No, non hanno avuto bisogno di botti questo capodanno i bambini di Gaza, li hanno forniti loro gli Stati Uniti di Joe Biden per mano dell’esercito di Israele. Certo, forse sono stati persino un po’ esagerati: chissà che cosa avrebbe detto il commissario di Spaccanapoli di bombe di 9 quintali di esplosivo… Le avrebbe sequestrate senz’altro, perché le avrebbe trovate pericolose. Qualcuno, anche un bambino per dire, avrebbe potuto farsi male. Altro che la “bomba di Maradona”! Ma già, si sa che gli americani sono sempre esagerati… Purtroppo, lì a sequestrare quei botti non ci ha pensato nessuno…
Così, mentre in tutto il mondo esplodevano i botti a salve di capodanno, lì i botti esplodevano davvero. Come sono esplosi la notte di Natale in quella terra dove ha avuto luogo la natività, provocando oltre cento morti con il bombardamento di un campo profughi densamente popolato come “effetto collaterale”: pacchi dono confezionati da mani americane e sganciati da aerei israeliani, per i bambini di Gaza.
Così, anche in questa notte di San Silvestro aspettiamo per domattina il bilancio dei morti e dei feriti: statisticamente, i morti dovrebbero essere circa 200, come tutti i maledetti giorni di questi ultimi tre mesi meno una settimana di massacro, fino a fare oltre 21.000 morti e oltre 50.000 feriti tra la popolazione palestinese, un terzo dei quali circa bambini. Cifre affidabili, o almeno verosimili, commentano senza scomporsi l’ONU, l’OMS, la stampa internazionale tenuta distante dai luoghi del massacro, e ora pare persino esponenti dell’esercito israeliano. Piuttosto approssimate per difetto: perché cosa ci sia sotto le macerie non lo sa nessuno, e non è conteggiato.
Cifre di fronte alle quali il governo israeliano può dire senza che nessuno batta un ciglio: andremo avanti a colpire. E gli USA: andremo avanti a darvi le armi per farlo e a impedire che qualcuno osi disturbarvi, con le portaerei a proteggervi in zona operativa e l’uso del veto all’ONU in campo diplomatico.
Qualcuno, certo, di fronte a quello che pare sia il più grande massacro di civili da parte di un esercito nell’unità di tempo dai tempi della guerra del Vietnam, scrolla le spalle e giustifica Israele: ma chi gliel’ha fatta fare agli arabi di Gaza di fare quello che hanno fatto il 7 ottobre?
Il 7 ottobre abbiamo visto, da parte delle vittime di 70 anni divenute per un giorno carnefici fare cose orrende, e credo che chiunque si senta vicino a chi ne è stato vittima. Cose che aggiungono orrore a una storia che di orrori ne ha molti dietro le spalle. Perché sì, quello che il presidente dell’ONU ha avuto il coraggio di dire creando scandalo nel mondo occidentale anestetizzato dalla assordante narrazione sionista e del fatto che di fronte al decennale dramma della Palestina la cosa più comoda è ignorarlo, è proprio vero: quello che è successo il 7 ottobre desta grande orrore, ma occorre ricordare che “non nasce nel vuoto”.
Nasce da una vicenda che ha avuto un antefatto nel 1917, quando il colono britannico ha concesso la creazione di un’”entità sionista”, non statuale, in terra di Palestina; ma poi si è complicata negli anni nei quali per il resto del mondo finiva l’ultima guerra mondiale e si spegneva la storia coloniale. Ha le sue radici nell’olocausto perpetrato dalla Germania nazista ai danni degli ebrei, per “risarcire” il quale Stati Uniti e Gran Bretagna hanno pensato bene concedere al movimento sionista la possibilità di fondare un’entità etnicamente e religiosamente solo ebraica nella terra degli arabi palestinesi, che dell’olocausto non avevano ovviamente nessuna responsabilità. Già, non hanno pensato di dare al movimento sionista la Baviera o la Sassonia, per dire….
