nome: Vanni Fucci. Riferisce d’aver condotto una vita “bestiale” e non umana, conforme alla sua natura di bastardo (“mul”), ossia nato da un’unione illegittima. Fu, appunto, soprannominato “bestia”, e la città di Pistoia fu la sua “degna tana”.


pag. 358, vv 121 – 126
Lo duca il domandò poi chi elli era;
per ch’ei rispuose: “Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fera.

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.”

        Fin dal momento del suo concepimento, al “bastardo” Vanni mancò quel dono, offerto dai genitori, che avrebbe contribuito a mutare un organismo biologico “bestiale” in un essere umano. È presumibile che, come molti figli illegittimi, Vanni Fucci non nacque da un rapporto di vero e proprio amore fra uomo e donna, ma da un’unione “animalesca”; il che incise sulla sua indole. A questo, probabilmente, si aggiunse il mancato riconoscimento da parte del padre. Dispiace dover ammettere che ci sia del vero nella definizione volgare di “bastardo” come essere spregevole, ossia che il destino di un essere umano possa essere segnato già fin dall’inizio della sua vita. E questo anche se sappiamo che la natura umana è sufficientemente duttile da poter correggere tale sorte. Tuttavia, affinché ciò avvenga, è necessario che, da parte dei genitori naturali o adottivi, ci siano grande affetto, empatia, e che il problema non venga ignorato.

 

        Vanni Fucci era noto a Dante come uomo irascibile (“di crucci”) e sanguinario. Tuttavia egli ora si trova nel cerchio dei fraudolenti e nella bolgia dei ladri. Il Poeta, perciò, prega Virgilio d’invitare il dannato a non scappare (“che non mucci”), e di chiedergli quale colpa stia espiando.


pag. 360, vv 127 – 129
E io al duca: “Dilli che non mucci,
e domanda che colpa giù il pinse;
ch’io ‘l vidi uomo di sangue e di crucci.”

        Il dannato, sentendosi scoperto, afferma di soffrire per la vergogna d’essere stato smascherato (“mi duol che tu m’hai colto nella miseria”) più di quanto patì per la sua morte (“quando fui dell’altra vita tolto”). Non può negare di trovarsi fra i ladri per aver rubato gli arredi sacri (i “belli arredi”) dalla cappella di S. Jacopo del Duomo di Pistoia; delitto che fu poi ingiustamente attribuito ad altri (“falsamente apposto altrui”)


pag. 360 – 361, vv 130 – 139
E ‘l peccator, che ‘ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ‘l volto,
e di trista vergogna si dipinse;

poi disse: “Più mi duol che tu m’hai colto
nella miseria dove tu mi vedi,
che quando fui dell’altra vita tolto.

Io non posso negar quel che tu chiedi:
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro alla sagrestia de’ belli arredi,

e falsamente già fu apposto altrui.

        All’atto sacrilego del furto degli arredi sacri si aggiunge il crimine di Vanni d’aver lasciato che un innocente venisse condannato. Eppure la punizione divina non ha prodotto, in questo peccatore, neppure l’ombra di un senso di colpa: solo la grande vergogna d’essere visto nello stato di miseria in cui il fallimento della sua vita l’ha gettato. In ladri di questo tipo le pulsioni predatorie si sono impadronite dell’intera personalità, ed il loro carattere distruttivo va ben al di là della ricerca di un beneficio materiale. Costoro non si rendono conto che il “demonio” che li domina li ha ingannati, illudendoli di potersi sottrarre alle conseguenze dei loro atti; e questo grazie al possesso di risorse (destrezza, astuzia, capacità d’ingannare) che, in realtà, si rivelano tutt’altro che infallibili. L’unica forma di sofferenza che provano è, appunto, la vergogna per tale fallimento.
        In condizioni più propizie della “dannazione eterna” è possibile che la vergogna possa favorire la presa di coscienza dell’auto-inganno, e con essa sia messo in discussione l’intero stile di vita. Ciò è difficile (ma non impossibile) che succeda a ladri simili a Vanni Fucci.


Ammessa la sua colpa, Vanni Fucci si prende la rivalsa sul suo avversario politico:

pag. 361, vv 140 – 142
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio e odi:

        Nei versi che seguono, il dannato predice al Poeta che, dopo varie vicende, i Guelfi Bianchi, cui Dante appartiene, verranno sconfitti a Firenze. La malvagità vendicativa di Vanni s’esprime con la sua frase, con cui si conclude il Canto:


pag. 361, v 151
E detto l’ho perché doler ti debba.

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Canto XXV

        Dante, alla fine del Canto precedente, ha come estorto la confessione dei suoi crimini a Vanni Fucci. Questi ne prova un’immensa vergogna, e reagisce rivelando al Poeta, con maligno compiacimento, la prossima sconfitta della sua parte politica. Tuttavia la sua rabbia non s’è esaurita: ora si volge temerariamente contro Dio. Fa, con entrambe le mani, un gesto osceno e ingiurioso: le “fiche” (il pugno chiuso da cui sporge il pollice tra l’indice e il medio); e grida: ‘Prenditele (“togli”), Dio, che le faccio (“le squadro”) a te!’


pag. 363, vv 1 – 3
Al fine delle sue parole il ladro
le mani alzò, con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”

        De Sanctis osserva acutamente che “Dante non esce mai dalla natura (…) Vanni Fucci può essere una bestia, ma sotto la bestia deve rimanere l’uomo”. La sua sconcia e blasfema espressione, in fondo, non è che l’esasperata manifestazione di dolore di un essere del tutto impotente. Fallita la sua vita di ladro, privo di motivi di fierezza, senza un qualche ideale cui aggrapparsi, gli rimangono solo disperazione e vergogna. Ad esse egli cerca di sottrarsi regredendo alla bestialità, e finisce per ostentare volgarità e disprezzo verso il Creatore, con l’idea assurda di poterne sfidare l’autorità.

 

        Il Poeta, più che sdegnato, è ora compiaciuto di fronte al pronto attuarsi della vendetta di Dio, ad opera delle serpi. Una di queste si avvolge al collo di Vanni Fucci, come per soffocargli la bestemmia nella gola; un’altra si avvinghia (“rilegollo ribadendo sé stessa”) alle braccia, con tale forza che esse non possono più neppure scuotersi (“dare un crollo”), come per impedirgli di ripetere il gesto ingiurioso.


pag. 363, vv 4 – 9
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse “Non vo’ che più diche”;

e un’altra alle braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

        Si è visto, più sopra, che in ladri del tipo di Venni Fucci le pulsioni distruttive si sono impadronite dell’intera personalità. Anche l’istanza superegoica ha assunto un carattere primitivo e feroce: non c’è spazio per sentimenti di colpa o per aspirazioni riparative, e l’auto-punizione sopravviene solo a misfatto già compiuto.

 

        Ora Dante dà sfogo al suo sdegno con un’invettiva contro Pistoia, che già, per bocca dello stesso Vanni Fucci, aveva definito “degna tana” di una “bestia” come lui. Augura alla città di deliberare (“stanzi”) di ridursi in cenere, come il dannato visto nel canto precedente. Questo perché Pistoia supera nel malaffare i suoi fondatori (“in mal far lo seme tuo avanzi”) – si credeva che i progenitori dei Pistoiesi fossero i superstiti dell’esercito facinoroso di Catilina – al punto di dar vita ad un essere che supera in protervia lo stesso Capaneo (“quel che cadde a Tebe giù da’ muri”)


pag. 363 – 365, vv 10 – 15
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che in mal far lo seme tuo avanzi?

Per tutti i cerchi dello ‘nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

        Pistoia, “città madre”, “degna tana” dei ladri è qui vista come responsabile dei loro misfatti non meno dei ladri stessi.

 

        Vanni Fucci fugge come ammutolito per il terrore delle serpi. Ora sopraggiunge un centauro, bramoso di compiere anche lui la vendetta divina sul peccatore sacrilego e feroce (“acerbo”). Quest’essere mostruoso è ricoperto di bisce fino al volto (le “labbia”); esso porta dietro la nuca (la “coppa”) un drago dalle ali aperte che emette fuoco contro chiunque s’imbatta (“s’intoppa”) in lui.


pag. 365, vv 16 – 24
Ei si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”

Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.

Sovra le spalle, dietro dalla coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.

 
        Questi esseri disumanizzati, privi di capacità d’autocritica, pretendono talora d’essere agenti di giustizia, punendo chi ha commesso crimini non dissimili dai loro. Lo fanno in un modo che tradisce la loro natura ferina.

 

        Virgilio spiega a Dante che si tratta di Caco, un ladrone che abitava in una grotta del monte Aventino. Benché sanguinario, non è punito tra i centauri violenti (“suoi fratei”) perché rubò in modo fraudolento i buoi dell’armento di Ercole. Questi punì in modo brutale il ladro (“le sue opere biece”) colpendolo cento volte con la sua clava, con tale violenza che Caco morì ai primi colpi (“non sentì le diece”).


pag. 365 – 366, vv 25 – 33
Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
che sotto il sasso di monte Aventino
di sangue fece spesse volte laco.

Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che fraudolento fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
li ne diè cento, e non sentì le diece.”

        Quando questi dannati hanno subìto una punizione nella loro vita terrena, essa è stata di una violenza non inferiore a quella esercitata da loro stessi.

 

        Mentre Virgilio sta parlando di Caco, tre spiriti si fermano sotto i Poeti e domandano chi essi siano. Dante non li riconosce, ma uno di questi dannati, chiedendo agli altri due dove sia finito un compagno che non c’è con loro, ne menziona il nome: Cianfa (Donati). Il Poeta conosce questo fiorentino (che fu capo della fazione avversaria dei guelfi neri); desideroso d’udire altro, prega Virgilio di rimanere in silenzio ponendosi il dito sulle labbra.
        Ora Dante assiste ad una metamorfosi talmente prodigiosa che quasi non crede ai suoi occhi. Vede un serpente con sei piedi (Cianfa trasformato in rettile) che si lancia contro uno dei dannati (Agnolo Brunelleschi) avvinghiandosi a lui. Coi piedi intermedi lo afferra al ventre, con quelli anteriori ghermisce le braccia, con le fauci gli addenta le guance, con le estremità posteriori (“I diretani”) gli ferma le cosce. Ponendogli la coda tra gli arti inferiori, la fa risalire per la schiena (“le ren”) immobilizzandolo. Dante non vide mai edera (“ellera”) abbarbicata ad un albero come questo serpente al dannato.


pag. 367, vv 49 – 60
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi all’uno, e tutto a lui s’appiglia.

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,
e con li anterior le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;

li diretani alle cosce distese,
e miseli la coda tra ‘mbedue,
e dietro per le ren su la ritese.

Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.

        Assistiamo, in questa prima fase della metamorfosi, ad un abbraccio spaventoso del serpente e dell’uomo; un abbraccio perverso, che sa solo trasmettere sentimenti di malvagità, di paura, e disumanizzare la vittima.

 

        Successivamente le due figure si sciolgono, come se fossero di calda cera. Al contatto, esse gradualmente si compenetrano, si confondono, ed assumono un colore indefinito, simile a quello, nella carta (“papiro”) che sta prendendo fuoco, non più bianco come nella parte intatta, e non ancora nero, come in quella già bruciata. Gli altri due spiriti assistono alla scena con stupore e raccapriccio. Rivolgendosi ad Agnolo, gli dicono che, non ancora uomo e al tempo stesso serpente (“né due”), non è più uno dei due distinto dall’altro (“né uno”).


pag. 372, vv 61 – 69
Poi s’appiccar come di calda cera
fossero stati e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era,

come procede innanzi dall’ardore
per lo papiro suso un color bruno
che non è nero ancora e ‘l bianco more.

Li altri due ‘l riguardavano, e ciascuno
gridava: “Ohmè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno.”

        Infine compare una figura nuova e mostruosa, risultante dalla fusione dei due esseri primitivi. Le due teste sono divenute una testa sola, nella quale i lineamenti dell’uno e dell’altro sono confusi e indistinguibili (“perduti”). Le due braccia umane e le due estremità anteriori del serpente (le “quattro liste”) sono divenute due arti indefinibili. Le cosce, le gambe, il ventre e il petto (“’l casso”) hanno acquistato un aspetto mai visto. Ogni aspetto esteriore che apparteneva all’uno o all’altro (“primaio aspetto”) è sparito (“casso”); ed ora, tale figura perversa s’allontana (“sen gìo”) con lento passo.


pag. 372, vv 70 – 78
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ‘l ventre e ‘l casso
divenner membra che non fuor mai viste.

Ogni primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gìo con lento passo.

        Un abbraccio affettuoso comporta un contatto, e non una compenetrazione, fra i confini di due corpi. Anche i confini tra le due anime non vengono violati: l’abbraccio amorevole propone (e non impone) un affetto positivo che lascia, chi ne è l’oggetto, libero di scegliere in cuor suo se accoglierlo o respingerlo. Qui, viceversa, assistiamo ad un abbraccio violento paragonabile ad uno stupro: i confini del corpo e dell’anima della vittima vengono brutalmente oltrepassati.
        La natura dei due esseri avvinghiati l’uno all’altro si corrompe: l’essere umano diviene in parte animalesco e l’opposto accade a quanto di bestiale c’è in ogni uomo. Fuor di metafora: le attitudini umane (la razionalità, l’esame di realtà) perdono la loro autonomia e si pongono al servizio di una natura ferina e predatoria. Quest’ultima, nel contempo, perde il carattere di ottusa bestialità ed acquista le false sembianze umane del fraudolento. Vittima e carnefice diventano una cosa sola: un’unica figura perversa ed ingannevole.
        C’è da supporre – e spesso l’ipotesi viene confermata dai dati anamnestici e dalla traslazione terapeutica – che il rapinatore fraudolento non abbia mai conosciuto, nella sua vita, abbracci affettuosi, valorizzanti ed empaticamente rispettosi del possesso altrui, innanzi tutto quello del corpo e quello della mente; che abbia incontrato solo modi di avvinghiarsi violenti e predatori: forme perverse d’accostarsi agli altri che, grazie all’identificazione con l’aggressore, sono diventate anche le forme dei suoi “abbracci”.

 

        Ed ecco che Dante assiste ad un’altra scena sconvolgente: come un ramarro che, sotto la sferza (“fersa”) della canicola estiva, attraversa la strada con la rapidità di un fulmine, sopraggiunge un serpentello infuriato (“acceso”), nero come un grano di pepe. Esso punta al ventre (“l’epe”) degli altri due dannati, spicca un salto, trafigge all’ombelico (“quella parte onde prima è preso nostro alimento”) uno dei due spiriti (Buoso Donati) e poi cade davanti a lui. Buoso, come paralizzato ed ammutolito, è preso da smarrimento e da torpore, come se stesse per perdere, con la coscienza, la sua natura umana: sbadiglia, come chi è preso dal sonno o dalla febbre. Il serpentello (Francesco dei Cavalcanti trasformato in rettile) e Buoso Donati si guardano fissamente, come se l’uno ipnotizzasse l’altro. Poi, dalla piaga dell’uno e dalla bocca dell’altro, esce un fumo, e le due esalazioni s’incontrano e si fondono. Si tratta di un fluido che provocherà la metamorfosi di entrambi.


pag. 372 – 373, vv 79 – 93
Come il ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,

sì pareva, venendo verso l’epe
delli altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;

e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, all’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.

Lo trafitto ‘l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.

Elli ‘l serpente, e quei lui riguardava;
l’un per la piaga, e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ‘l fummo si scontrava.

