Bambini e società in Emilia e Romagna, aut.\inv ‘85\’86, pp.47\60
ripubblicato oggi (Marzo ’24), data l’urgenza del momento in tema di test
Cerco un lavoro: l’azienda-pilota mi affida ai suoi testisti. Mi mandano a chiamare per fare il servizio militare, ma prima devono misurare le mie capacità attraverso delle prove-standard.
Ho bisogno dello psichiatra: può capitare che qualcuno – così, tanto per cominciare – mi sottoponga ad una overdose di Rorschach, T.A.T. e compagnia bella.
Anche il mio corpo, le mie capacità visive, uditive, i miei riflessi sono, di tanto in tanto, testati, misurati, certificati. Tutta la vita di noi adulti (e lo sa bene la pubblicità che usa ampiamente il falso test fra le sue scenette di vita “vera”) diventa sempre di più la sommatoria di diversi insiemi di dati, alcuni utili, univocamente interpretabili, significativamente quantificabili in indici e tabelle, altri futili, o di dubbia utilità, o di interpretazione difficile (o quantomeno personale). o arbitrariamente quantificati in tabelle ed indici che non si capisce per quale ragione vanno da 1 a 10 e non da 1 a 100, o da 1 a 1000.
E noi ci sottoponiamo a questi test, a queste griglie solitamente senza mostrare eccessive apprensioni circa il significato che esse finiscono con l’assumere, complessivamente, per la nostra vita e, normalmente, senza distinguere fra quelle che ci sono realmente utili e quelle che invece rischiano di avere come unica utilità quella di assuefarci a ridurre il nostro corpo e, soprattutto, la nostra psiche ad un ventaglio di variabili computerizzabili, messe a nudo, fra il serio ed il faceto, dagli esperti, ma anche da noi stessi, con operazioni che finiscono con lo scandagliare ogni aspetto della nostra vita, compresi quelli più intimi e privati.
La situazione diventa ancora più pesante quando l’oggetto di questi scandagli, di queste misurazioni è il bambino.
Assistiamo giornalmente, come genitori e come tecnici che lavorano con i bambini ed i ragazzi (e quante volte non li abbiamo usati noi stessi in prima persona) a tutto un insieme di attrezzi telescopici per meglio guardare, misurare, valutare i bambini.
Per cui la ricerca di strategie efficaci sul piano della didattica produrrà delle griglie, le preoccupazioni che sorgono sul piano dei ritardi dell’apprendimento indurranno l’uso di varie batterie di test, lo svantaggio socioculturale sarà analizzato e misurato reperendo, attraverso i test incrociati, una massa così enorme di dati da richiedere poi sofisticate elaborazioni mediante il computer.
E tutto ciò si assommerà alle più tradizionali esigenze sul piano della selettività sociale e scolastica per definire una tale domanda di strumenti misurativi (e cioè di test, griglie, tabelle, curricoli-standard] che uno, ad un certo punto comincia a chiedersi : ma fino a che punto sono giustificate tutte queste misurazioni e, soprattutto, a che cosa servono realmente?
1. Due tipi di test
1.
Ora, premesso che da ora in poi, per comodità, riassumeremo sotto le voci test e testista tutto l’insieme di apparati misurativi di cui si parlava sopra, nonché l’insieme di psicologi, maestri, educatori, eccetera, che tali apparati saltuariamente o continuativamente usano (e quindi ancora una volta si parla di me, di noi, e non di altri), premesso tutto questo, si vede subito che, nella misura in cui si comincia a riflettere su questo fenomeno, viene fuori una distinzione fondamentale.
Da una parte, infatti, ci sono dei test cui siamo sottoposti che sono simili a quelli delle scienze esatte, ad esempio, un bambino che viene sottoposto ai Tine-test appare agli occhi del medico che accerta, dalla sua reazione cutanea al siero, se ha o meno la TBC, come un oggetto di cui si analizza una data qualità, ma che non interagisce con l’esperto in guanto soggetto. Un‘altra parte dei test invece si riferisce ad un soggetto da osservare da misurare da valutare che rimane sempre soggetto di fronte agli occhi dell’esperto (Holzkamp).