Così, il movimento sionista, incoraggiato, dava luogo alla Naqba, la catastrofe, con la quale attraverso terrorismo e violenza otteneva la la cacciata di circa 700.000 arabi palestinesi, musulmani e cristiani, dalle loro case in quella che lo storico Israeliano dissidente Ilan Pappe ha chiamato la “pulizia etnica” della Palestina. Olti di essi trovavano rifugio “provvisorio” nei campi profughi, alcuni dei quali nella piccola Striscia di Gaza. Israele ha cominciato così la sua graduale ma inesorabile espansione ai danni della Palestina fatta di massacri quotidiani (a volte piccoli, a volte più grandi), di vessazioni e ingiustizie che configuarano l’apartheid, di insediamenti coloniali illegali nella terra sempre più ristretta rimasta ai Palestinesi che puntualmente il veto degli Stati Uniti impediva alla comunità delle nazioni di impedire. In risposta a questo, i movimenti della resistenza palestinese colpivano Israele con gli atti caratteristici della guerra di guerriglia, che è la guerra dei poveri, di quelli che non hanno esercito regolare, né missili, né aerei, e quindi a volte colpiscono dove riescono, soprattutto quando la disparità delle forze è più grande e laa repressione si fa particolarmente spietata, con atti a volte certo dolorosamente feroci. Talvolta i Paesi arabi confinanti sono intervenuti in appoggio della Palestina, ma sono sempre usciti sconfitti dallo strapotere economico e militare che gli Stati uniti garantiscono a Israele. Talvolta, come oggi, rimangono pressoché indifferenti, continuando a fare affari con Stati Uniti, Unione Europea e Israele.
Gli accordi di Oslo del 1993 e la decisione unilaterale assunta da Israele nel 2005 di consegnare la striscia di Gaza nel 2005 all’autogoverno palestinese hanno determinato una situazione incredibile per gli abitanti. Israele mantiene il controllo dei confini di terra, del mare e dello spazio aereo; raccoglie le tasse; le merci in ingresso nella striscia devono essere in alcuni casi obbligatoriamente acquistate da Israele e devono comunque passare per il controllo israeliano, che riscuote su esse un dazio; non è possibile uscire dalla striscia né entrare senza il suo permesso.
Questa la quotidianità nella Striscia di Gaza, una quotidianità che si protrae da quasi vent’anni e si somma allo stallo nella creazione di un vero Stato palestinese, o nel ritorno della Palestina ad essere, come prima del 1948, “dal fiume al mare” uno Stato laico dove convivano senza condizioni di apartheid persone di etnia araba ed ebraica e di religione ebraica, musulmana o cristiana, e all’assenza di prospettive di ritorno per i profughi palestinesi, stimati in circa 5.000.000, che continuano a vivere, spesso in situazioni di miseria e precarietà, nei campi. In questi anni si sono succedute occupazioni parziali della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, come “Piombo fuso” (2008-09) e “Margine protettivo” (2014). Circa 3.000 morti il bilancio per i palestinesi.
Ciò che credo sia ancora più insopportabile per un palestinese è l’idea che Israele e il resto del mondo pensino che può andare bene così: che ci si dimentichi di loro, della povertà a cui sono costretti, dalle angherie che tutti i giorni sono costretti a subire, della mancanza di prospettive.
Il mondo ha avuto la possibilità di prevenire, evitando così quello che è accaduto il 7 ottobre. Accorgersi che prima o poi, in qualunque giorno, di fronte al minimo cedimento della barriera costruita per tener chiuso il bubbone di Gaza, sarebbe potuto accadere. Da marzo a novembre del 2018 migliaia di palestinesi si sono recati quasi disarmati (armati solo in alcuni casi di fionde o palloncini incendiati) verso la barriera alzata intorno a Gaza dall’esercito israeliano. Chiedevano il ritorno dei profughi dopo 70 anni, protestavano contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, chiedevano la fine dell’assedio soffocante di Gaza. Con questo si sono esposti a mani quasi nude ai fucili di precisione dei cecchini israeliani: il bilancio è stato di oltre 200 morti (tra di essi l’infermiera ventunenne Razan Al-Najjar che con il camice bianco si trovava lì per dare soccorso sanitario) e oltre 20.000 feriti e mutilati. Da quel giorno, il volto sorridente di Razan è l’immagine del mio account sui social: perché è giusto non dimenticare. Oggi, potrei sostituire al suo volto quello di tanti suoi colleghi.
