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Sapere diagnostico e sapere dialogico

5 Ago 23

A cura di ct

Intervento all’interno di un gruppo di riflessione sulla clinica
psicologica avviato sulla ml orizzonti-psy@googlegroups.com, 2003

Diego Napolitani, riferendosi al mestiere di psicoterapeuta, amava ripetere: “il nostro è un sapere dialogico, e non diagnostico”.
Parole che sono entrate dentro di me, suo allievo, ma che, per la loro radicalità, non mi paiono equiparabili ad un “ipse dixit”. Parole che contengono una verità, diciamo così, dimidiata e circoscritta a quel polo del nostro lavoro che va sotto il nome di “terapia”. Parole che pongono in opposizione quest’arte dialogica, con il procedimento diagnostico: una tekne contro l’altra o, il che è lo stesso, una tekne di fronte all’altra.
D’altro canto il sapere diagnostico, che – giustamente, a mio avviso – il vecchio ‘Nap’ distingueva dal sapere dialogico (ermeneutico), non può essere espunto dalla nostra pratica quotidiana, sia che noi operiamo nel pubblico che nel privato. E perciò anche il sapere diagnostico merita tutta la nostra attenzione.
L’elemento ricorrente, almeno all’interno della storia del mio gruppo di lavoro – elemento che mi ha spinto a promuovere questo gruppo di riflessione – è nel fatto che lo sforzo teso a comporre queste due arti e queste due parti del nostro lavoro – a porle, voglio dire, su di un piano di equilibrio- spesso si risolve in un fallimento.
Ancora una volta nelle settimane scorse mi è giunta notizia che a Reggio la Ausl, insieme all’università di Modena e Reggio, sta per finanziare una elefantiaca istanza di “secondo livello diagnostico” (che farà capo a Giacomo Stella) sui problemi dell’apprendimento proprio nel momento in cui il territorio viene sempre più sguarnito di istanze terapeutiche di base in grado poi di seguire i bambini e i ragazzi diagnosticati.
Il problema cioè non è espungere o meno il sapere diagnostico dal processo terapeutico, né tantomeno accontentarsi di avere a disposizione dei protocolli diagnostici ultra-precisi, ma trovare un punto di equilibrio e di interconnessione dinamica fra diagnosi e terapia.
Maccacaro, in uno scritto degli anni Settanta [1], sosteneva che la diagnosi, disgiunta dalla cura, rischia di ridursi a mera tautologia, poiché spesso si limita a dire in termini più pomposi ciò che già sappiamo (invece di dire “lei ha un raffreddore”, dire: “lei ha una rinite, con infiammazione alle vie aeree .. etc.”). Anche se una diagnosi differenziale che, di fronte alla presenza o all’assenza di una serie di sintomi, confermi che si tratta di rinite, e non di qualcosa di più grave, è importante prima di iniziare una cura. Coppi morì perché non avevano capito che aveva un attacco acuto di malaria: non erano stati in grado di fare una diagnosi differenziale corretta e di somministrargli il chinino.
Lo stesso Maccacaro, se non ricordo male, sosteneva che, a fianco ad una diagnosi medica fosse necessario fare sempre un inquadramento in termini sociali di ciò che il diagnosta aveva sotto gli occhi: e questo mi pare ancora più importante per noi psicoterapeuti.
E, d’altro canto, Pierfrancesco Galli ci invitava a prendere in considerazione che le basi dell’alleanza terapeutica si definiscono fin dal primo colloquio (e “Le parole del primo colloquio” di Gianpaolo Lai è lì a ricordarcelo) e che, almeno in ambito psicoanalitico, sia impossibile all’inizio distinguere nettamente fra diagnosi e terapia.
Cionondimeno ogni psicoterapeuta deve sapere di quale tipo di problematica è portatore il soggetto che ha fra le mani, se non altro per rispondere correttamente alle domande che deve farsi per decidere se prenderlo in carico o no. Domande che, secondo Foulkes, sono riconducibili da una parte al tentativo di comprendere fin dall’inizio se, di fronte a questo paziente, ci sono le basi per definire una buona alleanza terapeutica; dall’altra a quello di capire, altrettanto precocemente, se questo paziente io lo reggo. La prima devono porsela sia il paziente che il terapeuta, la seconda solo quest’ultimo.
Ciò implica una capacità diagnostica, cioè una capacità di ‘conoscere attraverso i sintomi’ che deve sposarsi con l’autoconsapevolezza dei propri limiti e delle proprie idiosincrasie (io, ad esempio, non sopporto gli ipercinetici!). Tutto il processo, in questo modo, diventa anche una continua opera di limatura e di ri\dimensionamento dinamico delle proprie parti megalomaniche.
Ultime due domande che mi pongo e che vi pongo: 1. tutto ciò ha una valenza anche per gli altri mestieri di cura che ci sono limitrofi (logopedista, educatore della riabilitazione, fisioterapista, etc.)? 2. Come si riconosce l’esistenza delle due condizioni di cui sopra quando si opera con i bambini, e cioè cercando di ragionare e di sentire attraverso il filtro del gioco, e non della parola?
Ultime due domande che, certo, non esauriscono l’ambito problematico all’interno del quale si confrontano sapere diagnostico e sapere dialogico.
Ciao,
Dino