La persistenza dell’oggetto testato come soggetto in psicologia è confermata in primo luogo dai test proiettivi il cui utilizzo si pone solo all’interno di un rapporto ben più ampio fra terapeuta e paziente, e cioè solo all’interno di un rapporto fra due soggetti. Altrimenti i meccanismi interpretativi della psicoanalisi (e quindi le griglie interpretative dei test proiettivi) diventano come delle chiavi buone per aprire ma anche per chiudere ogni porta, e cioè dei grimaldelli ideologici che si usano in maniera non scientifica, chiesastica per spiegare ogni cosa e per difendersi elaborando delle ipotesi ad hoc (Antiseri, De Carlo), da ogni altro tipo di ipotesi e di interpretazione.
Ma anche nel caso dei test intellettivi e, più in generale, dei test psicosociali, delle griglie, dei curricoli-standard, le risposte al test restano sempre “la sedimentazione oggettivata” di qualità, atteggiamenti, comportamenti “dei soggetti sperimentati” (Holzkamp).
Per cui, ad esempio, una persona che venga sottoposta ad un test intellettivo che – poniamo – comporti la composizione di un puzzle continuerà ad essere, per tutta la durata del rapporto, non solo per se stessa, ma anche per il testista, un soggetto che risponde in quanto tale, agli stimoli cui il testista (maestro, educatore o psicologo che sia) lo sottopone. Anche se la sua risposta risulta poi oggettivata in un mosaico, più o meno esatto, di vari pezzettini di cartoncino.
Nel primo tipo di test ciò che interessa l’esperto è un oggetto “inanimato” che va visto dall’esterno.
I test del secondo tipo invece si riferiscono ad un soggetto che interessa il testista, proprio in quanto si dimostra in grado di mantenere i propri connotati di soggetto anche all’interno di un rapporto che, paradossalmente, si basa – come vedremo meglio fra poco – sulla oggettivazione del “soggetto testato”.
Ebbene ciò che interessa in questa sede non è una discussione sul primo tipo di test e di misurazioni, ma una discussione sui test psicologici e psicosociali che – lo dice la parola stessa – implicano senz’altro la presenza, di fronte all’esperto, di un soggetto che rimane tale nonostante tutti i tentativi di trattarlo come fosse un oggetto riconducibile alle leggi della fisica o della chimica.
Di questa seconda schiera di test, inoltre, saranno visti solo incidentalmente i vari problemi di metodo e di contenuto che nascono qualora si voglia osservare il fenomeno in termini generali. Si cercherà, piuttosto, di vedere, con l’aiuto e lo stimolo di alcuni autori, essenzialmente due fenomeni che sembrano connettersi sotto certi versi all’abuso e per altri versi all’uso stesso che oggi si fa dei test tra gli operatori sociali, soprattutto nel campo dell’infanzia : mi riferisco da un lato a quella che Sorokin chiamava testomania o quantofrenia, dall’altro al fenomeno delle illusioni prospettiche che possono nascere guardando al bambino (ma si potrebbe dire, più in generale, al soggetto testato) da una posizione cosi riavvicinata e, direi, “voyeuristica”.
Ci tengo a sottolineare, inoltre, che le considerazioni che seguono non vanno considerate come esaustive neanche rispetto a quei problemi che delimitano l’ambito della riflessione. Il compito che mi sono proposto con queste note, infatti, è solamente quello di mettere ordine ad una serie di considerazioni che ho avuto modo di fare in questi anni a partire, da una parte, dalla mia esperienza pratica di psicologo e, dall’altra, dagli stimoli che mi sono venuti da fonti e da letture a volte chiaramente apparentate al mestiere dello psicologo, a volte alquanto esoteriche e, a prima vista, molto lontane dal lavoro quotidiano con i bambini.
Mi riterrò soddisfatto se, alla fine, il lettore che avrà avuto la pazienza di seguirmi si mostrerà un po’ più guardingo quando, d’ora in poi, si accingerà a fare il testista.
2.Testomania
Mi pare che la presenza dei test, di per sè, non determini testomanie o quantofrenie di sorta.Infatti, come sottolineava già Sorokin (che pure è autore di considerazioni sprezzanti sui test), ogni società presenta l’esigenza di esprimere una selettività che sia funzionale alla sua sopravvivenza.
Questo sia che la società sia cosciente di questa esigenza. sia che non lo sia affatto, sia che la selettività sia programmata e cristallizzata in una sequenza di riti e di cerimoniali (come i classici riti di passaggio da una fascia di età ad un altra), sia che venga espressa in prove sporadiche ed estemporanee.