Una sorta di suicidio collettivo quindi, di colossale autosacrificio umano, per non essere più invisibili agli occhi del mondo. E come è stato possibile che i soldati israeliani abbiano sparato con tanta indifferenza su gente inerme? E come è stato possibile che questo sacrificio di se stessi non abbia ottenuto attenzione? Non abbia dato al mondo la percezione di quanto grandi fossero il sentimento di ingiustizia e la disperazione che covavano in quel luogo?
Già, il 7 ottobre non è nato nel vuoto. È nato da 70 anni di angherie e di disperazione, che non hanno trovato nessun ascolto alle orecchie nel mondo. Da 200 morti e 20.000 feroti e mutilati che sono stati ignorati. Che continuano incredibilmente a non trovarne oggi, nel massacro di civili, di bambini e di donne, di medici e malati negli ospedali.
Un massacro annunciato a chiare lettere dal primo ministro di Israele già il giorno successivo al 7 ottobre: Gaza non avrebbe più potuto ricevere acqua, cibo, elettricità, medicinali. Perché queste cose, che fondano la sovranità di una nazione sono, insieme alle reti di comunicazione, nelle mani di Israele, che può dare e togliere a propria discrezione. Il mondo avrebbe dovuto sobbalzare perché a oltre 2.500.000 esseri umani veniva tolto ciò che è indispensabile per la sopravvivenza, perché la mancanza di acqua e di cibo preparava un terreno fertile per denutrizione ed epidemie.
Nessuno, invece, neppure davanti a quelle parole mostruose ha battuto ciglio. Qualche settimana dopo, le incubatrici si sono spente negli ospedali e i neonati sono morti di ipotermia e denutirzione al loro interno. Neppure allora, nessuno ha avuto niente da dire.
Già, capita ormai in ogni guerra moderna che un ospedale possa essere colpito come “effetto collaterale”, per incidente. E capita in ogni guerra, e ancor più guerriglia, di popolo il sanitario rischi di trovarsi in una posizione ambigua, stretto tra i valori dell’arte ippocratica e i valori che condivide con il popolo cui appartiene (vai al link). Ma in nessuna guerra l’attacco agli ospedali è stato portato in modo così mirato, determinato: oltre 300 operatori sanitari sono stati uccisi, gran parte degli ospedali di Gaza chiusi o gravemente danneggiati: Al Quds, Al Shifa, Al Awda, gli ospedali pediatrici Al Rantisi e Al Nasr, l’ospedale psichiatrico, l’ospedale indonesiano. I neonati morti nelle incubatrici per il taglio dell’elettricità. Cos’altro deve fare l’esercito israeliano perché il mondo si svegli, e cessi in primo luogo di armargli la mano per questi massacri?
L’ospedale psichiatrico di Gaza, impegnato oltre che nelle cure routinarie anche in quelle delle conseguenze più gravi dello stress posttraumatico sulla popolazione, è stato bombardato da Israele insieme all’oftalmico il 5 novembre; nei giorni successivi non è stato più in grado di garantire le cure e ha dovuto rimandare a casa i malati e cessare di funzionare.
Così, anche in questa notte di San Silvestro aspettiamo per domattina il bilancio dei morti e dei feriti: statisticamente, i morti dovrebbero essere circa 200, come tutti i maledetti giorni di questi ultimi tre mesi meno una settimana di massacro, fino a fare oltre 21.000 morti e oltre 50.000 feriti tra la popolazione palestinese, un terzo dei quali circa bambini. Cifre affidabili, o almeno verosimili, commentano senza scomporsi l’ONU, l’OMS, la stampa internazionale tenuta distante dai luoghi del massacro, e ora pare persino esponenti dell’esercito israeliano. Piuttosto approssimate per difetto: perché cosa ci sia sotto le macerie non lo sa nessuno, e non è conteggiato.
Cifre di fronte alle quali il governo israeliano può dire senza che nessuno batta un ciglio: andremo avanti a colpire. E gli USA: andremo avanti a darvi le armi per farlo e a impedire che qualcuno osi disturbarvi, con le portaerei a proteggervi in zona operativa e l’uso del veto all’ONU in campo diplomatico.
Qualcuno, certo, di fronte a quello che pare sia il più grande massacro di civili da parte di un esercito nell’unità di tempo dai tempi della guerra del Vietnam, scrolla le spalle e giustifica Israele: ma chi gliel’ha fatta fare agli arabi di Gaza di fare quello che hanno fatto il 7 ottobre?