        Sono versi che suscitano un’intensa risonanza emotiva, come la scena di un sogno (o, meglio, di un incubo) che condensa diversi significati. Risalta, sopra gli altri aspetti, “quella parte onde prima è preso nostro alimento” trafitta dal morso del serpente. Un lettore di formazione medica, come il sottoscritto, è sorpreso dalla precisione con cui viene descritto un fatto che solo l’indagine scientifica degli ultimi decenni ha chiarito. Attraverso il funicolo ombelicale (qui rappresentato simbolicamente, nella sua forma perversa, dal serpente), la porzione materna della placenta trasmette quei fattori epigenetici che plasmano la natura del feto (agendo sul suo patrimonio genetico, ossia “silenziando” alcuni geni ed attivandone altri). Anche riguardo al substrato biologico della mente e dell’intero organismo, la natura di questi dannati è corrotta fin dalla vita intrauterina.
        Dal punto di vista dell’esperienza vissuta (o “non vissuta” perché non registrata come tale, e di cui rimangono solo tracce del trauma prive di significato intellegibile), Dante adombra una situazione in cui la pace intrauterina è sconvolta sul nascere. Qui una felice e sana simbiosi, che gradualmente dà forma ad un essere umano, è sostituita da una fusione infame che produce un essere che è sia uomo, sia bestia, e nessuno dei due in particolare. Il ventre materno non offre sani alimenti, ma un veleno che produce un mostro. Quello che, per i più comuni mortali è il “paradiso perduto”, per costoro non è mai esistito.
        Dante crede nel libero arbitrio, tuttavia in più riprese illustra le caratteristiche di quel terreno da cui nacquero questi rapinatori, e che fin dall’inizio condizionò pesantemente la loro condotta. Anche oggi siamo convinti che, in ultima analisi, ognuno è responsabile delle sue scelte (salvo quei rari casi di completa incapacità d’intendere e volere); tuttavia, anche con l’aiuto del Poeta, siamo consapevoli di quei condizionamenti che, già all’origine della loro esistenza, resero particolarmente faticoso, a questi dannati, il seguire la “retta via”: i disgraziati rapporti con la “degna tana” della bestia, con la città-madre, col ventre materno, con la madre.
        Un altro significato della scena qui illustrata è il rapporto fra i ladri. Tra di loro non c’è un’autentica solidarietà umana. Possono divenire complici quando si tratta di collaborare per i loro misfatti, ma si dimostrano incapaci di offrirsi reciprocamente aiuto e rispetto. “Derubati” fin dall’inizio dell’affetto e della comprensione empatica di cui l’essere umano ha bisogno, non sopportano che qualcun altro possa godere di tale fortuna: l’invidia e l’identificazione con l’aggressore li spingono a derubare gli altri, non solo delle loro proprietà materiali, ma anche, quando è possibile, del possesso del loro corpo e della loro anima. Devono diventare come loro, condannati a strisciare sul terreno come serpi simili a loro.

 

        La parte seguente della scena è introdotta da un’espressione d’orgoglio del Poeta. Dante, conscio della potenza e dell’originalità dei suoi versi, invita al silenzio Lucano ed Ovidio, gli Autori antichi che trattarono in termini poetici analoghe metamorfosi (il primo descrivendo la fine di Sabello e Nassidio, due soldati di Catone; il secondo la metamorfosi di Cadmo in serpente e di Aretusa in fontana). Tacciano ed ascoltino quel che segue, che colpisce (“si scocca”) come una freccia. Nessuno dei due illustrò, con altrettanta efficacia, due nature che, l’una di fronte all’altra, si barattano le rispettive forme.


pag. 373, vv 94 – 102
Taccia Lucano omai là dove tocca
del misero Sabello e di Nassidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio;
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ‘nvidio;

ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.

        Ipocrisia e falsa modestia sono del tutto assenti in Dante. Tuttavia è anche significativo che egli esprima il suo orgoglio di grande Poeta di fronte a queste scene terrificanti, in cui egli assiste alle manifestazioni degli aspetti peggiori dell’animo umano. Come accade nell’incubo, appare una scena spaventosa in cui è come paralizzata la capacità di attribuirvi, in modo costruttivo, un significato, come invece avviene nei sogni migliori. Come nell’incubo, il soggetto s’aggrappa alla parte di lui che ne rimane estranea: a lui come spettatore. Tanto più lo fa se non si tratta di uno spettatore passivo qualsiasi, ma di un Poeta capace d’infondere bellezza, nel modo in cui le rielabora, alle più turpi mostruosità umane. Qui l’orgoglio dell’Artista preserva Dante dalla ferita narcisistica d’appartenere alla stessa specie degli obbrobri che compaiono ai suoi occhi.

 

        Ed ecco il fenomeno prodigioso: il serpente divide (“fesse”) la coda in due parti, facendole assumere la forma delle gambe e delle estremità; l’uomo restringe piedi ed arti inferiori, in modo che diventino coda. La pelle del serpente diviene molle, e quella dell’uomo dura e squamosa. Le braccia dell’uomo si accorciano, ritirandosi nelle ascelle; i piedi del serpente s’allungano. I piedi posteriori della belva si attorcigliano, trasformandosi in membro virile (“lo membro che l’uom cela”), mentre quello dell’altro si divide in due, mutandosi in piedi che fuori sporgono (“porti”). Poi, il fumo vela entrambi con un colore nuovo, e fa crescere peli e capelli nel serpente, mentre li fa sparire (“li dipela”) nell’altro. L’uno, divenuto uomo, si leva in piedi, l’altro cade a terra; e continuano a fissarsi reciprocamente con sguardo atroce (“lucerne empie”). Quello dei due che si è alzato ritira il muso di serpe verso le tempie e, come utilizzandone la materia introdotta nel cranio (“di troppa materia ch’in là venne”) fa uscire dalle gote che ne erano prive (“scempie”) due orecchie; quel che è rimasto nella faccia va a formare il naso e le labbra. L’altro, divenuto serpente, allunga il muso e ritrae le orecchie, come fa la lumaca (la “lumaccia”) con le sue antenne. Nell’uno, la lingua si scinde in due parti, e quella biforcuta dell’altro si richiude. Terminata la duplice metamorfosi, il fumo scompare (“resta”)


pag. 374 – 377, vv 102 – 135
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ‘l serpente la coda in forca fesse,
e il feruto ristrinse insieme l’orme.

Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ‘n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.

Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.

Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè della fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.

Poscia li piè di retro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ‘l misero del suo n’avea due porti.

Mentre che ‘l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera il pel suso
per l’una parte e dall’altra il dipela,

l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.

Quel ch’era dritto, il trasse ver le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi delle gote scempie:

ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fe’ naso alla faccia,
e le labbra ingrossò quanto convenne.

Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;

e la lingua, ch’avea unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
nell’altro si richiude; e ‘l fummo resta.

        Chi ha familiarità con le interpretazioni psicoanalitiche riconosce, in questa scena, l’incrocio fra una identificazione proiettiva ed una introiettiva. In virtù di queste, uno dei personaggi s’impadronisce, derubandolo, dell’aspetto umano dell’altro e, nel contempo gl’impone la sua natura bestiale. Tuttavia, parlarne in questi termini porterebbe la descrizione ad un livello eccessivo d’astrazione, privando la scena della concretezza (quasi un’estesia sensoriale) con cui il Poeta ce la rende. Sappiamo, d’altronde, che l’identificazione proiettiva non è un fenomeno puramente intrapsichico e immaginario, ma consiste in un’attiva manipolazione tramite cui il soggetto introduce nella realtà interiore dell’altro qualcosa di sé di cui vuole disfarsi. Sappiamo, inoltre, che una scena da incubo, quale quella che qui viene illustrata, ha un carattere crudo e terrificante, e non offre possibilità d’elaborazione e riflessione astratta. Ancora una volta constatiamo che l’utilità dei suggerimenti del Poeta non risiede tanto nei contenuti che ci comunica, che già conosciamo, quanto piuttosto nel modo con cui ce li trasmette, rendendoli più facilmente pensabili, comunicabili e più pienamente aderenti alla realtà, anche nelle sfumature.

 

        Buoso Donati, che ha assunto le sembianze di un serpente, s’allontana sibilando (“suffolando”), mentre Francesco dei Cavalcanti, che ha ripreso il suo aspetto umano, sputa con disprezzo dietro al compagno, ed esprime la soddisfazione d’essersi liberato, a spese dell’altro, della natura di un serpente che striscia carponi.


pag.377, vv 136 – 141
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.

Poscia li volse le novelle spalle,
e disse all’altro: “I’ vo’ che Buoso corra
com’ ho fatt’io, carpon per questa calle.”

        Tramite la “magia” malefica dell’identificazione proiettiva, il misfatto è compiuto. Il malfattore esprime una sua soddisfazione che durerà… fino alla prossima volta, quando le parti s’invertiranno.

 

        Nonostante la sua vista fosse resa confusa dalla scena frenetica e concitata, ed il suo animo smarrito (“smagato”), i dannati in continuo movimento non sono, per Dante, tanto inosservati (“chiusi”) da impedirgli di scorgere Puccio Sciancato, l’unico dei tre compagni comparsi prima che non fosse andato incontro a metamorfosi. L’altro era il Cavalcanti, ucciso in Gaville, luogo pieno di dolore per la successiva vendetta dei parenti sugli abitanti. Così si conclude il XXV canto.


pag.377, vv 145 – 151
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto, e l’animo smagato,
non poter quei fuggiaschi tanto chiusi,

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, de’ tre compagni
che venner prima, non era mutato:

l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

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Canto XXVI

        Tra i “ladroni” della settima bolgia, Dante ha incontrato gli appartenenti a ben cinque nobili casate fiorentine (“cotali tuoi cittadini”). Ciò disonora Firenze e suscita vergogna nel Poeta che, benché esule, è ancora legato alla sua città madre. Grande al punto da essere conosciuta per mare e per terra, la “”fama” di Firenze si sta diffondendo persino nell’Inferno. Se, come si ritiene, i sogni più vicini al risveglio del mattino sono veritieri, entro breve (“di qua da picciol tempo”) la città sperimenterà (“sentirai”) il male che le augurano (“t’agogna”) gli abitanti di Prato ed altre popolazioni. Poiché tale punizione è ormai inevitabile (“pur esser dee”), se già si adempisse non sarebbe abbastanza sollecita, dato che più passa il tempo, più l’attesa (o l’angoscia del suo verificarsi) sarebbe gravosa per il Poeta.


pag. 379, vv 1 – 12
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per nare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne Sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai di qua da picciol tempo
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non sarìa per tempo:
così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com più m’attempo!

          Nei primi due versi, Dante sembra esprimere una sincera esaltazione della grandezza di Firenze, ma subito erompe l’amara ironia: la città, data la presenza nell’inferno di numerosi e ragguardevoli suoi abitanti, sta diventando famosa anche nel luogo dell’eterna dannazione. Il verso 12 è stato diversamente interpretato dai commentatori: per alcuni, quel che “più graverà” il Poeta è la lunga attesa della punizione di Firenze, per altri l’angoscia di fronte alle sventure della città madre nel momento in cui queste si verificheranno. È possibile che qui l’ambiguità della parola esprima quella dei sentimenti: tutta questa invettiva è come il grido dell’odio, di chi è stato espulso; odio tanto più intenso quanto lo è l’amore deluso e, ciò nonostante, persistente.
        Non può esser casuale quest’invettiva all’inizio del “Canto di Ulisse”: sia questo personaggio, sia Dante sono esuli, e nel mitico eroe il Poeta vede, per analogia o per contrasto, sé stesso. Come vedremo, il rapporto ambivalente con la madre patria (la madre), nell’interpretazione del sottoscritto ha un ruolo centrale in questo Canto.

 

        Dante e Virgilio ora risalgono l’argine da cui erano discesi. Proseguono, poi, per il ponte che sovrasta l’ottava bolgia, dove vengono puniti i consiglieri fraudolenti. Si tratta di peccatori che fecero un cattivo uso del loro ingegno, volgendolo a malvagi scopi di frode. Come temendone il “contagio”, il Poeta ammonisce sé stesso a frenare più del solito il suo ingegno, per non correre il rischio d’usarlo senza la guida della virtù. Se un benevolo influsso delle stelle (“stella bona”) o della Grazia Divina (“miglior cosa”) gli ha fatto dono dell’ingegno (“‘l ben”), non succeda che per sua propria colpa, egli finisca per privarsene e renderlo vano, abusandone (“io stesso nol m’invidi”).


pag. 380, vv 19 – 24
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi.

        Dante riconosce che esiste in lui la tentazione d’usare il proprio ingegno a scopi fraudolenti, ossia per imporre il suo potere sulla realtà concreta con ingegnoso inganno ed ottenere vantaggi a discapito degli interessi altrui. – Come osserva il D’Ovidio (cit.), Dante, nell’esilio, era divenuto “un uomo di corte, un negoziatore politico; e il consigliar frodi e ordire inganni sarebbe potuto divenire per lui un peccato professionale, un vizio del mestiere” – Tuttavia, a differenza dei dannati puniti in questa bolgia, il suo mondo interno avverte l’influsso benefico della “buona stella” (l’invisibile ed apparentemente lontana “madre ambiente”) e della “miglior cosa” (la grazia divina, risultante da un rapporto più personalizzato con un oggetto d’amore ideale).
        Si tratta del provvidenziale influsso su Dante di un oggetto interno protettivo, risultato dell’interiorizzazione di esperienze affettive antiche; oggetto che indirizza le sue risorse intellettive verso scopi diversi dai vantaggi concreti (la sua produzione poetica, le sue mete spirituali); scopi che sono raggiungibili senza incorrere nella punizione divina (la realtà che finirebbe per rivolgerglisi contro): fini, quindi, spirituali e, al tempo stesso, realistici.

 

        Dante vede nel fondo della bolgia splendere innumerevoli fiammelle, numerose quanto le lucciole che il contadino scorge dalla collina nelle notti d’estate. Ciascuna di quelle fiamme nasconde un peccatore, come il carro di fuoco nascose ad Eliseo l’immagine del profeta Elia portato in cielo.
        Il Poeta è così proteso fuori dal ponte ad osservare la scena della bolgia che, se non avesse afferrato una sporgenza rocciosa (“un ronchion”), sarebbe precipitato. Virgilio, che lo vede così preso (“tanto atteso”) dallo spettacolo dei dannati, gli spiega che ciascuno di questi spiriti è come fasciato dal fuoco. Dante gli risponde che tale precisazione conferma quel che già aveva pensato (“m’era avviso”), e aggiunge che vorrebbe sapere chi c’è dentro un fuoco che, nella sua sommità, è diviso in due, come quello che emanò dalla pira dove furono cremati i corpi dei fratelli Eteocle e Polinice. Virgilio lo informa che dentro quella fiamma biforcuta espiano le loro colpe Ulisse e Diomede. Essi sono uniti nella punizione divina così come in vita incorsero insieme nell’ira di Dio, essendo stati entrambi autori dell’inganno del cavallo di legno tramite cui fu espugnata Troia, di quello per cui Achille fu strappato all’amore di Deidamia, e del furto del Palladio, l’effigie della Dea su cui i Troiani riponevano la speranza di salvezza.


pag. 382 – 383, vv 43 – 63
Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.

E ‘l duca che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
ciascun si fascia di quel ch’elli è inceso.”

“Maestro mio,” rispuos’io “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è in quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger dalla pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?”

Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
alla vendetta vanno come all’ira;

e dentro dalla lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fe’ la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamia ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta.”

        A differenza di Eteocle e Polinice, Ulisse e Diomede non sono divisi dall’odio reciproco, ma dalla diversità del loro carattere e della loro vita. Tuttavia l’odio (l’assenza totale di riguardo) nei confronti delle vittime dell’inganno, è implicito nel peccato di fraudolenza che li accomuna. C’è qui una contraddizione insanabile nella vita interiore di coloro che ingannano: costoro, per comprendere i punti deboli delle loro vittime su cui agire, devono mettersi empaticamente nei loro panni. Se, da un lato, l’odio sopprime ogni forma di solidarietà umana, d’altro lato essi non possono fare a meno di riconoscere sé stessi in quegli aspetti umani su cui stanno facendo violenza, e con cui si sono empaticamente identificati. Ecco perché, a differenza di altri dannati (che soffrono unicamente per la punizione divina), nei consiglieri fraudolenti si nota una sorta di rimorso: dentro le fiamme “si geme”, forse più ancora che per l’azione devastante del fuoco, per le terribili conseguenze dei loro atti, ossia per la rovina dei Troiani e per lo strazio di Deidamia, cui con l’inganno fu strappato Achille. Poco vale che essi, involontariamente, provocarono anche qualcosa di positivo: dalla breccia (“la porta”) che fu necessario aprire nelle mura di Troia per introdurre il cavallo, uscì “de’ Romani il gentil seme”, cioè Enea che, fuggito in Italia, generò la stirpe dei Romani.