Il fine che ogni società e qualsiasi istituzione sociale, compresa la famiglia (Sorokin) persegue sottoponendo i propri membri a queste prove è quello di “rinnovare i processi di distribuzione delle varie posizioni sociali”.
Questa distribuzione, cioè questa selezione, afferma Sorokin, non dovuta al caso, ma ad una varietà enorme di continui test.
Fin qui mi pare che non si possa non condividere quello che dice Sorokin Successivamente però Sorokin sembra vedere questi test alquanto acriticamente, e soprattutto astoricamente, come un insieme di strutture che servono al mantenimento, quasi omeostatico, di una qualsiasi società, senza porsi il problema del perchè, nonostante la loro medesima funzione ogni società poi scegliere un proprio specifico apparato di test, di prove, attraverso le quali selezionare i propri individui.
A mio avviso, cioè, partendo con Sorokin, senza fermarsi però alla sua visione “strutturale” del problema, è possibile inquadrare il fenomeno dei test secondo una prospettiva critica e definire i termini storici i vari tipi di esigenze che sul piano della selettività sociale ogni società ha.
E’ indubbio che la nascita della società industriale e in special modo, la nascita della società tardocapitalistica comporti, sul piano della selettività sociale, un processo di trasformazione dei meccanismi secondo i quali avviene il rinnovo dei processi di distribuzione delle varie posizioni sociali. Penso si possa dire tranquillamente anche che a fianco dei processi di trasformazione di tutti i riti ed i cerimoniali secondo i quali in passato avveniva la selezione sociale, si assiste oggi al rigoglio improvviso che, come dicevamo all’inizio, ad un certo punto diventa una vera e propria esplosione, di quelli che Sorokin chiama test artificiali (che poi sono proprio i test così come li intendiamo oggi) che, dapprima affiancano e poi oggi quasi soppiantano i test reali.
Va chiarificato a questo punto che per test reali Sorokin intende quell’insieme di riti e di consuetudini di cui si parlava prima e che Sorokin stesso distingue in tre raggruppamenti che, a suo avviso, si ritrovano in ogni società :
1) i test istituzionali continui, che sono quelli che sottopongono l’individuo al vaglio della comunità in cui vive senza soluzione di continuità:
2) i test reali cruciali, che sono “le prove che la vita offre a chi la vive”, dice Sorokin, e cioè le prove alle quali l’individuo è sottoposto durante le crisi di massaggio da una fase all’altra della propria vita ;
3) i test reali specifici, che consistono in quelle prove che saggiano una particolare attitudine di un individuo (ad esempio il noviziato per chi vuol diventare sacerdote). Ora Sorokin, pur sottolineando la relativa efficacia dei test reali ed i clamorosi infortuni cui sono incorse determinate comunità sociali nei selezionare i propri membri sottolinea la maggiore pregnanza dei test reali rispetto a quelli artificiali.
Anche in questo caso mi pare che Sorokin, pur evidenziando qualcosa che intuitivamente è giusta, giunge a valutazioni alquanto moralistiche e, soprattutto, come si diceva prima, non fondate sul piano storico.
Per comprendere meglio i limiti dell’analisi di Sorokin e, nello stesso tempo, per vedere più da vicino le trasformazioni enunciate sul piano della selettività in una istituzione cardine per noi che lavoriamo nel campo dell’infanzia, cercherò di descrivere ciò che Sorokin pensa della scuola e la critica che su questo terreno è possibile muovergli.
Secondo Sorokin la scuola è un “test istituzionale continuo” poiché basa la sua attività selettiva su di un esame continuo, prolungato nel tempo. Mentre test psicosociali, afferma Sorokin, si basano: a) sulla rilevazione di un momento, che avviene b) in una situazione artificiale
Ora è indubbio che ancor oggi la scuola sia strutturata per funzionare come un test istituzionale continuo ed è ancora più certa la presenza di una tal funzione in USA nel periodo in cui scriveva Sorokin, e cioè negli anni ‘50.
Ma le cose appaiono in maniera alquanto diversa se noi consideriamo, da una parte, il tipo di impatto che oggi ha qui da noi la programmazione curricolare, e dall’altra le stesse strategie che sul piano scolastico e più in generale, sul piano della politica sociale erano state messe in piedi in USA nel decennio precedente a quello in cui scriveva Sorokin (i cui risultati, per altro, lui ampiamente cita e beffeggia in quel classico della sociologia che il suo “Mode e utopie della sociologia moderna e scienze collegate”.
