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Realismo, severità morale e rispettoso riserbo nel sonetto LXXII di Shakespeare

20 Ott 23

A cura di Sabino Nanni

Ci sono situazioni in cui la cosa migliore che può fare un terapeuta è tacere. Quando è chiaro che il paziente è già arrivato, per conto suo, a comprendere il carattere immorale di certi suoi sentimenti o comportamenti ed è disposto a porvi rimedio, è controproducente che il terapeuta lo renda evidente coi suoi interventi. Se il curante si è messo nei panni del malato, ha riconosciuto qualcosa di analogamente immorale in sé stesso, ed è bene che non lo renda esplicito: il suo silenzio smentisce sia l’ipocrita affermazione di una propria presunta superiorità morale, sia una troppo facile auto-assoluzione; in ogni caso, è espressione di rispetto per sé stesso. È bene che il terapeuta faccia altrettanto col suo paziente. Shakespeare, nel sonetto LXXII, offre al clinico il modello di come salvaguardare la dignità sia della persona colpevole che viene osservata, sia di chi la osserva.


LXXII
O lest the world should task you to recite,
What merit liv’d in me that you should love
After my death (dear love) forget me quite,
For you in me can nothing worthy prove.
Unless you would devise some virtuous lie,
To do more for me than mine own desert,
And hang more praise upon deceased I,
Than niggard truth would willingly impart:
O lest your true love may seem false in this,
That you for love speak well of me untrue,
My name be buried where my body is,
And live no more to shame nor me, nor you.
For I am sham’d by that which I bring forth,
And so should you, to love things nothing worth.

[Oh! Per il timore che il mondo t’imponga d’enumerare / i meriti che vivevano in me che tu ameresti / dopo la mia morte, mio dolce amore, dimenticami del tutto / perché non potresti più dimostrare che m’appartenga alcuna cosa degna. / A meno che tu non voglia escogitare qualche virtuosa bugia / che m’attribuisca di più del mio effettivo merito / ed elargisca a me defunto più lodi / di quante l’avara verità spontaneamente concederebbe. / Oh! Per il timore che il tuo sincero amore sembri menzognero / perché tu, per amore, parleresti di mie virtù mai esistite / piuttosto rimanga il mio nome sepolto là dove è il mio corpo / e non sopravviva per farne motivo di vergogna per me e per te. / Poiché mi fa vergogna ciò che esibisco / e pure per te dovrebbe farlo l’amare cose di nessun valore.]

 

Shakespeare, dopo aver spiegato nel Sonetto LXXI il motivo per cui non vuole apparire nei suoi scritti, qui esprime il desiderio che si parli poco (o non si parli affatto) di lui dopo la sua morte. Paradossalmente, così facendo, è lui che parla di sé stesso. Il giudizio che esprime su di sé è estremamente severo: l’essersi probabilmente reso conto di aspetti immorali della sua personalità (Tradotti in comportamenti? Solamene immaginati?) annulla, a suo avviso, il valore di ogni altro merito. Perciò chi parlasse di lui come persona amabile, secondo la sua opinione mentirebbe. Credo che ci sia, qui, un bisogno di coerenza: la sua straordinaria capacità di comprensione empatica gli ha permesso di evidenziare il “marcio” che c’è in fondo all’animo di ogni essere umano – “Use every man after his desert, and who should ‘scape whipping?” [“Tratta ciascuno secondo il suo merito, e chi dovrebbe salvarsi dalla frusta?”: così fa dire ad Amleto] – Egli, per questo motivo, non può usare due pesi e due misure giudicando gli altri e sé stesso. Come dirige la sua spietata indagine su personaggi immaginari (benché ideati sul modello di quelli reali), o su quelli esistiti in un remoto passato, risparmiando così i contemporanei, allo stesso modo concede un analogo, riguardoso riserbo a sé stesso. D’altra parte, la dignità dei suoi personaggi, a dispetto di quanto ne evidenzia, è sempre salvaguardata. Tacendone, dimostra il medesimo rispetto verso i propri simili del suo tempo e verso sé stesso. Ancora una volta, il suo narcisismo, essendo mortificato al massimo grado, trionfa dando prova, col silenzio, del suo alto grado di evoluzione.

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