 

        Dante esprime al suo Maestro l’intenso desiderio di parlare con quei due antichi eroi. Lo fa rivolgendo a Virgilio una fervida preghiera, molto sentita ed insistente, affinché gliene dia il consenso.


pag. 383 – 388, vv 64 – 69
“S’ei posson dentro da quelle favelle
parlar” diss’io “maestro, assai ten priego
e ripriego, che il priego vaglia mille,

che non mi facci dell’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del disio ver lei mi piego!”

        Oltre che la curiosità dell’uomo di cultura, qualcosa di più personale spinge Dante a chiedere, con tanta insistenza e fervore, di poter parlare con i due eroi. Per poter tenere a bada il consigliere fraudolento che c’è in lui non basta tenere a freno il suo ingegno, e neppure è sufficiente la sua fede: gli occorre anche conoscere a fondo l’indole e le vicende di chi, di tale peccato, si macchiò. Sapere qual è la potenzialità presente in lui stesso è decisivo per poterla porre sotto il suo controllo.

 

        Virgilio, pur ritenendo degna di lode la richiesta del suo allievo, lo prega di tenere a freno (“si sostegna”) la sua lingua. Sarà lui, che ha capito (“concetto) quel che il suo allievo vuole, a parlare ad Ulissa e Diomede. Essendo greci, infatti, essi non si degnerebbero di comunicare con uno straniero, per loro “barbaro”. Il Maestro di Dante si rivolge ai due spiriti pregandoli, in nome dei versi a loro dedicati nell’Eneide, di non muoversi. Invita uno di loro (Ulisse) a raccontare come e dove avvennero il suo naufragio e la sua morte (“dove per lui perduto a morir gissi”)


pag. 388 – 389, vv 70 – 84
Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perché fuor greci, forse del tuo detto.”

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:

“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi.”

        La punta maggiore della fiamma (“lo maggior corno”) dentro cui si trova Ulisse incomincia ora ad agitarsi (“crollarsi”) emettendo un suono confuso (“mormorando”), come scossa dal vento. Poi, dimenando la cima come la lingua di chi parla, incomincia il suo racconto.
        Quando s’allontanò da Circe, presso cui s’era trattenuto per più di un anno – in una località vicina alla città che in seguito Enea avrebbe chiamato Gaeta –, né l’affetto per il figlio, né la pietà verso il vecchio padre, né l’amore che avrebbe reso felice Penelope, poterono vincere in Ulisse l’ardente desiderio di conoscere il mondo e i vizi e le virtù degli uomini. Perciò s’avventurò “per l’alto mare aperto” con una sola nave (“legno”) e con quel ridotto numero di compagni che non l’avevano abbandonato (“diserto”).


pag. 389 – 391, vv 85 – 102
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: “Quando

mi dipartì da Circe, che sottrasse
me più di un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,

vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual non fui diserto.

        Manca, nelle peripezie dell’Ulisse dantesco, l’episodio di Calipso e della permanenza nell’isola di Ogigia. Questa Dea, come vedremo, ebbe un ruolo importante nelle vicende dell’Odisseo omerico. Quanto ai versi 94 – 99 (“né dolcezza di figlio, né la pièta…”) apro qui una parentesi.
        In un sorprendente capitolo di “Se questo è un uomo”, vale a dire “Il canto di Ulisse”, Primo Levi, pur nella situazione tormentosa e abbrutente del campo di concentramento, trova in sé lo spirito di comunicare al compagno di prigionia Pikolo la bellezza della lingua italiana recitandogli a memoria i versi del XXVI canto dello “Inferno”. Il canto di Ulisse stava particolarmente a cuore a Levi: nel personaggio dantesco, egli vedeva riflessi molti aspetti della sua vita interiore. L’antico eroe, nella versione di Dante, nutrì l’ambizione di porre sotto il dominio della sua conoscenza tutti gli esseri umani e l’intero mondo. Cercò di realizzarla attraverso un viaggio che (a differenza di quello nell’oltretomba del Poeta) fece senza il sostegno della “grazia divina”, contando sulle sue sole risorse umane. Il viaggio di Primo Levi nella sua vita interiore fu ugualmente temerario: lo fece privo del sostegno di strutture autoprotettive autonome (che si erano logorate a seguito della sua grave esperienza traumatica), e rifiutando l’aiuto e la protezione di un suo simile.
        Cercando di recitare a memoria i versi citati più sopra al compagno di prigionia, Levi s’accorse con disappunto di non riuscire a ricordare tutte le parole. Qui sotto in corsivo e tra parentesi le parole dimenticate:

[né dolcezza di figlio,] né la pièta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,

[vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore;]

L’opera della “censura” interna non pare, qui, casuale. Levi, infatti, dimentica il passaggio che descrive una caratteristica pericolosa, comune alla personalità dell’Ulisse dantesco e di lui stesso: lo “ardore a divenire esperto” del mondo umano (nel suo caso, del proprio mondo interno devastato dall’esperienza traumatica); ardore che non si ferma neppure di fronte all’amore ed alla pietà per i familiari, né, potremmo aggiungere, alla pietà per sé stesso, identificato col figlio. L’espressione diretta dei propri vissuti traumatici, l’uso compulsivo delle capacità introspettive ed espressive e la solitudine del viaggio nella sua vita interiore, senza protezione altrui, né riguardo per sé stesso, spinsero Levi in un percorso che lo portò, come Ulisse, nel “vortice” dell’auto-soppressione. La censura, qui, sembra avere lo scopo di preservare, dalle proprie capacità critiche, la tendenza autodistruttiva che lo portò al suicidio.

 

        Ulisse prosegue raccontando il suo viaggio lungo la costa europea fino alla Spagna, e lungo quella africana fino al Marocco. Quando lui ed i compagni erano ormai vecchi e deboli (“tardi”), lasciate alle sue spalle Siviglia (“Sibilia”) e Ceuta (“Setta”), giunse alle colonne d’Ercole, dove l’eroe antico aveva posto i confini (“riguardi”) che l’uomo non avrebbe mai dovuto oltrepassare. A questo punto, Ulisse arringò i suoi compagni per esortarli a seguirlo. Non volessero, costoro, in quel che restava della loro vita (“vigilia” della morte, o “veglia de’ sensi”), privarsi dell’esperienza di quella parte del mondo che non ha abitanti (“gente”). Considerando la propria origine umana (“la vostra semenza”), ricordino di non essere stati fatti per vivere come bestie (“bruti”), ma per perseguire virtù e conoscenza.


pag. 391 – 392, vv 103 – 120
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercole segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.

‘O frati’ dissi ‘che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

de’ nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza.

        Ulisse invita i compagni e sé stesso a compiere una trasgressione: superare le colonne d’Ercole. Ritenute, ai suoi tempi, il limite fisico oltre il quale gli uomini non dovevano andare, per il Poeta rappresenta ben altro confine. Come chiarirà il resto della storia, le colonne rappresentano le porte di un mondo proibito e mortalmente pericoloso.   
        Che tipo di “virtù” è quella che Ulisse invita a perseguire, dal momento che la sua impresa temeraria porterà tutti all’autodistruzione ed alla morte? Opinione del sottoscritto è che qui il personaggio dantesco stia illustrando, più che un’impresa “eroica”, la sua ultima “frode”; un raggiro, in questo caso, ai danni dei compagni e di sé stesso: la “virtute”, che egli presenta come ideale supremo, non è altro che l’inganno che maschera intenti, in ultima analisi, di carattere omicida e suicida. Come Macbeth, come Ahab, anche l’Ulisse dantesco anela a superare i limiti imposti ai più comuni esseri mortali, convincendosi di potersi sottrarre alla “Giustizia divina” cui sottostanno tutti gli altri, ossia alla realtà che finisce per rivolgersi contro loro stessi.
        Un dettaglio particolare denuncia l’auto-inganno di Ulisse: aveva parlato del suo ardore di conoscere “li vizi umani ed il valore”. Eppure, contraddicendosi, qualcosa lo spinge verso un mondo “senza gente” dove, provando per un solo attimo l’ebbrezza d’essere divenuto l’unico padrone del mondo, incontrerà soltanto la solitudine e la fine della sua vita.

 

        I compagni, incoraggiati dalle parole di Ulisse (“orazion picciola”), divennero così smaniosi (“aguti”) di proseguire il viaggio, che a stento li si sarebbe potuti trattenere. Volta la poppa della nave ad oriente (“nel mattino”), continuarono il folle viaggio (“il folle volo”) avanzando (“acquistando”) a sinistra.


pag. 392, vv 121 – 126
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

        Come tutte le frodi che caratterizzarono la sua vita, anche l’ultimo raggiro di Ulisse ebbe successo: i compagni, esaltati dalle sue ingannevoli parole, divennero così emotivamente partecipi della sua folle impresa da superare la sua stessa smania di raggiungere la meta. Soltanto le parole “folle volo” testimoniano la sopravvivenza, in Ulisse, della parte di lui dotata di razionalità e realismo: una parte di lui che assiste, impotente, al suo suicidio. Prevale la spinta verso il “lato mancino” che, come già sottolineato in precedenza, rappresenta, nel mondo interno, l’opposto della razionalità e del realismo disincantato: una parte emotiva, abbagliata dal sogno di una meta grandiosa.

 

        Già si vedevano le stelle del polo antartico, opposto al nostro (“altro”), e quelle del polo artico si erano abbassate al di sotto del livello del mare (“marin suolo”). Erano passati cinque mesi (cinque volte era comparsa la luna piena e poi quella nuova: “lo lume casso”) da quando avevano oltrepassato le colonne d’Ercole (“‘ntrati nell’alto passo”), quando apparve una montagna oscura (“bruna”) per la sua lontananza. Ulisse ed i compagni se ne rallegrarono, ma presto la gioia si mutò (“tornò”) in dolore: dalla terra ignota (“nova”) si scatenò un turbine vorticoso (“turbo”) che percosse la prora della nave (“il primo canto”). Producendo un vortice intorno all’imbarcazione (“il fe’ girar con tutte l’acque”), la fece girare per tre volte; alla quarta, come piacque ad “altrui”, la poppa si sollevò, e la prora s’immerse, finché le acque si rinchiusero al di sopra di loro.


pag. 392 – 393, vv 127 – 142
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto dalla luna,
poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,

quando n’apparve una montagna bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché della nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque:
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.

        Nella letteratura recente si segnala che la comparsa frequente, nelle associazioni libere o in quelle ai test proiettivi, di parole come “vortice”, “mulinello”, “gorgo”, rappresenta un segno prognostico allarmante: testimonia l’esistenza, nel paziente, di tendenze suicide; propositi auto-soppressivi che sono tanto più insidiosi quanto più vengono dissimulati. Ciò è coerente con le più comuni fantasie riscontrate nei candidati al suicidio: la morte viene immaginata come il ritorno alla quiete ed alla beatitudine anteriori alla nascita; il paziente desidera riportare la propria esistenza fra le “acque” del ventre materno. Il vortice rappresenta una forza che s’impone sulla volontà del paziente: è la pulsione di morte che assume la forma più insidiosa, travestendosi da anelito al recupero della pienezza della vita e della “onnipotenza” originaria.
        In uno spazio curvo, non esiste una linea retta che si protenda verso l’infinito: ogni percorso, se seguito fino in fondo, riporta inevitabilmente al punto di partenza. Le persone che, come l’Ulisse dantesco, anelano al grandioso illimitato, all’eterno, s’ingannano: senza rendersene conto (senza che intervenga la coscienza, con le sue capacità critiche) e convincendosi di addentrarsi verso l’ignoto, l’inesplorato, tendono in realtà al ritorno verso ciò che accomuna tutti gli esseri umani: l’esistenza immediatamente successiva al concepimento ed anteriore alla nascita.
        Si è notato, più sopra, che nell’Ulisse dantesco manca un episodio che fu particolarmente importante per l’Odisseo omerico: la sua esperienza con Calipso, nell’isola di Ogigia. La Dea innamorata dell’eroe, gli offrì, purché rimanesse con lei, prerogative divine, compresa l’immortalità. Eppure Odisseo era triste: pensava con nostalgia alla sua Itaca, ossia al figlio ed alla donna che aveva lasciato nella sua patria; rimpiangeva la condizione di un comune mortale adulto, padre e coniuge. Calipso, comprendendo lo stato d’animo dell’uomo che amava, decide di soddisfarne le esigenze: rinunciando al possesso dell’eroe, gli dona la zattera con cui avrebbe potuto compiere il viaggio, e la costellazione dell’Orsa che lo avrebbe orientato. Calipso è una madre affettuosa ed equilibrata che, pur desiderando la presenza del figlio, ne comprende empaticamente la necessità di crescere, ed asseconda e favorisce la sua emancipazione. È il prodotto dell’interiorizzazione di queste cure materne che rappresenta quel che i credenti chiamano la “grazia divina”; sia le cure, sia quanto di esse viene interiorizzato rappresentano, a loro avviso, la manifestazione di Dio sulla terra.
        Tutto questo mancò all’Ulisse dantesco ed agli esseri sciagurati simili a lui: esuli, espulsi dalla madre patria, privi di una madre interiorizzata che li avrebbe accompagnati nel loro viaggio verso la vita adulta, lontani dalla genitrice come persona fisica, a loro rimane solo la disperazione di chi si è perduto nel mondo, e l’anelito ad un estremo ritorno. Un ritorno, in realtà, mortifero perché, appena intravisto il recupero della beatitudine intrauterina e dell’illusione di dominare il mondo, sopravviene un “altrui” (una forza misteriosa, estranea, ostile, un “non-Io) che pone brutalmente fine all’agognata felicità: si ripropone il trauma della nascita, prototipo di ogni successiva esperienza traumatica in cui la stessa esistenza soggettiva pare spazzata via. Significativo è che Dante, in questo caso, non menzioni la punizione di Dio, ma la volontà di un “altrui” sconosciuto. Il livello di regressione di queste persone, al momento del suicidio, è tale che manca l’immagine di un Padre eterno (di un padre) che proibendo l’incesto (simbolicamente, il ritorno nel ventre materno, o l’identificazione con la madre gravida) esercita una funzione molto più protettiva che punitiva. Viceversa, tale padre e tale madre amorevoli interiorizzati (la “Grazia divina”) non mancarono a Dante, ed il suo viaggio fu possibile.


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Canto XXVII

        Ulisse ha terminato la sua narrazione, e la fiamma che avvolge lui e Diomede si è appena allontanata; ed ecco che un’altra fiamma attira l’attenzione di Dante per una sorta di muggito che esce dalla sua punta. Esso gli ricorda il terribile rumore che usciva dal toro di rame, (‘l Bue cicilian) donato dall’artefice Perillo (“colui che l’avea temperato con sua lima”) al tiranno siciliano Falaride. Quest’ultimo aveva inaugurato tale strumento di tortura e di morte, arroventato al suo interno, costringendo ad entrarvi lo stesso Perillo, e ciò fu giusto (“dritto”). Dapprima (“dal principio”), le misere (“grame”) parole del dannato avvolto dalla fiamma, suonavano come confuso rumore, simile al “linguaggio” del fuoco agitato dal vento.


pag. 395 – 396, vv 1 – 15
Già era dritta in su la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gìa
con la licenza del dolce poeta,

quand’’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi alla sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscìa.

Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce dell’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el parea dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertìan le parole grame.

        Le vicende di Falaride e Perillo anticipano già, in qualche modo, quelle di Bonifacio VIII e Guido da Montefeltro. Come quest’ultimo, l’antico artefice aveva posto il suo ingegno al servizio della crudeltà del tiranno, illudendosi che costui gliene sarebbe stato riconoscente. Ignorò che talora gli uomini di potere immorali fanno espiare le loro stesse malefatte a chi ha fornito loro i mezzi per compierle. Nei modi meno prevedibili, la “Giustizia divina” (la realtà) colpisce anche chi si è posto al servizio delle autorità tiranniche, ne ha assecondato il volere e ne ha, così, condiviso le responsabilità.

 

        Quando le parole del dannato (Guido da Montefeltro) hanno trovato la strada per raggiungere la punta della fiamma, imprimendole il guizzo di una lingua che parla, questo spirito rivolge a Virgilio una preghiera. Egli ha udito le parole con cui il Poeta latino ha congedato Ulisse; parole, che appartengono al linguaggio “lombardo” (o italiano), come “istra” (adesso) e “t’adizzo” (ti sollecito). Pur temendo d’essere arrivato troppo tardi, esprime il suo ardente desiderio che Virgilio si fermi e s’intrattenga a parlare con lui.

pag. 396, vv 16 – 24
Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,

udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo ‘Istra ten va; più non t’adizzo’,

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco:
vedi che non incresce a me, e ardo!