Il rapporto istruzione, curricolo, produzione (A e H. Nicholls) e le pesanti riduzioni che vi sono implicite del maestro ad insegnante (e cioè dell’educazione all’istruzione), del bambino ad alunno (e cioè della relazione al curricolo), e del fine formativo alla formazione di una futura forza-lavoro (e cioè del soggetto alla produzione) infatti, a mio avviso, modificano la funzione della scuola che da test istituzionale continuo tende sempre più a diventare qualcosa che si avvicina ai test artificiali, in quanto che tende sempre più ad assimilare i presupposti di artificiosità, di freddezza, di discontinuità che giustamente Sorokin critica come elementi che caratterizzano negativamente i test psicosociali.
Quante volte ci siamo trovati di fronte a colleghe, maestre, insegnanti di scuola materna e di asilo nido, persino, che, invece di confidare nella pregnanza che nasce dal loro rapporto con il bambino, si attengono alla apparente incontrovertibilità dei dati che provengono da tabelle e da questionari? (La stessa cosa si può dire dall’atteggiamento che, a volte, si ha nei confronti dei test in ambito socio-sanitario).
E questo per non parlare dei dati di discontinuità del rapporto di cui le istituzioni non solo non mostrano alcuna preoccupazione, ma che, a volte, sembrano quasi “programmare” (si veda, per tutte, la situazione di polverizzazione del rapporto docente-discente in atto nella scuola media inferiore).
Cioè mi pare di poter dire che la testomania non nasce, ipso facto, dalle trasformazioni che sono avvenute nella società: queste modificano, è vero, il modo con cui viene organizzata la selettività sociale delle varie istituzioni nelle varie culture, ma non spiegano gli accessi quantofrenici che da un po’ di tempo stanno prendendo un po’ tutti.
La testomania, a mio avviso, ha le sue radici nei presupposti metodologici che fondano i “test artificiali” ed, in particolar modo, i test psicosociali.
Il fatto che il soggetto testato, in psicologia e scienze collegate, non possa non rimanere soggetto, di fronte a se stesso e, quel che più conta, di fronte al testista, contrasta in maniera stridente con una metodologia di rilevazione (che ha, a monte, una similare metodologia della ricerca) che è tutta tesa ad imitare il taglio metodologico tipico delle scienze esatte.
Così il soggetto testato, che pure interessa in quanto soggetto ricco di pensiero, di passioni e di interazioni, nonché facente parte di una società e di una cultura, tende ad essere ridotto ad oggetto freddo ed inerte che abbia la disposizione ad esser misurato, soppesato, parcellizzato. E ciò nell’illusione che, nel frattempo, nonostante quest’opera di eliminazione e di imbalsamazione del soggetto. questo abbia mantenuto la vitalità, la freschezza. la fragranza del soggetto vivente, di cui dovrebbe rappresentare, anzi, la quintessenza.
A partire da questa pretesa riduzionistica si finisce col perdere di vista tutto un insieme di condizioni in base alle quali è possibile definire la rilevanza (Holzkamp), da un punto di vista scientifico, delle cose che si vanno misurando e delle considerazioni che, su quelle cose. si vanno, di conseguenza, facendo.
Tutto si riduce spesso nella definizione, fatta con precisione maniacale, dei criteri in base ai quali, i risultati ottenuti possono esser rubricati come casuali, oppure no. Ciò perchè a monte vi è una ricerca psicologica che, come sottolinea Holzkamp, per stabilire la propria validità, si affida unicamente al criterio della “conferma delle ipotesi di partenza”, lasciando da parte fra l’altro il problema del “rilievo che la teoria ha sul piano contenutistico” .
Si definisce così un ambito di ricerca e di applicazione pratica sul territorio che si bea, direi narcisisticamente, della precisione dei propri risultati, a volte inseguendo una improbabile esattezza in termini matematico-statistici (incorrendo in tutti quegli inconvenienti che Sorokin, già negli anni 50, aveva individuato e denominato sprezzantemente col termine quantofrenia), il più delle volte riscontrando tautologicamente ciò che si voleva riscontrare, senza alcuna preoccupazione “sul piano contenutistico”.