[1] Da: G.A. Maccacaro “L’uso di classe della medicina” – Quaderni del Centro culturale San Carlo di Modena, Ottobre 1972 – “Io ho sentito un collega dire ai parenti di un’ammalata, che aveva una “febbre criptogenetica”. Criptogenetica vuol dire soltanto che non se ne conosce l’origine, ma questo era un modo di classificare la malattia come realtà. Altrettanti esempi sono tutte le diagnosi di dispepsia che non vogliono dire assolutamente niente, tutte le diagnosi di bronchite, per es., che non vogliono dire assolutamente niente, tanto è vero che qualcuno propone ormai di abolirle come diagnosi. Esse non sono altro che la tautologia dei sintomi, cioè non si fa altro che riassumere in una parola, che appartiene in genere alla cultura del medico e non appartiene alla cultura del malato, la ripetizione circolare, tautologica, del segno stesso del sintomo, cioè di quello che il malato aveva detto. Il malato aveva detto: “io ho la tosse, ho uno sputo giallo”; oppure “non riesco a digerire” e il medico gli dice: “Si, hai la bronchite cronica, hai la dispepsia. Il malato crede di aver avuto la diagnosi e invece ha ricevuto in restituzione soltanto quello che lui aveva dato, ma con due linguaggi diversi. Cioè il medico ha riassunto nel suo linguaggio, rendendolo incomprensibile e dandogli perciò autenticità di realtà esistente e separabile dall’uomo, quello che il malato viveva invece come suo fatto.” (pag.8) – “Ora perché il processo di cosificazione sia completo, realmente completo, occorre che la cosa sia smontata, sia fatta a pezzi, cioè a tanti pezzi di cosa; infatti, la diagnosi eziologica cioè la diagnosi di imputazione, diventa sempre più desueta, prevale sempre più la diagnosi anatomica o la diagnosi funzionale di organo, o la diagnosi di apparato. Tutto questo perché l’imputato è, e deve restare, ignoto, o latitante quanto meno, e anche perché la diagnosi eziologica, in quanto unificante (poiché rimetterebbe insieme tutti i pezzi, individuando la causa dello stato morboso), rivelerebbe appunto un’identità o il nascondiglio di questo imputato ignoto o latitante. Ad es. l’ulcera, la distonia, la nevrosi, sono viste come momenti separati anche se sono prodotti da un’unica causa che è per es. «la catena di montaggio. Il malato viene fatto a pezzi, cioè un pezzo è il suo stomaco sanguinante da una parte, un altro pezzo sarà la nevrosi, un altro pezzo saranno i suoi segni di distonia neurovegetativa, ecc.; e magari questo esser fatto a pezzi arriverà al punto di mandarlo, a pezzi, da specialisti diversi: uno che veda una cosa, uno che veda l’altra e uno che veda l’altra cosa, rinunciando appunto a quel momento unificante che avrebbe significato da una parte la comprensione della sua realtà, la comprensione del suo stato, dall’altra parte soprattutto la identificazione della causa di questo stato.” (pag.13)

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