        Guido da Montefeltro crede d’aver a che fare con un altro dannato, precipitato da poco (“pur mo”) nel mondo tenebroso (“cieco”) di Malebolge. Se Virgilio arriva dalla dolce terra d’Italia (“latina”), dalla quale lo stesso Guido proviene portando con sé le sue colpe, gli dica se i Romagnoli sono in pace o in guerra. Sono suoi conterranei, essendo egli nato a Montefeltro, fra Urbino e la sorgente del Tevere (“‘l giogo di che il Tever si diserra”). Virgilio tocca col gomito il fianco di Dante (“mi tentò di costa”), invitandolo a parlare con lo spirito, dato che si tratta di un Italiano (“latino”) come lui. Il Poeta risponde prontamente che la Romagna non fu mai senza guerre nel cuore dei suoi tiranni, anche se al momento non ha alcun conflitto palese.


pag. 396 – 397, vv 25 – 39
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra latina
ond’io mia colpa tutta reco,

dimmi se i Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui de’ monti là intra Urbino
e ‘l giogo di che Tever si diserra.”

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: “Parla tu; questi è latino.”

E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
“O anima che se’ là giù nascosta,

Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ‘n palese nessuna or vi lasciai.

        Già Guido esprime l’ambivalenza dei suoi sentimenti verso la terra madre (la madre): la definisce “dolce terra”, aggiungendo subito che da essa egli proviene con le sue colpe. Egli fu colpevolmente corresponsabile dei conflitti che la sconvolsero. Anche Dante, dicendogli che la guerra fu sempre presente “ne’ cuor de’ suoi tiranni”, pare alludere alle colpe del dannato, che coi tiranni fu complice, o tiranno lui stesso.

 

        Dante passa poi in rassegna le situazioni delle principali città romagnole. Ravenna è sotto il dominio dell’aquila dei da Polenta, la quale protende le sue ali su Cervia. Forlì, città in cui Guido da Montefeltro, con uno dei suoi soliti stratagemmi, aveva fatto strage di Francesi, è sotto gli Ordelaffi. Rimini è dominata dal vecchio Malatesta e dal figlio Malatestino, crudeli verso i propri sudditi. Faenza ed Imola sono sotto Maghinardo Pagani da Susinana, alleato dei Guelfi a sud (“state) dell’Appennino e dei Ghibellini a nord (“verno”) di quelle montagne. Infine Cesena, che oscilla tra tirannide e libertà.
        Terminato il suo resoconto, ora Dante invita lo spirito a dirgli chi sia. Lo prega di non essere scostante (“duro”) come altri dannati, augurandogli (“se” augurativo) che, nel mondo dei vivi, il suo nome resista (“tegna fronte”) all’azione distruggitrice del tempo. La fiamma in cui è avvolto Guido da Montefeltro, dopo aver muggito (“rugghiato”), inizia ad agitare la punta, come quella di Ulisse, e comincia a parlare. Credendo di rivolgersi ad un’anima dannata, dice al Poeta che, se si trovasse di fronte a qualcuno che tornerà nel mondo, si rifiuterebbe di rispondere, mantenendo immobile (“sanza più scosse”) la punta della sua fiamma. Ma poiché dalle Malebolge nessuno tornò vivo, parlerà senza timore che gliene derivi infamia sulla terra.


pag. 402, vv 55 – 66
Ora chi se’, ti priego che ne conte:
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ‘l nome tuo nel mondo tegna fronte.”

Poscia che ‘l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:

“S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma starìa sanza più scosse;

ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.

        Dante sembra essere come “contagiato” dal comportamento fraudolento dei dannati: non chiarisce l’equivoco, e lascia credere a Guido da Montefeltro che egli non sia un uomo vivo che tornerà sulla terra. In virtù di tale “contagio”, pare che sia destino dei fraudolenti l’essere ripagati dagli altri della stessa moneta usata con loro. È pur vero che l’inganno di Dante è a fin di bene: gli serve per proseguire il suo viaggio verso la salvezza della propria anima, e per scrivere questa parte del suo poema. Tuttavia, ciò dimostra che la frode è talora inevitabile.

 

        Guido dichiara d’essere stato uomo d’arme, e poi frate francescano (“cordigliero”) convinto che, entrando in tale ordine, avrebbe espiato le sue colpe. Ciò sarebbe avvenuto (“il creder mio venìa intero”) se Bonifacio VIII (“il gran prete”) che egli maledice (“a cui mal prenda!”) non lo avesse risospinto nelle sue colpe precedenti. Quando era ancora dotato di un corpo vivente (“forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè”), le sue opere furono frutto più d’astuzia che di forza (“non furon leonine, ma di volpe”). Fu così esperto in stratagemmi ed inganni (“coperte vie”) che la sua fama si diffuse nel mondo. Giunto alla vecchiaia, l’età in cui all’uomo converrebbe deporre armi ed ambizioni (“calar le vele e raccoglier le sarte”) e pensare alla salvezza della propria anima, tutto ciò che prima lo avvinceva, cominciò a disgustarlo. Fatta penitenza e confessione sacramentale dei suoi peccati (“pentuto e confesso”) si fece frate (“mi rendei”), e ciò gli avrebbe giovato. Senonché intervenne nella sua vita Bonifacio VIII (“lo principe de’ novi Farisei”), in guerra con i Colonna (i residenti “presso a Laterano”), e non con Saraceni o Giudei. Suoi nemici erano Cristiani; nessuno di loro aveva conquistato Acri, come i Musulmani, o mercanteggiato nella terra degli infedeli (“di Soldano”), come gli Ebrei. Costui non ebbe alcun rispetto per il suo “sommo officio” di Pontefice, né per quella corda (“capestro”) da cui erano cinti gli aderenti all’ordine dei Francescani, magri per il digiuno. Come l’imperatore Costantino chiese a papa Silvestro, che viveva in una grotta del Soratte, di guarirlo dalla lebbra, così Bonifacio chiese consiglio a Guido per soddisfare la sua sfrenata ambizione di potere (“superba febbre”). Alle parole del papa, che gli parvero sconvenienti come quello di un ubriaco (“ebbre”), Guido restò ammutolito.


pag. 402 – 404, vv 67 – 99
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!
che mi rimise nelle prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine della terra il suono uscìe.

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,

ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

Lo principe de’ novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,

ché ciascun suo nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano;

né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir della lebbre;
così mi chiese questi per maestro

a guerir della sua superba febbre;
domandommi consiglio e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.

        Guido si rende conto della folle ambizione espressa dalle parole di Bonifacio, sconvenienti per un Pontefice. Tuttavia il timore reverenziale gl’impedisce di manifestare apertamente il suo disappunto, ed egli tace. Pur consapevole che l’altro sta cercando di coinvolgerlo in un’offesa a quello che dovrebbe essere il “sommo ufficio” del papa ed all’ordine francescano cui egli appartiene, la sua istintiva accondiscendenza verso l’autorità non gli permette d’opporvisi. Tuttavia la “Giustizia divina” non considera come attenuante la sudditanza verso un potere colpevole; anzi, la ritiene una forma di complicità.

 

        Bonifacio VIII, avendo notato la reticenza di Guido, lo rassicura: purché il frate gl’insegni come conquistare la rocca di Palestrina (“Penestrino”) tenuta dai Colonna, egli anticipatamente lo assolverà dal peccato che sta per commettere. Il papa, infatti, possiede le chiavi del Cielo per chiuderne l’accesso ai reprobi, ed aprirlo agli eletti (“serrare e diserrare”); chiavi di cui il suo predecessore Celestino V non amò far uso (“non ebbe care”). Guido, spinto a parlare dalle argomentazioni del Pontefice, autorevoli ed espresse con tanta sicurezza – oltre che dal timore d’incorrere in un atto di disubbidienza –, ritenendo che il tacere sarebbe stata la scelta peggiore, suggerì a Bonifacio di prometter molto e mantenere poco o nulla (“lunga promessa con l’attender corto”); ciò lo farà trionfare come capo della Chiesa.


pag. 404 – 405, vv 100 – 111
E poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ‘l mio antecessor non ebbe care.”

Allor mi pinser li argomenti gravi
là ‘ve ‘l tacer mi fu avviso il peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi

di quel peccato ov’io mo cader deggio
lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar nell’alto seggio”

        Quando Guido da Montefeltro morì, San Francesco, in quanto fondatore dell’ordine cui il frate apparteneva, venne a prendere la sua anima. Tuttavia, uno dei diavoli che già furono angeli (“un de’ neri cherubini”) intimò al Santo di non toccare Guido. Questi, infatti, incorse nel peccato di consiglio fraudolento; peccato per il quale il demone sta per acciuffarlo, prendendolo per i capelli (“a’ crini”) per portarlo tra i suoi sudditi (“meschini”). L’assoluzione conferita al Montefeltro non ha valore ed è sacrilega: non è lecito assolvere chi non si pente, né è possibile pentirsi per un peccato e, al tempo stesso, volerlo commettere; ciò sarebbe una contraddizione. Rivolgendosi, poi, ironicamente a Guido, gli dice: “Forse tu non pensavi che io fossi logico (“loico”)!


pag. 405 – 406, vv 112 – 123
Francesco venne poi, com’io fu’ morto
per me; ma un de’ neri cherubini
li disse: “Non portar: non mi far torto.

Venir sen dee giù tra’ miei meschini
perché diede il consiglio fraudolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentére e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente.”

Oh me dolente! Come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi!”

        Guido si risveglia come da un incubo, accorgendosi di colpo che, se avesse fatto uso della logica che il diavolo possiede, non sarebbe caduto nella trappola tesagli da Bonifacio, ed avrebbe evitato di commettere il peccato. Le sue capacità di ragionamento logico sono state corrotte e stravolte dal desiderio trasgressivo di rendersi complice del papa. Tuttavia la sua istanza superegoica arcaica (il diavolo) le ha conservate; ed ora le usa per rendere più dolorosi i sentimenti di colpa e la punizione del peccatore. Succede, così, che una parte primitiva della mente, capace solo di punire e non di prevenire le azioni peccaminose, s’impadronisca delle facoltà più evolute dell’individuo, ponendole al proprio servizio.

 

        Il diavolo portò l’anima di Guido a Minosse, il giudice infernale, il quale avvolse (“attorse”) la coda per otto volte intorno al corpo, indicando così che si sarebbe dovuto assegnare il peccatore all’ottavo cerchio. Il giudice aggiunse alla sua sentenza una manifestazione di rabbia: mordendosi la coda, esclamò minacciosamente: “Costui deve essere avvolto dal fuoco rapace (“furo”)”; ed ora Guido da Montefeltro è condannato per l’eternità a dolersi (“mi rancuro”), imprigionato dal suo “vestito” di fiamme.


pag. 406, vv 124 – 129
A Minòs mi portò, e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,

disse: “Questi è de’ rei del foco furo;”
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando mi rancuro.”

        La punizione della “Giustizia divina” verso questi fraudolenti è particolarmente severa e feroce; non potrebbe essere altrimenti. Essi, infatti, attaccarono alle radici il loro rapporto con la realtà, e questa si “vendica” nel modo più duro. Astuzia, desiderio di controllo (potere, conoscenza, possesso) del mondo, identificato con l’oggetto arcaico, e rischio di perdere quest’ultimo (e di perdersi) per la propria avidità: tutto questo pare accomunare Ulisse e Guido da Montefeltro; entrambi (a differenza di Dante) non sono garantiti contro gli eccessi dalla “Grazia” (ossia da un saldo oggetto interno appagante, protettivo ed efficace nel favorire il contenimento delle passioni). Qui viene posto in evidenza l’autoinganno di cui fanno uso le tendenze distruttive, impersonate dal demonio di cui Bonifacio è portavoce; ma il male che ne deriva è innegabile, la realtà non si lascia corrompere da raggiri, e la sua punizione è inesorabile: il diavolo (rappresentante anche di un Superio arcaico e persecutorio) è “loico”, ossia, pur ingannatore, non è ingannabile.

 

        Essendosi allontanata la fiamma di Guido da Montefeltro, emettendo gemiti di dolore e dibattendo la sua cima, a Dante e Virgilio non resta che passare oltre. Arrampicatisi su per l’argine, raggiungono il ponte (“arco”) che sovrasta la bolgia dove vengono puniti coloro che, seminando discordia (“scommettendo”), si sono fatti rei (“acquistan carco”) del peccato di cui ora pagano il fio.


pag. 406 – 407, vv 130 – 136
Quand’elli enne ‘l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partìo,
torcendo e dibattendo il corno aguto.

Noi passam’oltre, e io e ‘l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
che cuopre il fosso in che si paga il fio

a quei che scommettendo acquistan carco.

..……………………………………………………………………………………….

Canto XXVIII

        Dante e Virgilio si trovano sul ponte che sovrasta la nona delle Malebolge dove, come il Poeta aveva anticipato nell’ultimo verso del canto precedente, sono puniti i seminatori di discordie. Dante avverte la sensazione di non riuscire a descrivere l’orrendo spettacolo di sangue e di piaghe cui assiste. Non potrebbe neppure se si esprimesse in prosa (“pur con parole sciolte”), ossia con parole non vincolate al metro ed alla rima, e neanche se lo facesse con ripetuti tentativi (“per narrar più volte”). Ogni linguaggio sarebbe inadeguato (“verrìa meno”) poiché le parole e la mente umana (“sermone” e mente) non saprebbero abbracciare (aver “seno”: contenere e racchiudere) una materia di così vasta portata (“tanto”)


pag. 409, vv 1 – 6
Chi porìa mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e delle piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

Ogne lingua per certo verrìa meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’hanno a tanto comprender poco seno.

        C’è qui il paradosso che appartiene alla grande Poesia: il riuscire ad esprimere l’inesprimibile, ossia tutto ciò che la mente dell’uomo comune e le parole del linguaggio comune non saprebbero comprendere e comunicare. È un paradosso perché, espressa con un linguaggio poetico, non viene tralasciata neppure l’esperienza vissuta dell’incomprensibilità e della confusione che, come vedremo, appartengono alla mente dei dannati che Dante sta per descrivere.
        Ecco un altro suggerimento del Poeta, utile al clinico: si commette l’errore di saltare a piè pari la sensazione di perplessità del paziente, e di affrettarsi a chiarirne le cause tramite un’interpretazione. È uno sbaglio perché anche la stessa perplessità ha un senso: denota un distacco della mente del malato dalle sue sensazioni, che hanno la loro radice nel corpo. Inoltre, il terapeuta rischia di presentarsi al paziente come personaggio “infallibile”, immune da incertezze, e quindi del tutto estraneo a lui in quel momento. Affinché il curante dimostri al paziente d’essere un suo simile che condivide la sua esperienza, per poi aiutarlo gradualmente a padroneggiarla, è necessario che esperimenti con lui anche i vissuti di confusione e d’oscurità che precedono la chiarezza.

 

        Per dare un’idea dello spettacolo raccapricciante cui ha assistito, Dante ci dice che se tutti i caduti d’innumerevoli guerre si levassero a mostrare le loro ferite e mutilazioni, non susciterebbero altrettanto orrore. A titolo di esempio, cita la guerra dei Romani contro i Sanniti e contro Pirro, la seconda guerra punica, con il massacro di Canne, la sanguinosa campagna di Roberto il Guiscardo, le battaglie di Benevento e di Tagliacozzo.

 

        Il lungo elenco delle guerre rende efficacemente l’idea della moltitudine di questi peccatori. Ogni combattente, in fondo, è un “seminatore di discordie” non solo perché corresponsabile di quei rapporti perversi coi propri simili che sono le guerre, ma anche perché ha creato un conflitto in sé stesso: ha tradito la propria natura umana a favore di una ferocia bestiale. È con il suo corpo, ferito e mutilato, che paga duramente il proprio sbaglio.