E cioè lasciando da parte i seguenti problemi:
1) il problema della efficacia, sul piano pratico, delle cose che si vanno proponendo: cioè in concreto quello che io sto selezionando poi produrrà un cambiamento? Il cambiamento andrà nella direzione da me voluta e, non meno importante, è possibile dimostrare che il cambiamento è stato influenzato dal mio intervento? (criterio della rilevanza tecnica) (A questo livello, che pure ancora non mette in discussione, direi sul piano etico (Habermas), le ragioni della committenza, utili da vedere, oltre alle considerazioni critiche di Sorokin, sono le critiche di Holzkamp e ultimamente, di Offe alla istruzione programmata, che viene demolita proprio sul piano della efficacia).
2) Il problema della esattezza relativa dei risultati dei test, e cioè la realtà in cui è stato tarato il test è la stessa in cui viene sottoposto? Come è possibile adattare i test alle diverse realtà sociali? (“criterio della rilevanza antropologica”).
3)Ed infine a che cosa servono i test? Possono diventare veicoli di un cambiamento sociale, e in che direzione andrà tale cambiamento? (“criterio della rilevanza emancipatoria”).
I testisti, però, e, prima di loro, i ricercatori che inventano i test, lasciano da parte queste problematiche preoccupandosi di rimanere coerenti solo rispetto al “criterio della conferma delle ipotesi”. Perciò alla fine ad entrambi non rimane che la via di una ricerca sempre più perfezionistica, e perciò stesso sempre più riduttiva, di quell’insieme di dati che dovrebbero rispecchiare la complessa realtà sociale.
Ricerca sempre più vana poiché ridurre la complessità del mondo esperienziale ad un insieme di variabili implica una riduzione della realtà (Holzkamp), una sua parcellizzazione che, di fronte alla ricchezza della vita reale, si dimostra sempre inadeguata. Proprio come avviene nel caso del voyeur -lo vedremo meglio dopo-per il quale qualsiasi prospettiva di osservazione, anche la più ravvicinata, è sempre deludente.
E’ da questo circolo vizioso, in base al quale: la complessità della realtà sociale implica una ricerca, … il riduzionismo della ricerca delude e rimanda ad una ricerca più approfondita, … questa svela una nuova complessità … e così via, che nasce la testomania.
Infatti l’unica maniera per eludere l’amaro calice della delusione è quella di inventare un apparato di tabelle, griglie, sempre più “mirate” e “precise”, anche se sempre più sterili e lontane dalla realtà che vorrebbero indagare.
Cosicchè, come dice Sorokin, non solo si sostituiscono i criteri selettivi. continui e prolungati nel tempo. con criteri discontinui e momentanei (e quindi più arbitrari), ma ci si intestardisce a non vedere che, dietro la testomania, spesso c’è invece proprio il soggettivismo, il riduzionismo, l’etnocentrismo, nonché la presenza di criteri di quantificazione che, lungi dal rispecchiare le certezze delle scienze esatte, denotano invece l’arbitrarietà degli psicometristi.
Per giungere infine a porre il soggetto da testare in una situazione di instabilità e di artificiosità (Holzkamp), e cioè fuori dal contesto usuale in cui solitamente tale soggetto vive.
Ciò, afferma Holzkamp, inficia pesantemente il tipo di risposte che in quella situazione sono date, poiché il soggetto reagisce alla situazione di instabilità aggrappandosi, come ad un ancora di salvezza, all’unico elemento che, in quella situazione, gli fornisce informazioni stabili e sicure, e cioè al test.
Così, ad esempio, il bambino di asilo nido o di scuola materna che, distolto dalle proprie attività usuali, viene sottoposto ad un test di intelligenza, in una stanza in cui per eliminare ogni occasione di disturbo non ci sono altre attività ludiche se non quelle proposte dal test, risponderà al test, ma nessuno potrà dire se i risultati ottenuti in quel momento ed in quella realtà così artificiosa, siano trasferibili alla realtà pratica di tutti i giorni, costituita, “da un’area cognitiva stabile e retta dai molteplici sistemi di riferimento della percezione quotidiana” (Holzkamp, sottolineatura nostra).
3)Voyeurismo dell’esattezza
Una strana coppia (Holzkamp e Sorokin), ci ha aiutato a comprendere il fenomeno della testomania.
Ed un terzetto, a dir la verità molto più eccentrico (e composto da Baudrillard, Masud Khan, nonché da un critico letterario che, a prima vista non c’entra per niente, Steven Marcus), ci condurrà lungo questo secondo itinerario, a mio avviso, altrettanto stimolante quanto il primo al fine di giungere ad una visione più critica nei confronti dei test.
Ho già accennato in precedenza ad una analogia fra la posizione del testista e quella del voyeur.
