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Politiche psichiatriche eugenetiche ed eutanasiche nella Germania del XX° secolo fra le due guerre mondiali (1)

1 Giu 24

A cura di Luigi Benevelli

Terminata la Prima Guerra Mondiale nel 1918, la Germania fu governata dalla Repubblica di Weimar fino al 1933, anno in cui prese il potere il regime hitleriano che durò fino al 1945.

Hitler, ossessionato dall’eugenetica e dalla repulsione per malati mentali, parlava dei disabili come di un “elemento estraneo” al corpo razziale dello Stato e invocava la necessità di ripulire la razza tedesca da soggetti definiti “subumani”. Di qui un complesso di politiche di prevenzione e repressione in cui rientrarono le leggi specificamente anti-ebraiche adottate nel 1935 a Norimberga.

Al suo insediamento nel 1933, Hitler diede avvio alla legge per la prevenzione delle malattie ereditarie per la difesa della “razza tedesca” contenente norme che prevedevano la sterilizzazione obbligatoria delle persone ritenute di danno all’integrità della razza, in particolare portatori di handicap, disabili, pazienti psichiatrici1.

La violazione delle norme sulla registrazione obbligatoria era punita con multe. Dal 1933  furono operative oltre 200 “Corti per la salute ereditaria” che fra 1933 e 1939 disposero la sterilizzazione coatta di decine di migliaia di persone. Era possibile fare ricorso contro la sterilizzazione , ma senza grandi speranze di successo: nel 1934, primo anno di entrata in vigore della legge, circa 4.000 persone presentarono ricorsi amministrativi contro le decisioni delle autorità responsabili per la sterilizzazione e ben 3.559 ricorsi furono respinti.

La legge fu accompagnata da una intensa azione di promozione e propaganda: furono fatti circolare opuscoli, poster e film in cui si evidenziavano i costi del mantenimento dei malati inguaribili, e si chiedeva che il denaro “sprecato” fosse destinato invece al popolo tedesco “sano”. A scuola agli alunni era proposto di risolvere problemi di aritmetica riguardanti i costi del mantenimento di malati di mente e dei disabili a carico dello Stato e della collettività. La sterilizzazione con finalità eugenetica dei pazienti psichiatrici e disabili ebbe ufficialmente termine nel 1939 quando al suo posto Hitler dispose l’organizzazione di una campagna per la soppressione dei pazienti psichiatrici e dei disabili psichici ritenuti incurabili e presenti in tutti i territori amministrati dal Terzo Reich: Aktion T4, questo era il nome dato alla campagna, avviata da un ordine segreto, con una semplice lettera su un foglio senza intestazione ufficiale, datata 1 settembre 1939, giorno di inizio della seconda guerra mondiale:

Il segretario di Stato del Reich Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto loro responsabilità, di estendere a medici da nominare, l’autorizzazione a concedere nei loro ospedali una morte misericordiosa a quei malati che a detta di ogni umano giudizio e dopo valutazione critica del loro stato di malattia risultano incurabili.”

Il contenuto della lettera aveva forza di legge.

Eutanasia” nel codice burocratico della Cancelleria del Reich, dell’organizzazione delle SS e dei medici che attivamente collaborarono, indicava il “trattamento” scelto per la soppressione di vite definite indegne di essere vissute (lebensunwert) e giudicate troppo onerose per lo Stato. Il criterio della “incurabilità”, molto generale e generico, consentiva ampia discrezionalità nella scelta delle persone da sottoporre ad “eutanasia”.

Il programma di “eutanasia forzataAktion T4 prese il via nell’ottobre 1939 seguendo un piano sistematico e segreto di eliminazione di persone “indegne di vivere”: malati fisici e mentali, adulti o bambini disabili, tutti considerati inutili zavorre per la società, e come tali eliminabili. Il progetto prese il nome dall’indirizzo della villa berlinese di Tiergartenstraße 4, sede del suo coordinamento. I malati venivano trasferiti dagli istituti in cui erano ricoverati in 6 ospedali, che erano stati predisposti e adibiti a centri di sterminio: Grafeneck, Brandeburgo, Bernburg, Hartheim, Sonnenstein, Hadamar. Qui le uccisioni avvennero prima con iniezioni letali, poi in camere a gas, quelle che saranno usate su “scala industriale” nei campi per lo sterminio di ebrei, sinti, rom, omosessuali. Il trasferimento dei congiunti alle nuove “cliniche” era inizialmente comunicato e giustificato ai parenti dei malati con la motivazione che si trattava di fruire di opportunità di nuove terapie mediche, mentre la causa della morte successiva alla soppressione era certificata come conseguenza di cause naturali o intervenute complicazioni.