 

        Dante, tra i dannati, ne vede uno che si presenta con un aspetto orribile: lo paragona ad una botte (“veggia”) che, avendo perduto alcuni dei suoi pezzi (“mezzul”, “lulla”), si apre (“pertugia”) versando il suo contenuto all’esterno. Il peccatore, infatti, è squarciato dal mento al sedere (dove “si trulla”, ossia si fa vento dall’ano). Tra le sue gambe pendono le budella (“le minugia”), la “corata” (che qui sta ad indicare il peritoneo) e l’intestino maggiore (“‘l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia”). Mentre Dante sta fissando intensamente il peccatore (“in lui veder m’attacco”), costui apre con le mani la sua lacerazione, mostrandogli come si squarcia (“mi dilacco”). Si qualifica come Maometto, il profeta dell’Islam, ed indica il genero Alì, che ne provocò uno scisma. Questi è col viso spaccato (“fesso”) dal mento ai capelli (“ciuffetto”).


pag. 410 – 411, vv 22 – 33
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
tutto dal mento infin dove si trulla:

tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!

vedi come storpiato è Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

        Per capire il senso di questi versi, occorre tener conto delle opinioni prevalenti ai tempi di Dante, in cui l’Islam rappresentava oggettivamente una minaccia, e comprendere dal suo interno una mente dominata da convinzioni che qualcuno oggi ritiene “datate”.
        Nell’antichità, il popolo arabo era diviso tra una ristretta aristocrazia imbevuta di cultura greco-romana e cristiana (diede a Roma un imperatore che non a caso portava il nome greco di Filippo) ed una moltitudine di nomadi pagani, primitivi, indocili, che, potremmo dire, ragionava “coi visceri”. Maometto ebbe la capacità di disciplinarli convertendoli ad una fede monoteista fatta di prescrizioni rigorose; agì quindi, portandovi ordine, sulla parte “viscerale” del suo popolo.
        Colpisce, in questi versi, l’apparente volgarità: Dante non si cura di raddolcire in termini poetici la cruda rappresentazione delle feci e della funzione dell’ano. Con ciò egli illustra come, nella sua opinione, l’attività ordinatrice e disciplinatrice di Maometto (la sua “pulizia”) finì per sconfinare nel suo opposto: in un’incontinenza, ossia in un’oscena incapacità di controllare le pulsioni sadico-anali espulsive. La “discordia” creata da Maometto, nella visione dantesca, è duplice: da un lato provocò in sé stesso un conflitto fra la sua parte più umana, che avvertiva il valore cristiano della carità, accolto in parte nella sua predicazione religiosa, e l’irruzione di una tendenza ferina, ossia dei metodi violenti con cui la sua fede avrebbe dovuto imporsi. Ciò, d’altro lato, significò la “espulsione” dal consesso civile o l’annientamento di tutti i suoi simili rimasti “infedeli”. Se il Cristianesimo (con le l’eccezioni della fede imposta ai Sassoni con la forza da parte di Carlo Magno e di quella imposta ai pagani del Baltico dai cavalieri dell’Ordine Teutonico) si diffuse tramite l’attività apostolica dei missionari, l’Islam s’impose in gran parte con la spada: i “visceri” riemersero.
        A differenza di Maometto, in cui la lacerazione (la “discordia”) si produsse nei “visceri”, nello scismatico Alì notiamo una spaccatura nella parte superiore del corpo: fu la sua mente ad agire su di una dottrina già sviluppata dal suocero, provocando una discordia tra gli appartenenti alla stessa fede.
        In Maometto, come negli altri seminatori di discordia che fra poco compariranno, manca una qualsiasi forma di confessione dei peccati. Sembra inconsapevole dei motivi della sua punizione; si rende conto solamente di quanto sia dolorosa la sua espiazione, e per questo cerca di suscitare pietà, in modo toccante, mostrando ai Poeti la sua lacerazione. Non c’è, in questo, un’analogia con i pazienti che comunicano quanto siano dolorosi i loro sintomi, inconsapevoli del perché siano comparsi, e di quanto ne siano, in parte, responsabili?

 

        Maometto prosegue il suo discorso illustrando a Dante e Virgilio la punizione che viene inflitta nella sua bolgia: un diavolo, poco dietro di lui, concia (“accisma”) crudelmente i dannati mutilandoli (rendendoli “fessi”) con la spada, man mano che, ad ogni giro nel contorno della valle (“volta la dolente strada”), compaiono davanti a lui. Allontanandosi i peccatori, le loro ferite si rimarginano, per poi essere inferte nuovamente una volta compiuto il percorso.


pag. 411, vv 34 – 42
E tutti gli altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fur vivi, e però son fessi così.

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio della spada
rimettendo ciascun di questa risma,

quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.

        Probabilmente il percorso circolare di questi dannati è una metafora della loro vita: allontanandosi dal luogo e dal momento in cui produssero discordie negli altri, e lacerazioni in sé stessi, tutto in loro sembrava ricomporsi, per poi tornare inesorabilmente al punto di partenza, ripresentandosi immutato.

 

        Maometto chiede chi sia il nuovo visitatore della bolgia; crede che si tratti di un dannato che indugi a patire la sua pena. Virgilio, però, lo disinganna: gli dice, tra la generale meraviglia degli spiriti presenti, che Dante è ancora vivo, che nessuna colpa lo condanna al tormento infernale, e che percorre l’Inferno guidato da lui per conoscere le pene che attendono i peccatori.
        Il profeta dell’Islam coglie l’occasione per inviare, tramite questo vivo che tornerà fra i vivi, un messaggio a fra Dolcino, capo della setta scismatica degli Apostolici contro cui il papa Clemente V bandì una crociata. Gli manda a dire che se, anche lui seminatore di discordie, non vuole finire presto nella sua stessa bolgia, si provveda di vettovaglie, in modo da evitare che la neve favorisca la vittoria dei Novaresi, che lo assedieranno. Pronunciando queste parole, Maometto s’allontana (“l’un piè… sospese, indi a partirsi in terra lo distese”)


pag. 412, vv 55 – 63
“Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non sarìa lieve.”

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Maometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.

        Alcuni commentatori (Vandelli, cit.) interpretano quest’ultimo discorso di Maometto come “maligno e ironico”. Personalmente mi trovo d’accordo con chi ritiene che queste parole, pronunciate con ansiosa fretta mentre sta andando via col tallone già alzato, rivelino simpatia per quello che presto sarà un compagno di pena. Prima di allontanarsi, Maometto ci tiene ad esprimere la sua solidarietà per una persona nella quale, più che un suscitatore di conflitti, riconosce buone intenzioni simili alle sue: anche Dolcino, come il profeta dell’Islam nel suo popolo, cercò di riportare ordine nella chiesa corrotta, riconducendola alla povertà dei tempi apostolici.

 

        Dante vede un altro dannato con la gola forata, il naso troncato fin sotto le ciglia, ed un orecchio reciso. Questi, fermatosi con gli altri a guardare meravigliato un vivo nel mondo dei morti, apre la gola, scoprendo la laringe (“la canna”), isolata dagli altri tessuti sanguinanti (“fuor d’ogni parte vermiglia”). Egli, dopo aver dichiarato d’aver già visto Dante su nel mondo, in terra italiana (“latina”), si manifesta come Pier da Medicina, signore di un territorio romagnolo. Prega il Poeta di ricordarsi di lui se tornerà a vedere la dolce pianura Padana (il “piano che da Vercelli a Marcabò dichina”).


pag. 413, vv 64 – 75
Un altro, che forata avea la gola
e tronco il naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi alli altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,

e disse: “O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,

rimenbriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.

        La presenza di un vivente tra i morti rappresenta un evento eccezionale. Pier da Medicina, prima ancora di approfittarne per chiedere al Poeta notizie sul mondo di chi ancora vive, o si incaricarlo di trasmettere messaggi, gli esprime la sua nostalgia per la sua dolce terra madre. Vorrebbe, tramite gli occhi di un vivente, tornare a vedere i suoi luoghi natii che ancora ama. Colpisce, qui, il contrasto (anche qui la “lacerazione”) tra, da un lato, il seminatore di discordie e divisioni e, dall’altro l’essere, che convive in lui, e che desidera ardentemente di tornare a riunirsi, in qualche modo, col “dolce piano” che lo aveva visto nascere. Possiamo, qui, ravvisare gli indizi di una violenta frattura, avvenuta nel passato, fra lui e la terra madre (la madre); frattura da cui rimase, superstite, una parte del dannato teneramente legato a lei. Anche qui la lacerazione si traduce in una mutilazione corporea che, però, risparmia la parte della gola con la quale Pier da Medicina può esprimere la sua nostalgia.

 

        Pier da Medicina incarica Dante d’avvisare due notabili (“miglior”) di Fano – Guido da Cassano e Angiolello di Carignano – che, se la sua capacità di prevedere il futuro non l’inganna, il tiranno traditore (“fello”) Malatestino sta per tender loro un agguato: nel corso della navigazione fra Fano e Rimini (dove costui li aveva invitati), all’altezza di Cattolica saranno gettati fuori dal vascello (“vasello”) legati a pietre (“mazzerati”) per farli annegare. Aggiunge che per tutta l’estensione del Mediterraneo (tra “Cipri”, ossia Cipro, e “Maiolica”, ossia Maiorca), il dio Nettuno non vide mai un crimine così grave (“sì gran fallo”), neppure da parte di pirati o malfattori greci (“gente argolica”). Il Malatestino, cieco da un occhio, vede con l’altro la terra che domina; terra che il dannato che gli sta vicino non avrebbe mai voluto vedere (“di vedere esser digiuno”). I due malcapitati, essendo stati assassinati prima, non avranno più bisogno di pregare il Signore perché li protegga dall’impetuoso vento di Focara, che viene da un monte presso Cattolica.


pag. 413 – 418, vv 76 – 90
E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che se l’antiveder qui non è vano,

gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso alla Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

Tra l’sola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco.”

        Pier da Medicina, nel suo discorso, aveva menzionato un compagno di pena. Dante gli chiede di precisare chi sia questo dannato che, come gli era stato detto, non avrebbe mai voluto vedere la terra di Rimini (“dalla veduta amara”). Pier da Medicina s’accosta ad un altro spirito e, afferratagli la mascella, gli apre la bocca esclamando che parlava di costui (“questi è desso”). Per voce di Pier da Medicina, Dante ora ci parla di tale dannato, ossia di Curione. Questo tribuno, scacciato da Roma perché partigiano di Cesare, riuscì a vincere ogni dubbio (“il dubitar sommerse”) del divo Giulio riguardo all’opportunità di varcare il Rubicone, il che avrebbe comportato l’inizio della guerra civile. Gli disse che chi si è già preparato (“fornito”) ad ogni evenienza, trae sempre danno dall’indugio (“l’attender”). Curione ora mostra, mozzata, la lingua con cui pronunciò parole tanto ardite.


pag. 418 – 419, vv 91 – 102
E io a lui: “Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti di te su novella,
chi è colui dalla veduta amara.”

Allor puose la mano alla mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: “Questi è desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ‘l fornito
sempre con danno l’attender sofferse.”

Oh quanto mi parea sbigottito
con la lingua tagliata nella strozza
Curio, ch’a dir fu così ardito!

        Compare ora un altro peccatore, Mosca dei Lamberti, di cui Dante aveva già chiesto a Ciacco (Inferno, VI, 80). Costui ha entrambe le mani mozzate. Vedendo il Poeta, agita i moncherini nella caligine infernale (“per l’aura fosca”), come per richiamare su di sé l’attenzione, ed il sangue che ne fuoriesce gli lorda il viso. Il dannato prega Dante di ricordarsi di lui che pronunciò le parole fatali: “capo ha cosa fatta” (ossia, una volta che un’azione sia compiuta, raggiunge un fine (“capo”), qualunque ulteriore effetto poi ne derivi. Alludeva all’assassinio di Buondelmonte, che scatenò il conflitto tra Guelfi e Ghibellini toscani. Dante aggiunge che la sua affermazione incauta provocò l’uccisione dei suoi discendenti (“morte di tua schiatta”). Accumulando la sofferenza della pena a quella suscitata dalla notizia appena appresa, Mosca s’allontana, fuori di sé per il dolore (“come persona trista e matta”)


pag. 419 – 420, vv 103 – 111
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ‘l sangue facea la faccia sozza,

gridò: “Ricordera’ti anche del Mosca,
che dissi, lasso!, ‘Capo ha cosa fatta’
che fu ‘l mal seme per la gente tosca.”

E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta;”
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gìo come persona trista e matta.   

        È stato detto (De Sanctis, cit.) che, in questo Canto, “la poesia dell’episodio non è nel colpevole, ma nella colpa e nel castigo”. Questo, paradossalmente, coesiste con l’assenza, fra questi dannati, di una vera e propria confessione, il che significherebbe consapevolezza della colpa. Questo, come vedremo, con la sola eccezione di Bertram dal Bornio. La colpa, pur assente in quel che dicono, tuttavia condiziona il loro comportamento ed il loro modo di essere in modi diversi.
        Il Maometto dantesco soffre terribilmente per il castigo, ma non riconosce alcuna colpa di cui la punizione possa essere la conseguenza. Esprime, infatti, solidarietà per Dolcino, in cui coglie una somiglianza con sé stesso, come se entrambi avessero compiuto solo azioni virtuose e non colpevoli.
        Pier da Medicina riconosce, sì, una colpa, ma in un altro distinto da lui eppure a lui somigliante: nel “tiranno fello” Malatestino. Come compiendo un atto riparativo tardivo, e per lui inutile, cerca di salvare le vittime degli stessi misfatti che lui in vita ha commesso ed avrebbe continuato a commettere.
        Curione, con la lingua mozza, appare “sbigottito”, come se in lui regnassero perplessità e confusione riguardo ai motivi della punizione per cui ora sta soffrendo. – Per inciso, nel caso di mutacismo quale sintomo di conversione, il paziente isterico avverte un’analoga perplessità riguardo ai motivi per cui non riesce più a parlare, anche se è chiaro che inconsciamente sta punendo, paralizzandola, la lingua che ha pronunciato parole colpevoli – È pur vero che Curione non vorrebbe più vedere Rimini, dove egli, convincendo Cesare a varcare il Rubicone, si rese corresponsabile della guerra civile. Tuttavia il suo “sbigottimento” pare significativo della consapevolezza di una pura successione di fatti (le sue parole rivolte a Cesare, e la successiva guerra civile) più che di un nesso causale – e quindi di una sua responsabilità – tra il suo intervento e quanto accaduto subito dopo. Come quando un luogo ci suscita sensazioni spiacevoli, ma non ci rendiamo conto di quanto noi stessi siamo stati responsabili dei fatti incresciosi che lì si sono verificati.
        Mosca dei Lamberti, che pronunciò le parole fatali “capo ha cosa fatta”, ha le mani mozzate, ossia vengono colpite le parti del corpo con cui comunemente si “fa”. È il più vicino a vivere sentimenti di colpa, per le dolorose conseguenze che derivarono da tali parole; tuttavia pare rimproverarsi, più che altro, per l’avventatezza che lo spinse a pronunciarle, senza riflettere sulle possibili conseguenze che ne sarebbero seguite, anzi, rifiutandosi di pensarvi.
        Mi permetto d’esprimere un parziale dissenso riguardo a quanto dice il De Sanctis che, in questo canto, “viene in primo piano non tanto la caratterizzazione psicologica dei singoli personaggi, quanto la descrizione sensibile della pena, immagine sensibile della colpa”. È pur vero che, dalla descrizione della pena, possiamo desumere, in quanto contrappasso, la natura particolare della colpa. È anche vero che la colpa, pur non consapevolmente ammessa dai più, domina il modo di essere di questi personaggi. Tuttavia, a mio avviso, una caratterizzazione psicologica dei personaggi si può ravvisare nel modo particolare con cui vi reagiscono o se ne difendono: la negazione, la proiezione, la soppressione dei nessi causali nel pensiero, lo spostamento del sentimento di colpa su altre azioni riprovevoli, diverse da quelle per cui questi dannati sono puniti.
        In questo canto, ciò che la punizione divina colpisce in modo particolarmente duro è il corpo dei dannati, ferito e mutilato. Ciò, a mio avviso, acquista un senso compiuto nell’episodio finale, che riguarda Bertram dal Bormio.

