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RECENSIONE di RITA CORSA al libro “IL CORPO CHE PARLA”

21 Apr 24

A cura di Pierpaolo Martucci

Recensione di Rita CORSA al libro di

Donald CAMPBELL e Ronny JAFFÈ
 (a cura di), Il corpo che parla

Editore: Mimesis, Milano
Anno:     2023
Pagine:  298
Costo:    € 28,00

(When the body speaks. A British-Italian dialogue, New York, Routledge, 2022)

        Nel corso della sua storia, la nostra disciplina è andata incontro a spinte eccessive all’intellettualizzazione, alla mentalizzazione e al totale primato della parola (Berti Ceroni, 2003), tendendo a relegare forzatamente il corpo (del paziente e, specialmente, quello dell’analista) in uno spazio incarnato il più possibile muto e astinente, quasi confinato in orbite tangenziali alla soggettività individuale e alla stessa esperienza relazionale bipersonale e di campo. Ma, nel frattempo, sono andate sviluppandosi teorie che, per dirla con Sartre, hanno sostenuto che «il corpo normalmente silenzioso, (…) non [passasse] più sotto silenzio» (1939). Si è approdati dunque al riconoscimento della centralità della dimensione somatica, che si esprime nella lingua antica, nata dalla primigenia registrazione sensoriale, e in seguito sviluppatasi nell’area simbolica, rappresentativa e astrattiva mediante continue spinte a colonizzare l’Altro e il mondo esterno.
Nella stanza d’analisi il corpo parla del suo primato originario, originale e concreto, che lo rende l’oggetto privilegiato della mente e connota la soggettività di ogni singolo individuo (Ferrari, 1992). Il corpo scopre la mente del paziente e dell’analista in ogni suo gesto, nelle sue forme, in ogni suo suono, nell’odore che emana, nella pressione che esercita, nello spazio che occupa: «il [nostro] è quindi un “corpo” vivente e vissuto, che dà origine alla psichicità come a una delle proprie funzioni che può essere garanzia di vita» (Ferrari, 2003, 63).
L’ascolto del «corpo vocalizzato» (Di Benedetto, 2000) apre la via alla conoscenza dei processi psichici immersi nel profondo dei funzionamenti fisiologici (Anzieu, 1985 e 1987; McDougall, 1989). La mente viene allora restituita al corpo nell’ascolto della trama infralinguistica che, iscritta nel tessuto verbale, permette di rintracciare i segni lasciati dal pittogramma originario e dai suoi fantasmi (Aulagnier, 1975 e 1979) e dalle cicatrici psichiche nel soma (Hautmann, 2003).
La parola, animata dalla sensorialità e dalla corporeità, può quindi rifondarsi e sopravvivere insatura, conservando non solo il suo valore semantico, ma contribuendo fortemente ad affermare una verità identitaria – fatta di tratti personologici e di teorie della mente (Corsa, 2015).
Veniamo adesso al volume che andiamo a recensire, Il corpo che parla, un’opera polifonica frutto del pluridecennale lavoro di gruppo tra alcuni psicoanalisti italiani con colleghi britannici, centrato sul tema del corpo nella stanza d’analisi, come accuratamente esposto nel contributo di Piovano.
Come ricordato nel suo capitolo da Thanopulos e dagli Autori (in particolare Rocchi, Piovano, Molinari, Berti Ceroni, Caparrotta e Campbell) che si sono più soffermati sugli aspetti teorici della complessissima materia delle connessioni tra la psiche e il soma, problematica di enorme portata euristica, a cui è riservata un altrettanto sterminata bibliografia psicoanalitica, già Freud si era interrogato a fondo sulla questione. Il corpo è, per Freud, l’area da cui si sviluppa l’Io: «L’Io è anzitutto un’entità corporea, non è soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie» (1922, 488). In questo citatissimo passo, Freud ci fa intendere che la forma più antica di autorappresentazione proviene dal corpo, attraverso gli stimoli propriocettivi e dalle sensazioni di piacere e di dolore. Nella nota apposta nel 1927 alla versione inglese de L’Io e l’Es (1922), egli infatti afferma che «(…) l’Io è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venir considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo, e inoltre, (…), il rappresentante degli elementi superficiali dell’apparato psichico» (1922, n.2, 488-489).