Specificato che. per voyeur intendo, in questo contesto, il consumatore di materiale pornografico. e cioè che mi riferisco ad una specie di voyeurismo e di scoptofilia che potremmo chiamare voyeurismo di massa, tenteremo di vedere ora se vi sono altre analogie fra queste due figure, e se un confronto fra di esse può esserci d’aiuto per saperne di più sui test.
Ora, in primo luogo, seguendo un ragionamento di Baudrillard sulla pornografia (e la stereofonia), mi è parso di cogliere una prima analogia nel fatto che entrambi (voyeurs e testisti) si pongono nei confronti dell’oggetto osservato da una prospettiva del tutto particolare e, potremmo dire, tipica.
Si tratta di una prospettiva impossibile (Baudrillard) in cui, parlando in termini cinematografici, sul tutto prevale il primissimo piano ed il dettaglio.
Nel caso dell’oggetto osservato dal voyeur (di massa), e cioè nel caso del materiale fotografico o cinematografico, questa forzatura prospettica è evidente (Baudrillard dice che con la pornografia siamo alla “fine dello spazio prospettico”).
Ma anche test, griglie e schede, mi pare, spesso ci sollecitano a rinunciare ad usare uno sguardo che ci permetta di avere una visione d’insieme del soggetto osservato, ed a indagare su di un dettaglio, su di un particolare (una qualità, una prestazione, una potenzialità) del soggetto. Basta scorgere l’elenco dei materiali della editrice “OS” per rendersene conto.
”E’ la scienza che ci ha abituato a queste microscopie, a questo eccesso di reale nel suo dettaglio microscopico, a questo voyeurismo dell’esattezza, del primo piano sulle strutture invisibili della cellula, a questa nozione di una verità inesorabile, che non si misura più col gioco delle apparenze e che può essere rivelata soltanto con la sofisticazione di un apparato tecnico “ (Baudrillard).
Ed è l’atteggiamento di imitazione nei confronti dei meccanismi di indagine delle scienze esatte, potremmo aggiungere noi in base alle cose dette nel paragrafo precedente, che ha prodotto la diffusione nell’ambito delle scienze umane di apparati tecnici, come i test, molto sofisticati ed esatti.
Apparati che possono mettere in piena luce, ed in primissimo piano dettagli, anche microscopici, della “scena umana”, ma che lo fanno in modo tale che quello che viene fuori finisce spesso con l’apparire come una “verità inesorabile”, e cioè alienata e reificata nella solarità fredda della risposta.
Voglio dire cioè che le risposte al test, a mio avviso, rappresentano, giganteggiando “inesorabilmente” i particolari, il soggetto in un suo dettaglio, a partire da una prospettiva impossibile in modo tale che ciò che si vede può essere rivelato “soltanto con la sofisticazione di un apparato tecnico”.
Ma la “prospettiva impossibile” non è la sola analogia fra voyeurismo e testomania.
Una seconda analogia, infatti, mi pare si possa cogliere in quello che Baudrillard chiama “eccesso di reale”, oppure “iperrealismo”. Una seconda analogia che, fra l’altro, si rivela più proficua per comprendere l’atteggiamento di delusione che prende sempre sia il voyeur sia il testista di fronte ai loro fin troppo chiari oggetti di desiderio. E così, come il voyeur insegue il delirio tecnico di una sessualità rappresentata con una resa perfetta che nella vita reale semplicemente non esiste, con altrettanta tensione, con altrettante voglie di iperrealismo il testista si intestardisce a fissare con i suoi strumenti una realtà (quella psichica e sociale) la cui dinamica mal si presta ad essere così maniacalmente riprodotta.
Per cui entrambi. alla fine, sono profondamente delusi poiché c’è sempre qualcos’altro che non è stato messo bene a fuoco e in primo piano, e questo qualcos’altro con la sua presenza sfumata mette a nudo proprio ciò che si voleva occultare, e cioè i limiti dello strumento tecnico.
Si crea così una spirale perversa, in base alla quale, proprio la estrema precisione degli strumenti di rilevazione, evidenziando sempre nuove zone d’ombra, rimanda alla esigenza di strumenti più raffinati, che evidenziano però nuove zone d’ombra … e così via, in una atmosfera che è perennemente intrisa di rabbia e delusione.