Dall’inizio del T4 alla sua chiusura si stima che le vittime siano state tra le 70.000 e 80.000.

Vi furono proteste provenienti in particolare da ambienti religiosi e questo contribuì a porre ufficialmente fine ad Aktion T4 il 24 agosto 1941, ma l’uccisione dei pazienti psichiatrici e dei disabili proseguì fino alla fine della seconda guerra mondiale, con il programma 14f13, l’eliminazione dei prigionieri internati nei campi di sterminio e dei disabili psichici e dei pazienti psichiatrici ebrei accolti nelle istituzioni dei paesi occupati. Aktion T4 e 14f13 riguardarono quindi anche i pazienti psichiatrici del Sud-Tirolo e i pazienti ebrei accolti nei manicomi della Repubblica Sociale Italiana e delle 9 province italiane del Nord-Est annesse al Reich alla fine del 1943. Le vittime di questa seconda fase sono calcolate in più di 25/30.000.

Michael Burleigh, storico inglese dell’Europa nell’età moderna, ha ricostruito le vicende della psichiatria tedesca nella sua ricerca sui tratti profondi del Nazismo2.

Il cuore del suo studio riguarda le discussioni e i posizionamenti di medici, psichiatri, gestori di istituti, autorità religiose Luterane e Cattoliche circa i progetti per la “soppressione dolce” dei pazienti ricoverati nei manicomi tedeschi dopo la fine della prima guerra mondiale.

Quanto accadde nei territori amministrati dal Terzo Reich non può essere spiegato se ci si limita ai soli punti di osservazione della medicina psichiatrica e della storia della medicina.

Per tale ragione Burleigh colloca i professionisti nel più complessivo contesto politico in cui operavano, in particolare quando a loro fu chiesto di definire un “pool “ di vittime potenziali e, in alcuni casi, di partecipare alle loro castrazione, selezione e soppressione. Va tenuto conto al riguardo che matti e disabili prima, ebrei, omosessuali, sinti e rom poi non godevano di particolari considerazione e rispetto da gran parte del resto della popolazione. Si aggiunga che nella Germania uscita dalla Prima Guerra Mondiale, la psichiatria aveva la reputazione di essere una branca assai povera delle medicina, di scarsa efficacia, autorevolezza e valore scientifico. Un gran numero di pazienti psichiatrici era morto negli anni della guerra per fame, malattie, abbandono: a fronte di una percentuale di morti per anno in tempo di pace del 5,5%, è stato stimato che tra 1914 e 1918, 71.787 pazienti, ossia il 30% dei ricoverati sia morto a causa delle privazioni estreme subite.

Nel dopoguerra, le drammatiche condizioni dell’economia avevano portato ad ulteriore    decadenza le strutture dei manicomi, mentre i tagli economici colpirono tutto: farmaci, generi alimentari, lampade, sapone.

Nel corso degli anni ’30 la politica nazista verso i pazienti psichiatrici comportò restrizioni economiche e l’adozione di strategie di eugenetica negativa non dissimili, del resto, da quanto pensato e attuato in altri Stati. E molti professionisti della salute e psichiatri    si adeguarono alle scelte indicazioni del governo.

Burleigh parte dalle interrelazioni fra le misure economiche e i limiti delle riforme promosse dalla Repubblica di Weimar dopo la fine della prima guerra mondiale.

Nella Germania Guglielmina, quella che aveva preceduto la Repubblica di Weimar, la critica alla psichiatria era venuta prevalentemente dalla Destra che negava libertà e diritti alla persona con diagnosi psichiatriche, come nel caso di Adolf Stoecker (1865-1909) politico e teologo, antisemita, predicatore di Corte a Berlino. Nella Repubblica di Weimar, invece, un forte movimento riformatore, comprendente anche gruppi di pazienti, era passato all’attacco chiedendo più diritti per i pazienti, controlli efficaci su procedure e limitazione delle libertà.