L’estensione della storica visione freudiana ha avvallato l’ipotesi che il Sé corporeo costituisca il contenitore e le fondamenta del senso di sé: nello sviluppo fisiologico il Sé corporeo e il Sé psicologico formano il senso di Sé (Aron, 1998). La base di Sé sta nel corpo, insegna Winnicott (1970), il corpo come substrato biologico sul quale si sviluppa la mente all’interno del sistema diadico madre/bambino (ma anche analista/analizzando). Gaddini, facendo suo il modello winnicottiano, propone il concetto – più che mai attuale in quest’epoca neuroscientista – di emersione della mente dal corpo, dove «la mente», così come il sistema nervoso, sembra «stare dovunque nel corpo» (Gaddini, 1981, 4). Le più recenti osservazioni della psicoanalisi intersoggettiva rimarcano l’indissolubile unità psiche-soma, che va inserita e si evolve in una dinamica di campo, «in cui sia l’io che il tu vengono esperiti (…) in entrambe le dimensioni: somatica e psichica, orientate vettorialmente dal desiderio o dal bisogno reciproco, attraverso legami affettivi e cognitivi» (De Toffoli, 2001, 468).
Detta con altre parole, stavolta attinte dal testo che qui stiamo esaminando, nel rapporto terapeutico «si può immaginare che (…) lo scambio verbale si svolga non nel vuoto, ma in un bagno di sensi e di emozioni» (Matthis, 2005, cit. da Berti Ceroni, 2023, 174). E io preciserei in “un campo relazionale di sensi e di emozioni”. La teoria di campo, anche se mai esplicitamente citata, appare tuttavia come substrato concettuale solidamente radicato specialmente negli scritti dei colleghi italiani, mentre negli analisti britannici sembra prevalere una matrice metapsicologica più ancorata alla tradizione classica freudiana o a quella kleiniana. Le coordinate che hanno definito l’operare degli Autori, come abbiamo visto latori di differenti configurazioni teoriche, possono invero essere individuate nella comune prospettiva relazionale dell’interazione corpo-mente, nella centralità della matrice corporea del sé, e nell’evidenza quasi empirica che lo stesso dialogo tra due inconsci sia ineludibilmente mediato dall’interazione tra due corpi.
In linea con la Spira, attenta agli insegnamenti bioniani che rilevano che la diade analitica deve poter sentire, vedere, odorare, toccare quello di cui stanno parlando, Jaffè sostiene che la stessa interpretazione «va quindi situata nel punto dell’io-corporeo pertinente e [che] una delle funzioni dell’analista è di andare (…) verso l’altrove del paziente», un altrove somatico, che può essere costituito da parti corporee scisse e frammentate (Jaffè, 2023, 64). Qui è imperativo il richiamo agli studi sui “frammenti corporei” di Gaddini (1980) e i successivi di Spira (1993) e quelli di Hautmann sulle “cicatrici corporee” (2003).
Questo è un libro che si vede, si sente, si ascolta, si tocca… un libro che odora, grazie non solo all’acume teorico ma, a mio avviso, soprattutto alla ricchissima, generosa e coraggiosa, componente clinica. Ogni contributo sviluppa del materiale terapeutico, di pazienti adulti (Thanopulos, Jaffè, Colazzo Hendriks e Rocchi, 2023), ma anche di bambini (Caparrotta e Piovano, 2023), di adolescenti (Roberts, 2023) e di giovanissimi adulti (Schächter, 2023), la cui storia è stata segnata da malattie del corpo più o meno serie o da situazioni in cui il corpo è divenuto l’area rappresentativa di odio e violenza, auto od eterolesivi (Campbell, 2023). O da condizioni nelle quali il corpo o la pelle che lo delimita comunicano al posto della psiche (Grieve, 2023).