Quante volte noi stessi, in ambito educativo o sociosanitario, ci siamo trovati in una situazione simile, in base alla quale il soggetto osservato attraverso le lenti dei test, delle varie griglie e tabelle, diventava un insieme di dati, precisi, solari, che però rimandavano all’esigenza di una analisi più approfondita con nuovi test, nuove tabelle.
Quante volte, presa questa strada, abbiamo sentito il bisogno di diventare noi stessi così freddi e precisi nel valutare, selezionare, diagnosticare; di diventare noi stessi degli strumenti di misurazione; e quante volte infine, presi in un gioco che rimandava a “verità inesorabili”, e cioè disumane, abbiamo poi sentito dapprima la rabbia per la nostra incapacità di essere così neutrali, per la monotona ripetitività di questi primi piani tutti uguali, e poi la delusione quando, alla fine, tutta questa operazione, oltre che farci ritrovare in loggione, invece che in prima fila rispetto al soggetto testato, si rivelava anche solo una esigenza nostra, un fatto nostro puramente mentale e non il prodotto di uno scambio e quindi la fonte di un possibile arricchimento.
Quante volte cioè ci è capitato di perdere per strada il soggetto vero con cui entrare in rapporto, nell’illusione di vederlo riflesso, in maniera più precisa. più ravvicinata, più raggiungibile forse, in quel sedimento oggettivato di atteggiamenti e di comportamenti che sono i test.
Ebbene, una volta superata la depressione in cui una attività così deludente ci porta e non appena ci si pone in una posizione prospettica anche leggermente eccentrica rispetto a quella del testista (così come per altri versi a quella del voyeur), ad esempio, nel nostro caso, ritornando a rapportarsi col bambino, si sente che il bambino “di prima”, e cioè il sedimento oggettivato del bambino (l’insieme, insomma, di tutti i frammenti e primi piani), non solo è profondamente diverso del bambino di adesso, ma è anche un bambino ritagliato su misura ed, al limite, un bambino che esiste solo come produzione del test e del suo insoddisfatto interprete, il testista.
Ora Masud Khan, parlando del voyeur, descrive il suo vissuto come un insieme di “trame ipermentali”, come un “delirio dell’Io”, in cui di fronte al voyeur “non ci sono più persone, non vi è più corpo, non vi è più Es, ma tutto Io, e solo Io”.
Ecco: a partire da questa comune tendenza all’isolamento, in base alla quale la realtà tende a perdere per entrambi la sua pregnanza per trasformarsi in qualcosa che attiene all’intelletto e solo all’intelletto, è possibile, a mio avviso, cogliere tutto un insieme di analogie fra pornotopìa (S. Marcus) (e cioè tra universo delle fantasie pornografiche del voyeur) e situazione in cui viene somministrato il test.
Cercherò ora di illustrarle nella convinzione che ancora una volta esse possano dimostrarsi utili a riconoscere come funzionano i test.
l) In primo luogo lo spazio in cui si situa la “scena” del voyeur è indifferenziato, per cui ogni determinazione di luogo, che nella letteratura, così come nella cinematografia d’arte è essenziale per lo svolgimento del racconto, sul piano della pornografia rappresenta una distrazione, un impedimento (Marcus).
Si può dire anzi che i luoghi della pornografia non hanno nulla a che fare con il mondo, “essi esistono solo dentro i nostri occhi, nella nostra testa”.
Ma anche coloro che sono sottoposti ai test, come abbiamo visto poco fa, nonché nel paragrafo precedente, tendono ad esser posti fuori dallo spazio, inteso come quell’insieme di coordinate storiche e geografiche che rendono pregnante il “qui” di significati specifici, per entrare in uno spazio che tende pericolosamente a diventare un luogo puramente mentale, in cui le coordinate reali sono viste come variabili che è necessario eliminare perchè, con la loro particolarità, complicherebbero la rilevazione.
2) Lo stesso meccanismo di elisione e di semplificazione si nota sia nella concezione del tempo della pornografia (afferma Steven Marcus: “alla domanda che ora è nella pornografia? si è tentati di rispondere : è sempre l’ora di andare a letto “) sia nella realtà temporale dei test: non per niente Sorokin contrapponeva la continuità dei test reali alla discontinuità, alla “rilevazione di un momento” dei test artificiali.
3) In terzo luogo il mondo esterno che nel “topos” pornografico è ricondotto ad una corporeità eccessivamente ravvicinata (Marcus), anche nel caso dei test appare, come abbiamo già visto, come un frammento, enormemente ingrandito, di una realtà di cui possiamo vedere, proprio per il tipo di messa a fuoco che abbiamo scelto, solo una visione frammentata.