Il 7 ottobre abbiamo visto, da parte delle vittime di 70 anni divenute per un giorno carnefici fare cose orrende, e credo che chiunque si senta vicino a chi ne è stato vittima. Cose che aggiungono orrore a una storia che di orrori ne ha molti dietro le spalle. Perché sì, quello che il presidente dell’ONU ha avuto il coraggio di dire creando scandalo nel mondo occidentale anestetizzato dalla assordante narrazione sionista e del fatto che di fronte al decennale dramma della Palestina la cosa più comoda è ignorarlo, è proprio vero: quello che è successo il 7 ottobre desta grande orrore, ma occorre ricordare che “non nasce nel vuoto”.
Nasce da una vicenda che ha avuto un antefatto nel 1917, quando il colono britannico ha concesso la creazione di un’”entità sionista”, non statuale, in terra di Palestina; ma poi si è complicata negli anni nei quali per il resto del mondo finiva l’ultima guerra mondiale e si spegneva la storia coloniale. Ha le sue radici nell’olocausto perpetrato dalla Germania nazista ai danni degli ebrei, per “risarcire” il quale Stati Uniti e Gran Bretagna hanno pensato bene concedere al movimento sionista la possibilità di fondare un’entità etnicamente e religiosamente solo ebraica nella terra degli arabi palestinesi, che dell’olocausto non avevano ovviamente nessuna responsabilità. Già, non hanno pensato di dare al movimento sionista la Baviera o la Sassonia, per dire….
Così, il movimento sionista, incoraggiato, dava luogo alla Naqba, la catastrofe, con la quale attraverso terrorismo e violenza otteneva la la cacciata di circa 700.000 arabi palestinesi, musulmani e cristiani, dalle loro case in quella che lo storico Israeliano dissidente Ilan Pappe ha chiamato la “pulizia etnica” della Palestina. Olti di essi trovavano rifugio “provvisorio” nei campi profughi, alcuni dei quali nella piccola Striscia di Gaza. Israele ha cominciato così la sua graduale ma inesorabile espansione ai danni della Palestina fatta di massacri quotidiani (a volte piccoli, a volte più grandi), di vessazioni e ingiustizie che configuarano l’apartheid, di insediamenti coloniali illegali nella terra sempre più ristretta rimasta ai Palestinesi che puntualmente il veto degli Stati Uniti impediva alla comunità delle nazioni di impedire. In risposta a questo, i movimenti della resistenza palestinese colpivano Israele con gli atti caratteristici della guerra di guerriglia, che è la guerra dei poveri, di quelli che non hanno esercito regolare, né missili, né aerei, e quindi a volte colpiscono dove riescono, soprattutto quando la disparità delle forze è più grande e laa repressione si fa particolarmente spietata, con atti a volte certo dolorosamente feroci. Talvolta i Paesi arabi confinanti sono intervenuti in appoggio della Palestina, ma sono sempre usciti sconfitti dallo strapotere economico e militare che gli Stati uniti garantiscono a Israele. Talvolta, come oggi, rimangono pressoché indifferenti, continuando a fare affari con Stati Uniti, Unione Europea e Israele.
Gli accordi di Oslo del 1993 e la decisione unilaterale assunta da Israele nel 2005 di consegnare la striscia di Gaza nel 2005 all’autogoverno palestinese hanno determinato una situazione incredibile per gli abitanti. Israele mantiene il controllo dei confini di terra, del mare e dello spazio aereo; raccoglie le tasse; le merci in ingresso nella striscia devono essere in alcuni casi obbligatoriamente acquistate da Israele e devono comunque passare per il controllo israeliano, che riscuote su esse un dazio; non è possibile uscire dalla striscia né entrare senza il suo permesso.
Questa la quotidianità nella Striscia di Gaza, una quotidianità che si protrae da quasi vent’anni e si somma allo stallo nella creazione di un vero Stato palestinese, o nel ritorno della Palestina ad essere, come prima del 1948, “dal fiume al mare” uno Stato laico dove convivano senza condizioni di apartheid persone di etnia araba ed ebraica e di religione ebraica, musulmana o cristiana, e all’assenza di prospettive di ritorno per i profughi palestinesi, stimati in circa 5.000.000, che continuano a vivere, spesso in situazioni di miseria e precarietà, nei campi. In questi anni si sono succedute occupazioni parziali della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, come “Piombo fuso” (2008-09) e “Margine protettivo” (2014). Circa 3.000 morti il bilancio per i palestinesi.