 

        Fra tanti dannati mutilati, Dante ne nota uno punito in modo particolarmente atroce. Il Poeta, prima di descriverlo, sente il bisogno di preparare il lettore temendo che questi non gli creda. Senonché da tale timore lo preserva la sua coscienza che, sentendosi pura, gli offre un sostegno alla sua franchezza (“francheggia”) ed una protezione (“asbergo”) dall’insicurezza. Dante vede avanzare, tra gli altri dannati, un busto privo di capo, che per i capelli tiene la testa recisa, pendente (“pésol”) dalla mano, a guisa di lanterna. Erano come due esseri in uno, ed uno in due.


pag. 420 – 421, vv 112 – 126
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa, ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;

se non che coscienza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.

Io vidi certo, ed ancor par ch’io veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri della trista greggia;

e ‘l capo tronco tenea per le chiome,
pésol con mano a guisa di lanterna;
e quel mirava a noi, e dicea: “Oh me!”

Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due:
com’esser può, quei sa che sì governa.

        Quando il decapitato giunge ai piedi del ponte dove si trovano i due Poeti, egli solleva il braccio con la testa per rendere le sue parole più facilmente udibili. Dopo aver invocato pietà per la sua pena orribile, si presenta come Bertram dal Bornio, che con i suoi consigli malvagi (i “ma’ conforti”) spinse Enrico il Giovane, primogenito di Enrico II d’Inghilterra, a ribellarsi al padre. Provocò discordia tra due parenti così stretti, come genitore e figlio, allo stesso modo in cui Achitofèl spinse Assalonne (“Absalone”) a ribellarsi al padre Davide.


pag. 421, vv 127 – 138
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ‘l braccio alto con tutta la testa,
per appressarne le parole sue,

che fuoro: “Or vedi la pena molesta
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al Re giovane i ma’ conforti.

Io feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli:
Achitofèl non fe’ più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.

        Avendo causato discordia (“parti’”) tra due familiari così intimamente legati, ora, per contrappasso, porta il cervello (“cerebro”) disgiunto dal midollo spinale (“suo principio”, che può essere inteso come “suo inizio”, oppure “sua origine”).


pag. 421, vv 139 – 142
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.

Così s’osserva in me lo contrappasso.”

        Qui il tipo particolare di contrappasso ci dice qualcosa di più rispetto alla natura della colpa, considerata solo nei suoi aspetti superficiali. C’è qualcosa di più intimo, di più profondo e originario.
        Winnicott, in un articolo ripreso recentemente da Ogden, illustrò una sua osservazione sui suoi pazienti più piccoli. In essi, esiste un’originaria unità “psiche-soma” in cui mente e corpo non sono disgiunti e tanto meno contrapposti. Sono parti di un tutto: l’attività della mente consiste essenzialmente nel dare una rappresentazione ai fenomeni corporei e, così facendo, li vivifica. Il corpo offre all’attività mentale un carattere di fisicità.
        Siamo in una fase in cui il bambino è strettamente dipendente dalle cure materne. Se queste sono adeguate, l’unità psiche-soma viene preservata, e viene mantenuta l’armonia interiore nel piccolo. Se, viceversa, la madre è inadeguata (o per un suo difetto d’empatia, e/o perché disturbata da malattie o da problemi d’altro genere, e/o perché il bambino, per le sue caratteristiche costituzionali, oppone particolari difficoltà a chi lo accudisce) è il corpo del piccolo che, per primo, ne risente.
        In casi estremi, succede che il bambino, per lo stato di malessere che vi avverte, si “ritiri” dal suo corpo maltrattato, e si “rifugi” nella mente, dove può costruire con la fantasia quelle cure materne che gli sono mancate; cure che sembrano efficaci nella fantasia, ma che non incidono minimamente sulla reale situazione corporea. Si crea, così, una prima frattura (o “discordia”) a carattere duplice: quella tra mente e corpo, e quella (modello di tutte le discordie successive) tra bambino e mamma. Ne vediamo una rappresentazione visiva nella testa mozzata di Bertram dal Bornio. Ne ravvisiamo gli indizi nella lacerazione interiore che affligge Pier da Medicina: quella tra la struggente nostalgia della terra madre (la madre) ed i segni di una separazione traumatica, che la rese inaccessibile per sempre; frattura rappresentata visivamente da quelle parti del capo amputate (la gola, il naso, l’orecchio) che resero possibile “gustare” il frutto del seno della mamma, ascoltarne la voce soave, sentirne il profumo.
        L’individuo, entrato in discordia con la madre arcaica, produrrà la medesima frattura con chiunque non lo soddisfi pienamente con le sue “cure”, ossia con tutti. In virtù degli attacchi invidiosi nei confronti di coloro che sanno trarre beneficio dalle reciproche relazioni, cercherà di produrre gli stessi contrasti che ha provocato in sé stesso, anche nei rapporti tra di loro. Ecco come si genera il “seminatore di discordie”. Costui potrà trarre vantaggi materiali dalle sue manipolazioni diaboliche, ma la radice emotiva profonda di tali comportamenti è antica; e Dante, con la figura di Bertram dal Bornio, ce ne offre una rappresentazione metaforica.
        L’osservazione di Winnicott permette di spiegare l’origine di numerose situazioni patologiche in cui si ha una sorta di divorzio della mente dal corpo: molte somatizzazioni, in cui nel corpo, sganciato dal controllo centrale della mente (controllo esercitato tramite le connessioni fra sistema limbico, ipotalamo e sistemi neurovegetativo e neuroendocrino) si produce una sorta di “anarchia” che lo rende preda di varie affezioni. Inoltre i vari tipi di addiction, in cui domina l’incapacità di contenere con la mente le tensioni emotive; patologie, queste, spesso associate a “falsi Sé” patologici, in cui le manifestazioni della mente, prive di un fondamento nella fisicità, sono inautentiche. Infine l’ipocondria, in cui il corpo è avvertito costantemente come estraneo, minacciato e minaccioso. È chiaro che pensare a queste spiegazioni in termini tecnici ed astratti, le renderebbe non del tutto comprensibili a noi stessi, e del tutto incomprensibili ai pazienti. Ci soccorre, qui, la Poesia, la quale rende possibile vivere queste esperienze con la mente, con gli affetti e col corpo, e, per chi ne ha la sensibilità, rende intuibili certi concetti anche a chi non ha una preparazione specifica.
        A differenza di altri dannati, che provano vergogna all’idea che Dante porti nel mondo la notizia del loro peccato e della loro espiazione, in questa bolgia quasi tutti pregano il Poeta di ricordarli e di raccontare di loro quando tornerà tra i viventi. Ciò è tipico degli individui resi confusi da conflitti familiari non risolti che hanno interiorizzato: essi sentono il bisogno che qualcuno, attraverso la narrazione delle loro vicende, restituisca alla loro persona quell’unità e vitalità che in loro sono andate del tutto perdute. Amleto, sconvolto dalle guerre che hanno funestato la sua famiglia, nel momento in cui sta perdendo la propria vita, prega l’amico Orazio di far in modo che non venga perduto il ricordo della sua persona; lo prega, se l’ha amato, di sopportare tutte le asprezze della vita, ma di vivere per poter “raccontare la sua storia”.


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Canto XXIX

        Dante, ancora sul ponte che sovrasta la nona bolgia, è sconvolto dallo spettacolo raccapricciante delle piaghe e delle mutilazioni; sente che i suoi occhi vorrebbero piangere. Virgilio ha notato che il Poeta si sta soffermando in questo luogo più di quanto avesse fatto in altre bolge. In tono pacato e paternamente affettuoso, lo richiama alla realtà del cammino ancora da compiere e del tempo limitato che è a loro disposizione. Dante risponde che, se il Maestro avesse posto mente (“atteso”) alla ragione del suo indugio, glielo avrebbe perdonato (“dimesso”). Desiderava non solo contemplare (“tenea li occhi sì a posta”) lo spettacolo della bolgia, ma anche vedere lo spirito di un suo parente (“mio sangue”) che ritiene si trovi fra questi dannati.


pag. 423 – 425, vv 13 – 21
“Se tu avessi” rispuos’io appresso
“atteso alla cagion per ch’io guardava,
forse m’avresti ancor lo star dimesso.”

Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già facendo la risposta,
e soggiungendo: “dentro a quella cava

dov’io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa”

        Questi ultimi due versi hanno un accento particolarmente doloroso e appassionato. Le parole “mio sangue” esprimono in modo efficace l’intensa partecipazione emotiva del Poeta alla sofferenza del suo congiunto.

 

        Virgilio, ora con decisione, invita Dante a non disperdere (che non “si franga”) il suo pensiero, distraendosi dallo scopo del suo viaggio. Lasci alle sue spalle (“là si rimanga”) il suo parente, ormai definitivamente dannato. Fa presente al Poeta che, mentre egli era distratto (“impedito”) dal colloquio con Bertram dal Bornio, signore di Altaforte, aveva visto il suo congiunto che lo indicava (“mostrarti”) agli altri dannati, rivolgendogli col dito un gesto minaccioso. Le altre anime avevano chiamato costui Geri del Bello.


pag. 425, vv 22 – 30
Allor disse ‘l maestro: “Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello:
attendi ad altro, ed ei là si rimanga:

ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti, e minacciar col dito,
e udi’ ‘l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito.”

       Virgilio fa notare a Dante che, impegnato nel colloquio con Bertram del Bornio, non si era accorto della presenza di Geri del Bello. Eppure il nome di questi, pronunciato da altri, avrebbe potuto attirare l’attenzione del Poeta. Qui il Maestro di Dante dimostra la sua qualità di profondo conoscitore dell’animo umano. Mentre gli ricorda che l’alto valore morale del suo viaggio impone a Dante di non distrarre il suo pensiero dallo scopo per cui si trova nell’oltretomba, nello stesso tempo è come se gli facesse presente che la consapevolezza di tale necessità era, in fondo, già implicita nel suo comportamento. Ignorando la presenza di Geri del Bello, Dante aveva dimostrato di conoscere già, e di mettere in pratica, l’insegnamento che il suo Maestro gli avrebbe espresso con le sue parole.
        C’è qui, da parte di Virgilio, un modo di procedere, che potremmo definire “maieutico”, tipico del terapeuta che sa fare il suo mestiere: nessuna direttiva morale viene imposta dall’esterno; il curante, semmai, aiuta il paziente a rendersi conto che già conosceva tale norma di comportamento, e la metteva pure in pratica.

 

        Dante spiega al Maestro il gesto di rimprovero di Geri del Bello attribuendolo al fatto che la sua morte, avvenuta violentemente, non è stata ancora vendicata. Per tale motivo il suo congiunto si è allontanato, sdegnato, senza parlargli; il che ha accresciuto il rammarico e la pietà del Poeta. Alle parole di Dante, Virgilio risponde con il silenzio.


pag. 425 – 426, vv 31 – 36
“O duca mio, la violenta morte
che non li è vendicata ancor” diss’io
“per alcun che dell’onta sia consorte,

fece lui disdegnoso; ond’el sen gìo
sanza parlarmi, sì com’io estimo:
ed in ciò m’ha el fatto a sé più pio.”

       C’è, nell’animo di Dante, un conflitto: come i suoi contemporanei, il Poeta non ha ancora preso del tutto le distanze dall’usanza barbarica della “faida”, pur avendo assimilato il messaggio cristiano di pace. Più in profondità, ed a livello più personale, c’è il contrasto fra le esigenze della forma più primitiva di narcisismo e l’aspirazione a più alti ideali. Identificandosi con il parente offeso, la parte più primitiva di lui sarebbe tentata di “lavare l’onta col sangue”; però, come Virgilio gli ha ricordato, la meta ideale del suo percorso impone di non disperdere le sue energie e di non deviare la sua attenzione, facendosi come intrappolare da questioni di questo genere. Occorre, su tali meschinità, “volare alto”.
        Dante, tuttavia, non può fare a meno di avvertire ed esprimere il suo rincrescimento per lo sdegno di Geri del Bello. Nei confronti di una persona cara, non è facile superare il lutto per la sua scomparsa (vendicarsi, come essa avrebbe fatto se fosse stata ancora viva) e rassegnarsi alla sua definitiva dannazione, prendendone le distanze. Virgilio, non muovendogli alcuna obiezione, esprime la sua comprensione per questi sentimenti.

 

        I due Poeti, procedendo oltre, raggiungono il ponte che sovrasta la decima bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i falsari. Con evidente ironia, Dante definisce “chiostro” come di un convento il bordo della bolgia, e pii monaci (“conversi”) i dannati che qui espiano le loro colpe. Dal profondo della fossa salgono lamenti atroci (“diversi”) che colpiscono le orecchie del Poeta con la violenza di una freccia, suscitandogli pietà.


pag. 426, vv 40 – 45
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere alla veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean gli strali;
ond’io li orecchi con le man copersi.

        In questo canto, pur provando pietà per questi dannati, Dante ne parla più volte con ironia. È questo il modo per disarmare i falsari. Essi, nella loro vita, mascherarono sé stessi o le loro cose con apparenze false ed ingannevoli. L’ironia con cui il Poeta parla di loro, ha caratteristiche uguali e contrarie: ogni parola ha, in realtà, il significato opposto a quello apparente, ed in questo modo segnala e smaschera l’inganno di questi fraudolenti.
        Talora, in un rapporto terapeutico, l’ironia del curante permette di mettere in evidenza gli inganni del paziente verso gli altri e sé stesso, evitando d’esprimere giudizi moralistici di riprovazione.

 

        Dante offre un’idea dello spettacolo cui assiste tramite immagini che rendono la quantità e la qualità dei lamenti e delle sofferenze. Il dolore raccolto in questa bolgia è paragonabile a quello che ci sarebbe se si riunissero in un solo luogo le malattie che, d’estate, affliggono la Valdichiana, la Maremma e la Sardegna. Dalla fossa emerge il fetore come di membra marce. È uno spettacolo simile a quello dell’isola di Egina, quando Giunone si vendicò diffondendo la peste che uccise uomini ed animali.
        I due Poeti procedono lentamente (“passo passo”) ed in silenzio (“sanza sermone”) trai corpi martoriati. Alcuni dei dannati giacciono col ventre a terra; altri appoggiati l’uno alle spalle dell’altro, o si trascinano penosamente carponi. Dante nota, fra queste anime, due peccatori seduti, l’uno contro le spalle dell’altro, come in un fornello si appoggia una teglia (“tegghia”) all’altra. I loro corpi sono cosparsi di croste di piaghe (“di schianze macolati”). Essi si grattano freneticamente (col “morso dell’unghie”) per far fronte alla violenza (“rabbia”) del pizzicore, non avendo altro modo per lenirlo (“soccorso”). Le unghie portano via quella specie di rogna (“scabbia”) con la stessa forza di un coltello che raschia le squame (“scaglie”), di grandi dimensioni, di pesci come la scardova. Il loro impeto è paragonabile a quello con cui un garzone di stalla (“ragazzo”) mena in tutta fretta la striglia (“stregghia”) perché aspettato dal suo signore (“segnorso”) o perché, stanco, vorrebbe andare a riposare (“mal volentier vegghia”, ossia a stento rimane sveglio).


pag. 427 – 432, vv 67 – 84
Qual sovra ‘l ventre, e qual sovra le spalle
l’un dell’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volentier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso
dell’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.

        La pelle è una delle parti del corpo più sensibili alle emozioni: impallidisce, arrossisce, suda, si accappona, ecc. Come tale, è spesso sede di sintomi di conversione. Essa segna i confini tra il mondo esterno ed il corpo, e racchiude il supporto materiale della nostra esistenza. È sede di contatti che possono essere amorevoli e valorizzanti, come le carezze della mamma, o il suo tocco delicato quando accudisce il proprio piccolo. In questo caso, attraverso tali stimoli (oltre che tramite altre impressioni sensoriali dello stesso genere) il soggetto si crea la sensazione di un buon rapporto con chi l’ha messo al mondo; rapporto legato all’importanza che può attribuire a sé stesso.
        Se le attenzioni materne sono carenti o inadeguate (per i limiti della genitrice, e/o per una particolare costituzione del bambino che ne rende difficili le cure), la pelle, anziché agente di un messaggio piacevole e valorizzante, diviene il luogo delle frustrazioni: con il suo bisogno insoddisfatto di stimoli affettuosi, diviene fastidiosa ed irritante; “grattandosi” è come se l’individuo cercasse di disfarsene. Il soggetto, trovandosi a disagio “nella propria pelle”, si sente come lasciato solo, con il compito di trovare, con la mente e non con il corpo, un qualche modo per valorizzare sé stesso. Il futuro falsario ricorre alla frode, presentando agli altri ed a sé stesso un’immagine ingannevole di sé, delle sue cose, delle sue attività; un’immagine apparentemente apprezzabile che, in realtà, non gli appartiene. Se la mente propria e quella altrui si possono ingannare, altrettanto non si può fare con il corpo, il quale continua ad avvertire lo stesso tormento originario, che si riacutizza in circostanze sfavorevoli.
        Siccome difficilmente le cure materne sono totalmente inadeguate, e difficilmente l’insoddisfazione dei bisogni corporei ed affettivi del piccolo è assoluta, al soggetto rimane di solito un margine di libera scelta: può adottare altre risorse per valorizzarsi, oppure può ricorrere alla frode. Ecco perché il falsario è almeno in parte responsabile del suo comportamento, e la sua colpa viene punita. Ecco anche perché il luogo della punizione (da parte della Giustizia divina, per il tramite della realtà) è il corpo, e in particolare la pelle: la parte del mondo reale che non è possibile disconoscere ed ingannare, e che sul falsario si “vendica”.