In tale contesto gli psichiatri tedeschi furono sollecitati a pensare alla riforma    dell’assistenza.    In particolare, due di loro, Gustav Kolb e Herrmann Simon, da tempo chiedevano l’abbattimento delle mura fra gli asili    e la società, fra il mondo della malattia e quello del lavoro. Il governo di Weimar, ossessionato dal problema dei costi, rispose positivamente: i pazienti che erano in condizioni di svolgere un qualche lavoro furono dimessi in cliniche urbane per “esterni” o cliniche  psichiatriche sociali nelle aree rurali.   

Evidenti furono i vantaggi    economici di tali scelte: a Monaco nel 1924, le spese generali annuali per una di tali cliniche  erano risultate di 2000 reichsmark l’anno; mentre l’assistenza a un singolo paziente nel manicomio di Eglfing-Haar costava 1.227 reichsmark l’anno.

Nel dopoguerra il panorama della psichiatria fu poi parzialmente illuminato  dall’arrivo di una nuova gamma di terapie somatiche: coma insulinico, cardiazol ed ECT, tutte adottate in modo entusiastico.   I resoconti sul loro uso  spesso comprendevano “un prima e un dopo” nelle storie dei casi e testimonianze di persone che si sentivano miracolosamente liberate   da sofferenze e oppressioni.  Malgrado  gli incidenti con fratture ossee, perdita della memoria, lesioni spinali, si respirava un nuovo ottimismo e gli psichiatri poterono cominciare a pensare che sapevano e potevano curare le persone.

Ma i progressi terapeutici, dalla terapia occupazionale alle nuove terapie somatiche, avevano portato al costituirsi di sottogruppi di pazienti più marginalizzati che non ne avevano tratto e non ne traevano beneficio.

In particolare, la terapia occupazionale di Hermann Simon  (il lavoro delle/dei pazienti come terapia) aveva prodotto eccellenti risultati, aumentato l’autostima nei malati, combattuto  la depressione e l’eccitamento risultanti  dall’ozio passivo e da una lunga istituzionalizzazione. Rapidamente i manicomi  presero a pulsare  dell’attività dei pazienti, fu consentito di correlare la complessità e il valore delle prestazioni lavorative al grado di  libertà e responsabilità concessi. La terapia occupazionale  portava come conseguenza che sempre di più la ripresa dei pazienti potesse essere misurata secondo i parametri  della loro capacità di lavoro e produttiva.   In molti manicomi più dell’80% dei pazienti svolgeva una qualche  forma di lavoro, il che rese i manicomi stessi largamente autosufficienti e capaci di produrre anche modesti avanzi di gestione. Giudicando  dal fluire di articoli pubblicati sulle riviste professionali e dedicati all’assistenza di comunità e alla terapia occupazionale, si può affermare che la psichiatria cominciò a sentirsi più ottimistica.

Ma non tutti i pazienti erano capaci di arrotolare sigari,  tessere  cesti, consegnare messaggi o rispondere al telefono: rimaneva il problema delle persone non curabili o refrattarie alle innovazioni terapeutiche. Ogni manicomio, infatti, aveva un numero di “incurabili” che languivano nell’ozio e gruppi di pazienti “pericolosi”. L’adozione della terapia occupazionale comportò implicitamente quindi la separazione fra  idonei e non-idonei al trattamento  ergoterapico. In altri termini, tali innovazioni nelle cure   contribuirono a creare una nuova “sottospecie”  psichiatrica  entro una popolazione già confinata ai margini della società. Insomma, paradossalmente, i progressi nel trattamento dei casi acuti finirono coll’alimentare il sentimento di impotenza ed il disagio a fronte dei pazienti per cui non si poteva/sapeva fare nulla di efficace.