Ciò che credo sia ancora più insopportabile per un palestinese è l’idea che Israele e il resto del mondo pensino che può andare bene così: che ci si dimentichi di loro, della povertà a cui sono costretti, dalle angherie che tutti i giorni sono costretti a subire, della mancanza di prospettive.
Il mondo ha avuto la possibilità di prevenire, evitando così quello che è accaduto il 7 ottobre. Accorgersi che prima o poi, in qualunque giorno, di fronte al minimo cedimento della barriera costruita per tener chiuso il bubbone di Gaza, sarebbe potuto accadere. Da marzo a novembre del 2018 migliaia di palestinesi si sono recati quasi disarmati (armati solo in alcuni casi di fionde o palloncini incendiati) verso la barriera alzata intorno a Gaza dall’esercito israeliano. Chiedevano il ritorno dei profughi dopo 70 anni, protestavano contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, chiedevano la fine dell’assedio soffocante di Gaza. Con questo si sono esposti a mani quasi nude ai fucili di precisione dei cecchini israeliani: il bilancio è stato di oltre 200 morti (tra di essi l’infermiera ventunenne Razan Al-Najjar che con il camice bianco si trovava lì per dare soccorso sanitario) e oltre 20.000 feriti e mutilati. Da quel giorno, il volto sorridente di Razan è l’immagine del mio account sui social: perché è giusto non dimenticare. Oggi, potrei sostituire al suo volto quello di tanti suoi colleghi.
Una sorta di suicidio collettivo quindi, di colossale autosacrificio umano, per non essere più invisibili agli occhi del mondo. E come è stato possibile che i soldati israeliani abbiano sparato con tanta indifferenza su gente inerme? E come è stato possibile che questo sacrificio di se stessi non abbia ottenuto attenzione? Non abbia dato al mondo la percezione di quanto grandi fossero il sentimento di ingiustizia e la disperazione che covavano in quel luogo?
Già, il 7 ottobre non è nato nel vuoto. È nato da 70 anni di angherie e di disperazione, che non hanno trovato nessun ascolto alle orecchie nel mondo. Da 200 morti e 20.000 feroti e mutilati che sono stati ignorati. Che continuano incredibilmente a non trovarne oggi, nel massacro di civili, di bambini e di donne, di medici e malati negli ospedali.
Un massacro annunciato a chiare lettere dal primo ministro di Israele già il giorno successivo al 7 ottobre: Gaza non avrebbe più potuto ricevere acqua, cibo, elettricità, medicinali. Perché queste cose, che fondano la sovranità di una nazione sono, insieme alle reti di comunicazione, nelle mani di Israele, che può dare e togliere a propria discrezione. Il mondo avrebbe dovuto sobbalzare perché a oltre 2.500.000 esseri umani veniva tolto ciò che è indispensabile per la sopravvivenza, perché la mancanza di acqua e di cibo preparava un terreno fertile per denutrizione ed epidemie.
Nessuno, invece, neppure davanti a quelle parole mostruose ha battuto ciglio. Qualche settimana dopo, le incubatrici si sono spente negli ospedali e i neonati sono morti di ipotermia e denutirzione al loro interno. Neppure allora, nessuno ha avuto niente da dire.
Già, capita ormai in ogni guerra moderna che un ospedale possa essere colpito come “effetto collaterale”, per incidente. E capita in ogni guerra, e ancor più guerriglia, di popolo il sanitario rischi di trovarsi in una posizione ambigua, stretto tra i valori dell’arte ippocratica e i valori che condivide con il popolo cui appartiene (vai al link). Ma in nessuna guerra l’attacco agli ospedali è stato portato in modo così mirato, determinato: oltre 300 operatori sanitari sono stati uccisi, gran parte degli ospedali di Gaza chiusi o gravemente danneggiati: Al Quds, Al Shifa, Al Awda, gli ospedali pediatrici Al Rantisi e Al Nasr, l’ospedale psichiatrico, l’ospedale indonesiano. I neonati morti nelle incubatrici per il taglio dell’elettricità. Cos’altro deve fare l’esercito israeliano perché il mondo si svegli, e cessi in primo luogo di armargli la mano per questi massacri?