L’analista non elude mai il confronto, celandosi dietro un eccesso di mente o di parole. Talvolta adopera audacemente il suo stesso corpo che, controtransferalmente, gli segnala cosa stia accadendo in seduta, in una fase in cui il pensiero non è ancora in grado di coglierne le dinamiche (controtransfert corporeo). A tal proposito, magistrali mi paiono i capitoli di Jaffè e di Colazzo Hendriks, dove l’elaborazione delle sensazioni corporee dell’analista hanno consentito di superare seri momenti di impasse dell’analisi. Jaffè esamina il caso di un ragazzo, che all’inizio dell’analisi ammorbava la stanza con un “afrore” corporeo assai pungente. In una seduta “illuminante”, direbbe Bion, di qualche anno dopo, quando ormai il cattivo odore era da tempo svanito, all’analista torna all’improvviso in mente la sua passata, sgradevole sensazione olfattiva, custodita nella sua memoria olfattiva. «L’odore dei sentimenti», come lo chiama Ferenczi (1932, 157), che si ripresenta con tale prepotenza che l’analista ha l’impressione di avvertirlo davvero. Non vi svelo i collegamenti che fa Jaffè e come adopera all’interno del campo relazionale questa peculiare memoria sensoriale. Lascio al lettore scoprire la spiegazione dei movimenti trasformativi che sono stati promossi da tale curioso evento.
Altrettanto esemplare è il contributo di Colazzo Hendriks, dal titolo Profumi. Nel suo saggio, l’Autrice disvela sin dalle prime righe una sua condizione personale: un antecedente, grave trauma cranico le aveva causato la perdita completa dell’olfatto. In una profumata giornata di maggio, il controtransfert attivato dal lavoro analitico con una giovane donna, affetta da tricotillomania, che descrive «il tripudio del piacere olfattivo» provato nell’acquisto di preziose essenze per aromatizzare la nuova casa, scatena un’«intollerabile sofferenza (in)sepolta dell’analista» (2023, 93). Anche qua non mi dilungo e non spiego l’evoluzione che ha avuto l’analisi successiva a tali esperienze controtransferali, che a un certo punto spingono l’analista a chiedersi: la paziente «aveva colto la mia invidia e nostalgia per tutto quel mondo odoroso?» (ibid., 100). A questo ardito quesito seguono rigorose scelte tecniche, che permettono alla collega di adoperare i suoi vissuti controtransferali a fini trasformativi del processo terapeutico.
Vado a concludere soffermandomi brevemente sul capitolo di Rocchi, corredato da un robusto apparato teorico a sostegno di un’esperienza clinica che l’ha messo a durissima prova. Durante la sua lunga analisi, una signora «è sopravvissuta» a tre cancri mammari, ma poco dopo la fine dell’analisi, la donna ha richiesto di nuovo l’intervento dell’analista per il manifestarsi di un carcinoma all’ovaio e all’utero. La terapia d’accompagnamento alla morte – una sorta di ortotanasia, esplorata nei suoi pionieristici studi psicoanalitici da Eissler (1955) e approfondita da Zapparoli e Segre nel loro volume Vivere e morire (1997) – elicita delle drammatiche reazioni controtransferali, talvolta di natura corporea (controtransfert corporeo). Rocchi cerca di delineare l’assetto mentale dell’analista posto di fronte alla malattia severa, che obbliga a misurarsi con il senso di caducità e con il limite ultimo. Come destreggiarsi con l’angoscia di morte, quando la fine diventa un fatto attuale e concreto?
Ecco, io credo che quando “il corpo parla” nella stanza d’analisi, sia esso sano sia esso malato, si va a pizzicare inevitabilmente la lacerante corda della finitezza. La mente può librarsi senza apparenti frontiere e soglie, ma il corpo, anche il più vigoroso, è modellato su profili ben demarcati. «Con tutti gli occhi la creatura vede l’aperto», recita Rilke nel primo verso della sua Ottava Elegia, che ha voluto chiamare “La silenziosa”. Rella commenta che, «dopo la gloria dell’essere qui della VII Elegia, prima del tripudio della nominazione della IX Elegia, o della scoperta della “felicità della caducità” che chiude la X Elegia», l’Ottava Elegia Duinese insinua «l’ombra della tristezza, della fragilità degli esseri, pur nel loro riscoperto destino di essere faccia a faccia con il mondo» (1994, 133).
«Questo si chiama destino: essere di fronte:/nient’altro che questo continuo esser di fronte» (Rilke, VIII Elegia). E il corpo, anche il corpo che parla nell’analisi, incarna l’avventuroso vascello umano che naviga verso l’ignoto.

 

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Rita CORSA
rita.corsa@spiweb.it

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