 

        Virgilio si rivolge ad uno dei dannati indicandolo come colui che si sta strappando pelle e carne (“dismaglie”, come chi disfa le maglie di un tessuto) e che talora usa le dita come fossero tenaglie. Augurandogli ironicamente (il “se” è augurativo) che le unghie gli bastino per un lavoro destinato a durare per l’eternità, gli chiede se fra i peccatori ci sia qualche Italiano (“latino”). Il dannato risponde che lui e il suo compagno sono d’origine italiana e chiede, a sua volta, a Virgilio chi egli sia. Il Poeta latino gli dice che Dante è vivo, ed egli lo sta conducendo a visitare l’Inferno “di balzo in balzo”. Profondamente meravigliati, i due spiriti si staccano l’uno dall’altro (si rompe il loro comune “rincalzo”) e, presi dallo sbigottimento e malfermi (“tremando”) si rivolgono a Dante.
        Virgilio, accostandosi interamente (“tutto s’accolse”) al suo discepolo, lo esorta a parlare. Il Poeta, seguendo l’esempio del Maestro, inizia il suo discorso con un augurio (anche qui il “se” è augurativo): auspica che sulla terra (“nel primo mondo” della vita, ossia il luogo dell’esistenza terrena) il ricordo di quegli spiriti non sparisca (“s’imboli”, ossia non s’involi) per molti anni (“molti soli”). Dopodiché Dante prega i dannati, se la loro pena non lo impedisce (“spaventi”), di dire chi siano e da quali genti provengano.


pag. 432 – 433, vv 85 – 108
“O tu che con le dita ti dismaglie,”
cominciò ‘l duca mio all’un di loro
“e che fai d’esse tal volta tanaglie,

dinne s’alcun latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro.”

“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue;” rispuose l’un piangendo
“ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”

E ‘l duca disse: “I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ‘nferno a lui intendo.”

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando   ciascuno a me si volse,
con altri che l’udiron di rimbalzo.

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: “Di’ a lor ciò che tu vuoli”
e io incominciai poscia ch’ei volse:

“Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo dell’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,

ditemi chi voi siete e di che genti:
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi.

         Il dannato interpellato non menziona il proprio nome, ma sappiamo che si tratta di Griffolino d’Arezzo, noto alchimista. Egli racconta come avvenne la propria morte: un certo Albero da Siena lo fece condannare al rogo. Così andarono le cose: un giorno, scherzando, Griffolino disse ad Albero d’essere capace di librarsi nell’aria. Quello, dotato di poco senno e incuriosito (“avea vaghezza”), gli chiese d’insegnargli l’arte di volare. Siccome Griffolino non soddisfece la sua richiesta (non lo fece “come Dedalo”), Albero, irritato, si rivolse al Vescovo suo protettore (o padre), e lo fece condannare come eretico. Tuttavia egli si trova nella bolgia dei falsari non per tale colpa, ma in quanto alchimista; Minosse, giudice infallibile, emesse la sentenza.


pag. 433 – 434, vv 109 – 120
“Io fui d’Arezzo, e Albero sa Siena,”
rispuose l’un “mi fe’ mettere al foco;
ma quel per c’io mori’ qui non mi mena.

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
‘I’ mi saprei levar per l’aere a volo;’
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.

Ma nell’ultima bolgia delle diece
me per l’alchimia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece.”

        Secondo alcuni commentatori, Albero s’irritò perché scoperse l’inganno. A chi scrive, sembra più accettabile un’altra interpretazione: Albero, dotato di “poco senno”, non aveva capito che Griffolino stava scherzando. Credendo che questi possedesse realmente l’arte di volare, aveva inteso la mancata soddisfazione della sua richiesta d’insegnargliela non come dovuta all’impossibilità materiale d’accontentarlo, ma come frutto di mancanza di riguardo nei suoi confronti. La realtà si vendica degli inganni del falsario Griffolino: i suoi raggiri facevano presa soprattutto sulla dabbenaggine delle proprie vittime; ma ora è proprio il “poco senno” di Albero che provoca la sua fine; e questo per un banale scherzo.
        Merita un’altra osservazione il peccato di Griffolino: l’alchimia. Quest’arte antichissima (nata in Egitto nel primo secolo dell’era cristiana) si prefiggeva soprattutto “lo scopo di trasformare i vili metalli in oro, o di trovare rimedi per prolungare la vita” (dal Dizionario Treccani). Si trattava, quindi, degli scopi più preziosi che l’essere umano possa immaginare: trasformare materie di scarso pregio in un elemento che possiede il massimo valore; inoltre offrire agli uomini quel che più desiderano: prolungare la vita. Riagganciandomi a quanto dicevo più sopra (la disperata ricerca di un proprio valore, dei falsari; ricerca che risale alla prima infanzia), possiamo vedere nell’alchimia un’arte che rispecchia l’operazione attuata con la fantasia nel loro mondo interno: trasformare “magicamente” dal nulla sé stessi, in quanto esseri privi di valore (della capacità di farsi amare), nelle persone apprezzate al massimo grado; oppure in persone in grado di produrre materie o prestazioni apprezzabili al massimo grado.

 

        Dante, rivolgendosi a Virgilio, commenta le parole di Griffolino aggiungendo che non solo Albero, ma tutti i Senesi sono gente vana. Non riesce a superarla, in tale mancanza di senno, neppure la gente francese (“francesca”) che pure, aggiunge ironicamente, sostiene d’essere tanto valente (“così d’assai”). Il compagno di Griffolino (“l’altro lebbroso”), sentendo pronunciare tale giudizio derisorio di Dante sui Senesi aggiunge, ironicamente, che fa eccezion (“tra’mene”) quel tale Stricca che amministrò così bene il suo patrimonio (“far le temperate spese), sottintendendo che fu amministratore tanto “bravo” che dilapidò i suoi averi. Con lo stesso tono ironico menziona Niccolò (dei Salimbeni), che introdusse in Siena la costosa usanza (“costuma”) del garofano, usato come condimento; inoltre Caccia d’Asciano, che sperperò le vigne e i boschi (“la gran fronda) che erano sue proprietà; e infine Abbagliato che frequentando la stessa brigata di scialacquatori di Caccia, dimostrò (“proferse”), col suo comportamento, [quanto poco fosse] il suo senno.


pag. 434 – 435, vv 121 – 132
E io dissi al poeta: “Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!”

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: “Tra’mene Stricca
che seppe far le temperate spese,

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoperse
nell’orto dove tal seme s’appicca;

e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fronda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.

        È comprensibile che questo dannato (che poco dopo rivelerà il suo nome: Capocchio) nutra rancore per i Senesi, che lo condannarono a morte. Tuttavia qui c’è anche la magra consolazione dei fraudolenti, nel momento in cui è innegabile il fallimento della loro intera esistenza: il poter vantare la propria superiore astuzia nei confronti delle persone di “poco senno” che avevano ingannato. Non si rendono conto che, così facendo (ossia disconoscendo la propria fondamentale fragilità ed il proprio disastro) stanno continuando ad ingannare soprattutto sé stessi.

 

        Capocchio ora rivela la propria identità. Allude ai propri passati rapporti con Dante: se anche questi l’ha riconosciuto, dovrebbe ricordare come lui, come alchimista, seppe abilmente falsare (“di natura buona scimia”) i metalli.


pag. 435, vv 133 – 139
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchimia:
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,

com’io fui di natura buona scimia.

         Capocchio oscilla tra l’amarezza ed il compiacimento, e questo non saper decidere se è giustificato l’uno o l’altro sentimento lo condanna ad una pena perpetua ancor più dolorosa: non può pentirsi per le proprie colpe, e neppure sfidare orgogliosamente la Giustizia divina; il suo tormento interiore non può trovare né l’una né l’altra soluzione; e con questa caratterizzazione del personaggio, si chiude il Canto.


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Canto XXX

        Dante ora assiste alla pena dei falsari della persona, costretti a correre e ad addentare con rabbia gli altri dannati. Per dare un’idea della scena che gli si presenta, egli cita due fatti mitologici (narrati da Ovidio). Il primo riguarda Atamante, re di Tebe. Giunone, invelenita contro la città a causa dell’amore di Giove con Semele, tebana, aveva dato sfogo alla sua gelosia facendone impazzire il re. Questi, stravolto, scambiò la moglie Ino e i due figli per una leonessa coi suoi cuccioli. Tese le reti, ed afferrato con mani spietate (“dispietati artigli”) uno dei due piccoli di nome Learco, lo scagliò contro un sasso. Ino, disperata, si gettò in mare con l’altro figlio (“l’altro carco”). L’altro episodio riguarda Ecuba, moglie di Priamo. Fatta prigioniera (“cattiva”) dagli Achei, aveva visto uccidere la figlia Polissena, sacrificata sulla tomba di Achille, ed aveva trovato sulla riva del mare il cadavere di un altro figlio, Polidoro. Sconvolta (“la mente torta”) dal dolore, espresse la sua disperazione e la sua rabbia “latrando” come un cane.


pag. 437 – 438, vv. 1 – 21
Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ‘l sangue tebano,
come mostrò una e altra fiata,

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,

gridò “Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e’ leoncini al varco;”
e poi distese i dispietati artigli,

prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco.

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ‘nsieme col regno il re fu casso,

Ecuba triste, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva

del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fe’ la mente torta.

        Con queste citazioni mitologiche, Dante illustra già anticipatamente le passioni che agitano i falsari della persona. Rabbia e disperazione sconvolgono i più intimi rapporti tra familiari, disumanizzano gli individui, provocano in loro l’irruzione di pulsioni sadico-orali animalesche. Due figure femminili-materne sono al centro delle vicende: Giunone che, presa da cieco furore, rende cieco e feroce contro i familiari Atamante; egli, “colpevole” soltanto per essere legato da una comunanza di sangue a Semele, di cui la dea era gelosa, è reso realmente colpevole dei più atroci delitti. Ecuba è talmente sopraffatta dal dolore da non riuscire più ad esprimere in modo umano la sua disperazione: “latra” come un cane.
        La madre-puerpera affettuosa ed empatica, con le cure che prodiga al proprio piccolo, rende progressivamente umano un essere primitivo, dominato dagli istinti. Qui succede l’opposto: la dea Giunone (madre) sopprime ogni forma di umanità in un essere mortale in suo potere (figlio) e lo rende feroce oltre ogni limite. Qui l’empatia umana è sopraffatta dalla cecità delle pulsioni aggressive animalesche. Ecuba è resa lei stessa animalesca dalla rabbia e dalla disperazione.
        Come vedremo, i falsari della persona, per non esprimere troppo palesemente la loro natura ferina, offrono agli altri, di sé, una falsa immagine ed una falsa identità. Tuttavia la loro avidità incontrollata, mascherata e appagata con l’inganno, non sfugge alla Giustizia divina: la realtà, in occasione delle sconfitte prodotte dalla loro stessa cecità, si “vendica” spogliandoli dei loro artifizi e rendendo evidente quel che effettivamente sono. 

 

        Dante dichiara che neppure nelle vicende delle “furie” tebane, né in quelle di Troia, si videro anime tanto feroci (“crude”) da spingersi ad atti atroci (“pungere”) contro bestie o uomini come quelli cui sta assistendo. Allude a due ombre che corrono azzannando altri peccatori, allo stesso modo del porco che si precipita fuori dal porcile, avido di addentare chiunque gli si pari davanti.


pag. 438, vv. 22 – 27
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mai in alcun tanto crude,
non punger bestie, non che membra umane,

quant’io vidi due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ‘l porco quando del porcil si schiude.

        Le furie vendicatrici sono figure materne persecutorie. Anche qui Dante associa lo stravolgimento dei rapporti familiari più intimi alla disumanizzazione e all’emergere di una ferocia animalesca.

 

        Uno dei due spiriti, giunto alle spalle di Capocchio, lo azzanna alla nuca (“sul nodo del collo”) e lo trascina via, col ventre sul fondo della bolgia. Griffolino (“l’Aretin”), tremando per la paura, dichiara che chi ha compiuto l’atto spaventoso è uno spirito trasvolante per l’aria (“folletto”) dal nome Gianni Schicchi. Dante, augurando a Griffolino (“se” augurativo) che l’altra delle due anime non gli affondi nella carne i suoi denti, lo prega di rivelargli chi questa sia. Il dannato gli spiega che si tratta di Mirra. Costei, presa da un insano desiderio per il padre, assunse le sembianze di un’altra donna per potersi congiungere carnalmente (“fuor del dritto amore”) col genitore. Analogamente, l’altro spirito che si sta allontanando (Gianni Schicchi) contraffece l’aspetto e la voce di Buoso Donati (in realtà già morto) per dettare un testamento a suo favore, ottenendo così la più bella mula del branco (“la donna della torma) appartenuto al defunto.


pag. 438 – 439, vv. 28 – 45
L’una giunse a Capocchio, ed in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.

E l’Aretin, che rimase, tremando,
mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando.”

“Oh!” diss’io lui, “se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è pria che di qui si spicchi.”

Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica.

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,

per guadagnar la donna della torma,
falsificando in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma.”

        Un’avidità incontrollabile domina il comportamento di questi dannati, Essi pongono la ricerca del loro appagamento pulsionale non solo al di fuori del loro stesso controllo, ma anche di quello altrui, attraverso gli inganni con cui aggirano ogni ostacolo. Gianni Schicchi ottiene l’agognato possesso dei beni di Buoso Donati a dispetto della volontà di quest’ultimo, che nel suo testamento lo avrebbe escluso. Mirra, poiché non si accontenta del solo affetto paterno (o forse proprio perché tale affetto le è mancato) vuole possedere il genitore non solo come figlia, ma anche come donna.
        È l’avidità che produce perpetua insoddisfazione, oppure è la frustrazione che rende l’individuo insaziabile? Come si vedrà anche più avanti, Dante sembra tener conto di entrambe le possibilità. Riscontriamo l’’una e l’altra delle possibili cause nella realtà clinica, in quanto si produce un circolo vizioso. Resta fermo che, qualunque sia stata la motivazione di scelte sbagliate, la realtà (per Dante la Giustizia divina) le punisce inesorabilmente.

 

        Passati i due rabbiosi, Dante vede uno spirito il cui aspetto gli ricorda un liuto (“leuto”). Sarebbe stato del tutto simile allo strumento musicale se solo (“pur che”) il suo corpo fosse stato separato (“tronco”) dalle zone in cui esso si biforca in cosce e gambe, ossia dall’inguine (“anguinaia”) in giù. Il dannato presenta un versamento ascitico (che, ai tempi di Dante, era chiamato idropisia: “idropesì”). Tale patologia, in cui l’umore corrompe (“l’omor che mal converte”) le membra, le disagguaglia (“dispaia”), cosicché il viso scarno appare in contrasto con il rigonfiamento del ventre (“ventraia”). Il dannato tiene le labbra aperte per la sete, come fa il tisico (“l’etico”).


pag. 444, vv. 49 – 57
Io vidi un, fatto a guisa di leuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca dall’altro che l’uomo ha forcuto.

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ‘l viso non risponde alla ventraia,

faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso il mento e l’altro in su riverte.