L’ospedale psichiatrico di Gaza, impegnato oltre che nelle cure routinarie anche in quelle delle conseguenze più gravi dello stress posttraumatico sulla popolazione, è stato bombardato da Israele insieme all’oftalmico il 5 novembre; nei giorni successivi non è stato più in grado di garantire le cure e ha dovuto rimandare a casa i malati e cessare di funzionare.
Come medici genovesi avevamo rivolto un appello in favore dei colleghi e dell’assistenza sanitaria a Gaza all’inizio dell’invasione (vai al link), quando non era neanche lontanamente immaginabile che la guerra agli operatori sanitari e agli ospedali assumesse questa dimensione. Che personale sanitario, malatie e feriti fossero presi di mira dai cecchini, prelevati dalle corsie per essere portati chissà dove. Credo che in questo primo giorno del nuovo anno, la nostra attenzione non debba distogliersi da Gaza e la mobilitazione sanitaria in favore di Gaza sia oggi ancora più necessaria.
Per questo, il mio bilancio del 2023, che segue quelli che scrivo dal 2015 ed è possibile trovare su questa rubrica, ha trascurato le altre notizie di politica internazionale, o quelle sui libri di psichiatria o affini pubblicati, o le ricorrenze, o la commemorazione dei colleghi scomparsi nel corso dell’anno, lo stato dei servizi. Il rumore assordante delle bombe in quella che è una piccola striscia di terra densamente popolata, il massacro della popolazione civile che lì vive intrappolata, come viene battuto il pesto nel mortaio, senza scampo, costretta a spostarsi da un luogo all’altro senza che nessun luogo sia sicuro, la strage dei sanitari, degli ospedali, questa notte vengono prima di tutto il resto. Prima anche delle altre guerre, nelle quali gli eserciti in campo almeno sono due.
A tutti noi, e alla popolazione di Gaza, e ai suoi eroici sanitari in primo luogo, gli auguri allora di un 2024 che faccia fare al mondo qualche passo avanti in direzione della giustizia e della pace.
E a tutti noi l’augurio di contribuire, per quel che possiamo, ad aiutarlo a compierlo.N.B. E’ in corso di costituzione un coordinamento nazionale di operatori sanitari per Gaza che sta preparando una manifestazione in varie città italiane (a Genova ore 16, Piazza De Ferrari angolo Ducale) per il 13.1 ed altre iniziative di informazione. Chi è interessato ad aderire e ricevere materiale informativo può farlo inviando i suoi dati a: sanitaripergaza@gmail.com Sarà ricontattato.
Per questo, il mio bilancio del 2023, che segue quelli che scrivo dal 2015 ed è possibile trovare su questa rubrica, ha trascurato le altre notizie di politica internazionale, o quelle sui libri di psichiatria o affini pubblicati, o le ricorrenze, o la commemorazione dei colleghi scomparsi nel corso dell’anno, lo stato dei servizi. Il rumore assordante delle bombe in quella che è una piccola striscia di terra densamente popolata, il massacro della popolazione civile che lì vive intrappolata, come viene battuto il pesto nel mortaio, senza scampo, costretta a spostarsi da un luogo all’altro senza che nessun luogo sia sicuro, la strage dei sanitari, degli ospedali, questa notte vengono prima di tutto il resto. Prima anche delle altre guerre, nelle quali gli eserciti in campo almeno sono due.
A tutti noi, e alla popolazione di Gaza, e ai suoi eroici sanitari in primo luogo, gli auguri allora di un 2024 che faccia fare al mondo qualche passo avanti in direzione della giustizia e della pace.
E a tutti noi l’augurio di contribuire, per quel che possiamo, ad aiutarlo a compierlo.N.B. E’ in corso di costituzione un coordinamento nazionale di operatori sanitari per Gaza che sta preparando una manifestazione in varie città italiane (a Genova ore 16, Piazza De Ferrari angolo Ducale) per il 13.1 ed altre iniziative di informazione. Chi è interessato ad aderire e ricevere materiale informativo può farlo inviando i suoi dati a: sanitaripergaza@gmail.com Sarà ricontattato.
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