psicologica avviato sulla ml orizzonti-psy@googlegroups.com, 2003
Diego Napolitani, riferendosi al mestiere di psicoterapeuta, amava ripetere: “il nostro è un sapere dialogico, e non diagnostico”.
Parole che sono entrate dentro di me, suo allievo, ma che, per la loro radicalità, non mi paiono equiparabili ad un “ipse dixit”. Parole che contengono una verità, diciamo così, dimidiata e circoscritta a quel polo del nostro lavoro che va sotto il nome di “terapia”. Parole che pongono in opposizione quest’arte dialogica, con il procedimento diagnostico: una tekne contro l’altra o, il che è lo stesso, una tekne di fronte all’altra.
D’altro canto il sapere diagnostico, che – giustamente, a mio avviso – il vecchio ‘Nap’ distingueva dal sapere dialogico (ermeneutico), non può essere espunto dalla nostra pratica quotidiana, sia che noi operiamo nel pubblico che nel privato. E perciò anche il sapere diagnostico merita tutta la nostra attenzione.
L’elemento ricorrente, almeno all’interno della storia del mio gruppo di lavoro – elemento che mi ha spinto a promuovere questo gruppo di riflessione – è nel fatto che lo sforzo teso a comporre queste due arti e queste due parti del nostro lavoro – a porle, voglio dire, su di un piano di equilibrio- spesso si risolve in un fallimento.
Ancora una volta nelle settimane scorse mi è giunta notizia che a Reggio la Ausl, insieme all’università di Modena e Reggio, sta per finanziare una elefantiaca istanza di “secondo livello diagnostico” (che farà capo a Giacomo Stella) sui problemi dell’apprendimento proprio nel momento in cui il territorio viene sempre più sguarnito di istanze terapeutiche di base in grado poi di seguire i bambini e i ragazzi diagnosticati.
Il problema cioè non è espungere o meno il sapere diagnostico dal processo terapeutico, né tantomeno accontentarsi di avere a disposizione dei protocolli diagnostici ultra-precisi, ma trovare un punto di equilibrio e di interconnessione dinamica fra diagnosi e terapia.
Maccacaro, in uno scritto degli anni Settanta [1], sosteneva che la diagnosi, disgiunta dalla cura, rischia di ridursi a mera tautologia, poiché spesso si limita a dire in termini più pomposi ciò che già sappiamo (invece di dire “lei ha un raffreddore”, dire: “lei ha una rinite, con infiammazione alle vie aeree .. etc.”). Anche se una diagnosi differenziale che, di fronte alla presenza o all’assenza di una serie di sintomi, confermi che si tratta di rinite, e non di qualcosa di più grave, è importante prima di iniziare una cura. Coppi morì perché non avevano capito che aveva un attacco acuto di malaria: non erano stati in grado di fare una diagnosi differenziale corretta e di somministrargli il chinino.
Lo stesso Maccacaro, se non ricordo male, sosteneva che, a fianco ad una diagnosi medica fosse necessario fare sempre un inquadramento in termini sociali di ciò che il diagnosta aveva sotto gli occhi: e questo mi pare ancora più importante per noi psicoterapeuti.
E, d’altro canto, Pierfrancesco Galli ci invitava a prendere in considerazione che le basi dell’alleanza terapeutica si definiscono fin dal primo colloquio (e “Le parole del primo colloquio” di Gianpaolo Lai è lì a ricordarcelo) e che, almeno in ambito psicoanalitico, sia impossibile all’inizio distinguere nettamente fra diagnosi e terapia.
Cionondimeno ogni psicoterapeuta deve sapere di quale tipo di problematica è portatore il soggetto che ha fra le mani, se non altro per rispondere correttamente alle domande che deve farsi per decidere se prenderlo in carico o no. Domande che, secondo Foulkes, sono riconducibili da una parte al tentativo di comprendere fin dall’inizio se, di fronte a questo paziente, ci sono le basi per definire una buona alleanza terapeutica; dall’altra a quello di capire, altrettanto precocemente, se questo paziente io lo reggo. La prima devono porsela sia il paziente che il terapeuta, la seconda solo quest’ultimo.
Ciò implica una capacità diagnostica, cioè una capacità di ‘conoscere attraverso i sintomi’ che deve sposarsi con l’autoconsapevolezza dei propri limiti e delle proprie idiosincrasie (io, ad esempio, non sopporto gli ipercinetici!). Tutto il processo, in questo modo, diventa anche una continua opera di limatura e di ri\dimensionamento dinamico delle proprie parti megalomaniche.
Ultime due domande che mi pongo e che vi pongo: 1. tutto ciò ha una valenza anche per gli altri mestieri di cura che ci sono limitrofi (logopedista, educatore della riabilitazione, fisioterapista, etc.)? 2. Come si riconosce l’esistenza delle due condizioni di cui sopra quando si opera con i bambini, e cioè cercando di ragionare e di sentire attraverso il filtro del gioco, e non della parola?
Ultime due domande che, certo, non esauriscono l’ambito problematico all’interno del quale si confrontano sapere diagnostico e sapere dialogico.
Ciao,
Dino
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