        Come poco dopo dirà lui stesso, si tratta del falsario della moneta Adamo da Brescia (o da Brest). Per contrappasso, come egli falsificò il fiorino “corrompendolo”, ossia aggiungendo metalli vili all’oro puro, ora sono le sue membra ad essere corrotte dal versamento ascitico.
        Il medico potrebbe vedere, in malati simili all’Adamo dantesco, un “contrappasso” del tutto naturale. Il versamento ascitico è spesso prodotto da una cirrosi epatica conseguente ad intossicazione alcolica cronica. Non c’è, nell’alcolista, la tendenza a “corrompere” la naturale alimentazione, introducendo nell’organismo quantità eccessive di sostanze che andrebbero assunte con moderazione?

 

        Ora “l’uomo-liuto” fa sentire la sua voce, Egli si rivolge ai due Poeti, che senza scontare alcuna pena se ne stanno nella bolgia, richiamando la loro attenzione (“attendete”) sulla sua miseria. Si presenta come maestro Adamo, che in vita ebbe molto di quel che voleva, ed ora desidera invano anche solo “un gocciol d’acqua”. Egli rievoca i ruscelli freschi e limpidi (“freddi e molli”) del Casentino. La sua nostalgia non è senza un perché (“non indarno”) dato che la Giustizia divina vuole che l’immagine dei corsi d’acqua accentui la sua pena rendendo, per contrasto, ancor più viva la sensazione di prosciugarsi ed assottigliarsi (“mi discarno”). Tale Giustizia lo castiga in profondità, nell’intimo del suo peccato (“mi fruga”) facendolo sospirare al ricordo dei luoghi in cui commise i suoi misfatti. In questi si trova il castello di Romena dove, su istigazione dei conti Guidi, egli falsificò i fiorini, cioè le monete che portano l’immagine di San Giovanni Battista, reato per cui fu condannato al rogo.


pag. 444 – 445, vv. 58 – 75
“O voi che sanz’alcuna pena sete,
e non so io perché, nel mondo gramo,”
diss’elli a noi “guardate e attendete

alla miseria del maestro Adamo:
io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.

Li ruscelletti che de’ verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che l’male ond’io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dove falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo su arso lasciai.

        L’attuale miseria del maestro Adamo contrasta con la ricchezza che, con mezzi illeciti, si procurò in vita. Il passato soddisfacimento di desideri smisurati è l’opposto della voglia, che ora lo tormenta, anche di una sola goccia d’acqua. Avendo cercato con la frode un appagamento infinito, la realtà si vendica per essere stata manipolata illecitamente ed ingannata, privandolo persino del minimo necessario per sopravvivere, come l’acqua. Ora, però, il maestro Adamo è consapevole di ciò cui, per le sue pretese eccessive, ha finito per rinunciare: non sono le grandi ricchezze che rimpiange, ma le acque fresche e limpide dei ruscelli del Casentino. La Giustizia divina, per punirlo, ha “frugato” nel suo intimo cogliendovi la frustrazione (imposta dall’esterno? Auto-provocata?) di un soddisfacimento orale di vitale importanza. Possiamo immaginare che si tratti dell’originaria rinuncia al latte materno a favore della presunzione di poter divorare l’intera mammella.

 

        Avendo accennato al castello di Romena presso cui, per conto dei Guidi, svolse il mestiere di falsario, nel maestro Adamo irrompono desideri di vendetta. Rinuncerebbe persino all’acqua della Fonte Branda, pur di vedere puniti i fratelli Guidi (Guido, Alessandro, e Aghinolfo) che lo indussero a praticare l’attività fraudolenta. Le ombre “arrabbiate” l’hanno informato che uno dei fratelli è già arrivato nella bolgia; ma ciò, essendo impossibilitato a muoversi, non gli serve. Se solo potesse avanzare di un pollice (“un’oncia”) ogni cent’anni, si sarebbe già messo in cammino per raggiungere il luogo del supplizio del Guidi; e questo sebbene il circuito della bolgia sia lungo (“volge”) ventidue miglia e largo (“di traverso”) mezzo miglio. Per colpa di tali nobili, che lo indussero a produrre falsi fiorini con tre carati di vile metallo (“mondiglia”), Adamo si trova ora a far parte della loro stessa “famiglia”.


pag. 445 – 446, vv. 76 – 90
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Brada non darei la vista.

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi cal, c’ho le membra legate?

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.

Io son per lor tra sì fatta famiglia:
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia.”

        La violenza del desiderio di vendetta spazza via il sentimento di colpa legato alla confessione cui Adamo stava accennando; prende il posto della nostalgia, e persino del tormento della sete. La permalosità e la litigiosità vendicativa, legate alla forma primitiva di narcisismo cui questo personaggio è fissato, non gli consentono di vedere altra colpa che non sia quella altrui. Qui, però, non è escluso un elemento di verità: deve aver avuto la sua parte, nell’indurlo ad attività fraudolenta, l’istigazione a delinquere da parte di aristocratici vissuti come “autorevoli”; e questo su di un essere emotivamente fragile come lui. Cercando di ricostruire la radice antica di tale debolezza, viene in mente l’oggetto seduttivo e frustrante (“tantalizing”) descritto da Fairbairn. Oggetto interiorizzato che, però, trae la sua origine dalla madre reale.
        Discutendo quanto sia da attribuire, nell’origine antica del comportamento di questi fraudolenti, alla frustrazione ad opera della madre o all’avidità del piccolo, occorre non dimenticare che, in questa fase remota, non esistono responsabilità individuali: genitrice e bambino costituiscono un’unità simbiotica inscindibile; nessuno dei due può esistere in assenza dell’altro – Si tratta della continuazione della vita intrauterina in cui fattori epigenetici, provenienti dalla porzione materna della placenta, influiscono sull’espressività del patrimonio genetico del figlio, “silenziando” alcuni geni, ed attivandone altri; la natura del piccolo ne viene così plasmata – Di conseguenza, i comportamenti sbagliati e patogeni è a tale unità che vanno attribuiti, e non alla sola madre o al solo bambino considerati singolarmente. Ci dispiace ammetterlo ma, in questo caso, le colpe dei genitori ricadono sui figli. Finora, quella che per Dante è “Giustizia divina” e per noi il regolamento di conti imposto dalla realtà, coincidono. Tuttavia, in casi di questo genere, dobbiamo pensare solo ad un’innegabile realtà che “non fa sconti”, anziché ad un Dio implacabile, che punisce anche chi non ha facoltà di decidere.

 

        Dante ora chiede al maestro Adamo chi sono i due “tapini” da cui emana vapore (“fumman”) come mani bagnate d’inverno (“‘l verno”) e che giacciono, stretti l’uno all’altro, alla sua destra. Il dannato idropico risponde che trovò questi spiriti arrivando nella bolgia (“in questo greppo”) e che da allora non si sono più rivoltati (“volta non dierno”), tanto da fargli credere che non si rivolteranno mai più. Della prima anima dice soltanto che si tratta della donna “falsa” che calunniò il personaggio biblico Giuseppe; l’altro spirito “falso” (mentitore) è Sinone, l’acheo che compare nella guerra di Troia. Da essi, febbricitanti, emana un’esalazione fetida (“leppo”)


pag. 446, vv. 91 – 99
E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ‘l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”

“Qui li trovai, e poi volta non dierno,”
rispuose “quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.

L’una è la falsa ch’accusò Giuseppo;
l’altr’è il falso Sinòn greco da Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo.”

        Uno degli spiriti (Sinone) si offende (“si recò a noia”) forse per essere stato nominato in modo disonorevole (“sì oscuro”). Irritato colpisce col pugno la pancia sconcia e dura (“epa croia”) del maestro Adamo; questa risuona come un tamburo. L’idropico, a sua volta, percuote il volto dell’altro in modo non meno violento, dicendogli che, benché immobilizzato nel resto del corpo, il suo braccio rimane libero di colpire (“a tal mestiere sciolto”)


pag. 447, vv. 100 – 108
E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto.

        A dispetto del modo raffinato con cui questi falsari ordirono i loro inganni, ora, dannati (sconfitti dalla realtà), rivelano il carattere volgare ed ottusamente pervicace della loro natura. Basta un nonnulla perché passino a vie di fatto. Anche nel lungo scambio di offese che seguono emerge la loro indole violenta, permalosa e primitiva.

 

        Segue un lungo scambio di espressioni offensive, in cui ciascuno dei due cerca di colpire l’altro nel suo punto più dolente. A quanto detto da Adamo riguardo alla libertà del suo braccio, Sinone risponde che non era altrettanto svelto (“presto”) quando andava al rogo. Falsificando le monete sì che era svincolato. Al che Adamo risponde che ora Sinone dice il vero, ma non era altrettanto sincero quando ingannava i Troiani. Sinone replica che per un suo singolo sbaglio, Adamo ne commise innumerevoli, quante furono le monete falsificate, e più di quanto avrebbe fatto un altro spirito maligno (“altro demonio”). L’avversario ricorda di nuovo a Sinone come, sulla questione del cavallo di Troia, fu spergiuro, e di questo motivo d’infamia tutto il mondo deve sapere. Sinone replica augurando ad Adamo che motivi d’infamia siano per lui la sete che gli fa scoppiare (“ti criepa”) la lingua, e l’“acqua marcia” che gli fa gonfiare il ventre al punto che gli si para davanti agli occhi (“t’assiepa”). L’idropico gli risponde che, allo stesso modo, l’arsura della febbre “squarcia” all’altro la bocca, gli fa dolere il capo, e provoca anche in lui una sete per cui non ci vorrebbero molte parole per convincerlo a leccare lo specchio d’acqua di Narciso. A questo punto, il racconto del lungo scambio d’invettive s’interrompe, perché succede qualcosa che sconvolge il Poeta.


pag. 447 – 448, vv. 109 – 129
Ond’ei rispuose: “Quando tu andavi
al fuoco, non l’avevi tu così presto:
ma sì e più l’avei quando coniavi.”

E l’idropico: “Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ‘ve del ver fosti a Troia richiesto.”

“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio;”
disse Sinone “e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun demonio!”

“Ricorditi, spergiuro, del cavallo;”
rispuose quel ch’avea infiata l’epa
“e sieti reo che tutto il mondo sallo!”

“E te sia rea la sete onde ti crepa”
disse ‘l greco “la lingua, e l’acqua marcia
che ‘l ventre innanzi li occhi sì t’assiepa!”

Allora il monetier: “Così ti squarcia
la bocca tua per tuo mal come sòle;
chè s’i’ ho sete ed umor mi rinfaccia,

tu hai l’arsura e ‘l capo che ti dole;
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ‘nvitar molte parole.”

        La permalosità e la pervicacia di queste anime scatenano facilmente in loro l’odio; e l’odio le rende ottuse: basterebbe un minimo di capacità critiche per comprendere che, accusando l’altro di colpe che potrebbero riconoscere, pressoché identiche, in loro stessi, offrono all’avversario la possibilità di rispondere rendendo loro “pan per focaccia”. Infatti, ogni offesa rimbalza puntualmente, per bocca dell’altro, su chi ne è stato l’autore. Avendo impiegato tutto il loro ingegno nelle loro attività fraudolente, non sanno utilizzarlo neppure per soddisfare queste minime esigenze d’auto-difesa. Il racconto di Dante di questa interminabile rissa verbale s’arresta, lasciando intendere che essa proseguirà per chissà quanto. Se egli vi si è soffermato a lungo, è perché la sua attenzione è come stata “rapita” da tale scena.

 

         Bruscamente l’attenzione di Dante è distolta da questo spettacolo increscioso per le adirate parole di rimprovero di Virgilio, che lo colpiscono come un fulmine. Il suo Maestro gli dice, con aspra ironia, di continuare pure ad osservare i due litiganti: mancava poco e Virgilio stesso avrebbe dato inizio ad una rissa col suo allievo. A tale ammonimento del Poeta latino, Dante risponde con una vergogna talmente intensa da lasciarlo senza parole. Si paragona a colui che, avendo subìto un danno (“dannaggio”) nella realtà, vorrebbe fuggire nel mondo dei sogni; però, pur desiderando soltanto di rifugiarvisi, finisce per rappresentarsi l’evento spiacevole nella sua esperienza onirica, e trasferire il desiderio di sogno sul danno stesso; danno reale (“quel ch’è”), ma visto in una dimensione dove è come se non esistesse (“come non fosse”).

 

        Anche Dante, come quel sognatore, si rifugia nel suo mondo interno, dove la ferita narcisistica inferta da Virgilio viene tradotta in sentimenti di vergogna e rincrescimento; tali stati d’animo, pur senza parole, vengono involontariamente comunicati al suo Maestro.


pag. 448 – 449, vv. 130 – 141
Ad ascoltarli er’io del tutto fisso
quando ‘l maestro mi disse: “Or pur mira!
che per poco che teco non mi risso.”

Quand’io senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì quel ch’è, come non fosse, agogna,

tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disiava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.

        Il rimprovero di Virgilio a Dante, che si è come immerso nella scena di un volgare litigio, suscita nel Poeta un’intensa vergogna. Dante, qui, non sembra immune dal piacere perverso (piuttosto diffuso) d’assistere a una rissa. Proiettandosi nei litiganti è probabile che lo spettatore goda “per procura” del piacere d’abbandonarsi a comportamenti rozzi e violenti; piacere che, normalmente, non concede a sé stesso in prima persona. Ammonendolo, Virgilio riporta Dante alla sua realtà: non è degno di un uomo come lui godere di un simile piacere; ne va della dignità e del rispetto per sé di un essere evoluto: un Poeta, autore come lui di opere tanto importanti.
        Nonostante l’esperienza e l’opera di Kohut, continuiamo ad attribuire alla parola “narcisismo” il significato di un atteggiamento affettivo patologico; oppure, peggio, lo intendiamo come un insulto. Narcisismo vuol dire semplicemente amore per la propria persona. Ora, se è vero che qualcuno ama sé stesso in un modo primitivo o malato – un amore per sé che si traduce in un gretto egoismo, o egocentrismo, o egoteismo – è altrettanto vero che esiste un modo maturo di amarsi, che si traduce in sentimenti di rispetto di sé, di autostima realisticamente fondata, di sicurezza di sé sulla base della propria effettiva esperienza e competenza, di dignità. Non si vede perché dobbiamo attribuire a tali sentimenti maturi e positivi nomi diversi dal “narcisismo” (amore per sé) sano ed evoluto. Adottare quest’ultima terminologia significherebbe evitare di pensare o far pensare che amare sé stessi debba essere necessariamente una malattia o una colpa. Pur usando un altro vocabolario, il Virgilio dantesco dimostra d’aver ben presente l’importanza di un narcisismo (amore per sé) maturo, proprio di chi ha motivo di difendere la propria dignità e l’immagine che si crea di sé stesso.       
        Altri temi importanti toccati in questi versi sono il sogno e la comunicazione non verbale. Il mondo dei sogni è un rifugio dalle durezze della vita reale, ma è anche il luogo dell’elaborazione immaginativa che rende accettabili, e persino desiderabili, i vari aspetti del mondo esterno. Essi vengono resi innocui perché trattati in una dimensione in cui “quel che c’è” è “come se non ci fosse”. Il modo in cui viene elaborata interiormente da Dante l’esperienza per lui vergognosa informa il suo atteggiamento; egli, perciò comunica a Virgilio, senza ricorrere a parole, il proprio rincrescimento.

 

        Dopo la breve parentesi, Virgilio ritorna la persona comprensiva ed affettuosa di sempre. Ha compreso i sentimenti di vergogna e di rammarico di Dante. Gli dice che sentimenti dello stesso genere, ma di minore intensità, basterebbero a rendere perdonabili difetti molto più gravi del suo. Pur invitando il Poeta a liberarsi dalla tristezza, ribadisce, in forma più raddolcita, il suo ammonimento di prima. Raccomanda a Dante d’immaginarlo sempre al suo fianco, in modo che possa continuare a ricordargli che, se gli capitasse ancora d’assistere ad un simile litigio (“piato”), sarebbe “bassa voglia” quella d’ascoltare tali volgarità; e con queste parole del Maestro di Dante si chiude l’ultimo canto dedicato alle Malebolge.


pag. 449, vv. 142 – 148
Maggior difetto men vergogna lava”
disse ‘l maestro “che il tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava:

e fa ragion ch’io sempre ti sia a lato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato;

ché voler ciò udire è bassa voglia.

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