Per cui non si vede il bambino, ma le singole sue parti ingrandite: la sovrabbondanza di realtà (Baudrillard) finisce con il coprire, con i suoi imperiosi primi piani, la realtà stessa.
4) La pornotopìa, inoltre, afferma Marcus, è pornocòpia, cioè un mondo di abbondanza strabocchevole, in cui “è sempre estate”, nel senso che “nessuno è mai geloso, possessivo, veramente arrabbiato”.
Questa rappresentazione in cui, come dice anche Masud Khan, aggressività e sessualità sono fuse e trasfigurate in operazioni mentali, cela una grossa rabbia e una grossa sofferenza, quella di chi ad un certo punto della propria vita, “ha sofferto la fame” (Marcus).
Ma se questa sembra l’origine della coazione a guardare, ci si può chiedere, a mio avviso, qual è l’origine della “coazione a testare”? Abbiamo visto come i “test artificiali” possono essere considerati, in prima approssimazione. come un prodotto della trasformazione dei metodi di selezione sociale avvenuta nella società con l’avvento del capitalismo maturo.
Ora penso ci si possa chiedere, cercando di andare più in profondità, quale molla spinge i testisti, e prima ancora i ricercatori che in ambito psicosociale elaborano i test, e prima ancora i loro committenti, a produrre test, griglie, tabelle, eccetera?
Non sono in grado di dire molto sulle origini di questa “coazione a testare”, ma penso sarebbe interessante svolgere una indagine di tipo psicosociale sull’origine di questo “modello coatto di espressione” (Weinstein e Platt) in base al quale elementi della sessualità pregenitale infantile (in questo caso la scopofilia) non solo “riappaiono nelle perversioni degli adulti” (in questo caso nel voyeurismo), ma possono influenzare anche il carattere di quegli individui che pure mantengono il loro comportamento nei quadri di quello che la società considera come normalità (Freud – Reich). Nel nostro caso in quell’insieme di atteggiamenti e comportamenti basati sull’isolamento degli affetti, sulla maniacalità dell’osservare e sulla particolarità della posizione “impossibile” dell’osservatore. che ho denominato scherzosamente “coazione a testare”).
5) Nella pornotopìa, infine, le relazioni fra gli esseri umani sono ridotte a relazioni fra organi, a diagrammi, a schizzi, abbozzi, “in altre parole, ad una serie di astrazioni” (Marcus). In questo caso mi pare che la relazione con i test sia evidentissima. Così come mi pare evidente che, come la pornografia è -come dice Marcus- “allontanamento dal linguaggio e dalla comunicazione (nel senso della non referenzialità della sua scrittura”) allo stesso modo i test allontanano il paziente dal terapeuta, il bambino dalla maestra etc., in quanto che, soprattutto se presi da soli, servono a definire un setting terapeutico o educativo basato, appunto, su diagrammi, schizzi, abbozzi e non sull’incontro fra due soggetti.
Non sono contrario, a priori, ai test. Anzi devo confessare di usarli con una certa frequenza nella mia pratica quotidiana.
Ritengo però urgente discuterne in quanto che usare un test non comporta solo, come spesso giustamente ci dicono i nostri didatti, la possibilità di illudersi di usare una scorciatoia per arrivare al bambino quando siamo in un vicolo cieco con lui.
Questa è solo una delle possibili trappole in cui è possibile cadere usando i test.
In questo scritto ho cercato di dimostrare che esiste anche il problema, una volta imboccata la via dei test, di vedere che tipo di cambiamento da essi viene indotto nel setting, ed in particolare ho cercato di mettere in evidenza due di questi possibili cambiamenti: -il riduzionismo in base al quale si pretende di ridurre i criteri di analisi della realtà sociale a quelli delle scienze esatte; -le strane parentele fra voyeurismo e voyeurismo dell’esattezza, in base alle quali alcuni tratti del carattere del testista non solo lo spingono ad assumere una prospettiva impossibile nei confronti del suo oggetto di osservazione (e tanto più ravvicinata quanto più deludente), ma anche, nei fatti, ad isolarsi dall’oggetto, a tentare una vana difesa oggettivante, prima o poi destinata o al fallimento, o a solidificarsi in una corazza caratteriale più o meno rigida, impenetrabile e, perciò, patologica.
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