Ma emersero anche altri aspetti negativi: in particolare seguendo i pazienti dimessi, gli psichiatri incontrarono fuori dai manicomi aree di sofferenza e anormalità che prima non conoscevano per cui quello che avevano visto nei manicomi risultava essere solo la “punta dell’iceberg”. Ed essendo formati a pensare in termini di ereditarietà, cominciarono a costruire e studiare le genealogie delle famiglie dei pazienti registrando le devianze in banche dati: questo senza affrontare i problemi legati al peso dei fattori ambientali e socio-economici, per intervenire sui quali effettivamente i sanitari erano privi di poteri. Le dimensioni e le complessità delle situazioni evidenziate generarono pessimismo e questo fece accrescere la disponibilità a prendere in considerazione  soluzioni di tipo eugenetico, meglio se praticabili e radicali. E poiché l’esperienza insegnava che le persone che consideravano degenerate o  incapaci non avrebbero potuto essere efficacemente indotte  a bassi tassi di riproduzione, molti psichiatri cominciarono a pensare alla sterilizzazione coatta, che avrebbe consentito oltretutto di evitare il rischio di danni a carico della “nazione”. Tutto questo costituì nell’esercizio della medicina un cambio impressionante rispetto all’approccio centrato sul singolo individuo.

Nel 1920 era uscito in Germania un libro di K. Binding e A. Hoche che insegnavano, il primo, diritto penale all’Università di Lipsia e, il secondo, clinica psichiatrica all’Università di Friburgo3. Nel libro si affermava che la vita dei pazienti psicotici (schizofrenici) degenti in ospedale psichiatrico fosse una vita non degna di essere vissuta e si sollevava la domanda se la Nazione, a fronte di emergenze drammatiche, avrebbe dovuto farsi carico anche del mantenimento di “vite indegne di essere vissute”. Nel loro testo tenevano insieme    eutanasia “volontaria” e soppressione    non-consensuale    degli “idioti” e dei “malati mentali”, affermavano la relatività di termini quali “sacralità della persona umana” e    “pietà” (dove non c’era sofferenza non poteva esserci pietà) e sottolineavano l’insostenibilità del carico emotivo ed economico delle vite di persone completamente improduttive Due gli aspetti cruciali del loro pamphlet:

– i valori giudaico-cristiani ed umanitari e il rispetto dei diritti e dei valori dell’individuo erano accantonati per dare spazio ad altre preoccupazioni riguardanti il bene per una classe sociale, l’economia, la razza e la nazione;

– si proponeva alla discussione che si potesse giustificare il “sacrificio” di esistenze del tutto senza valore, ma anche negative”, a fronte anche del fatto che nell’emergenza della guerra si erano verificate circostanze in cui anche le persone sane facevano enormi sacrifici.

Ben prima che il governo nazional-socialista apparisse sulla scena, alcuni psichiatri proposero o approvarono quindi  l’uccisione di coloro che rappresentavano i limiti delle loro capacità di cura e un carico permanente per le risorse limitate dello Stato. E alla    direzione di reti ecclesiali di assistenza ci furono medici che argomentarono con    giustificazioni teologiche  a favore di tali  scelte sulla base della considerazione che il mantenimento in vita di tali esistenze avrebbe costituito un’interferenza nella volontà di Dio. Di qui il valore positivo dell’accelerazione della morte attraverso    l’”uccisione pietosa”.  Anche la drammatica fase della “Depressione” che scosse l’economia e la vita di milioni di persone e famiglie nel dopoguerra rinnovando il conflitto sulla divisione della ricchezza sociale, ripropose interrogativi    sull’utilità e il senso dell’assistenza psichiatrica.  Alcuni   psichiatri risposero alla richiesta di tagli alla spesa dello Stato proponendo un sistema a due livelli, uno destinato alle terapie intensive per i casi acuti ed uno, con dotazioni minime, per i cronici associato alla sterilizzazione  dei dimessi per ridurre il rischio di danno eugenetico. Per questo il 1933, anno della presa del potere hitleriano non segnò una rottura radicale, perché molte delle politiche psichiatriche del Terzo Reich furono almeno in parte in continuità con l’altra faccia dell’impianto delle culture della salute e del welfare della Repubblica di Weimar.

(continua)

Luigi Benevelli ( a cura di)

Mantova, 1 giugno 2024

1La sterilizzazione non riguardava le donne che avevano compiuto i 45 anni di età anche se affette da patologie trasmissibili per via ereditaria.

2Michael Burleigh, Ethics and extermination- reflections on Nazi genocide, Cambridge University Press, 1997; in particolare i capitoli 4 Psychiatry, German society and Nazi euthanasia, 4, pp. 113-129, e 5 The Churches, eugenics and the Nazi euthanasia programme, pp. 130- 141.

3 Karl Binding und Alfred Hoche, Die freigabe der vernichtung lebensunwertenlebens. Ihr mass und ihre form, Leipzig, 1920.

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