Percorso: Home 9 Rubriche 9 PENSIERI SPARSI 9 UN ANGELO AL QUALE TIRANO DIETRO LE PIETRE. Recensione di “Psicoanalista senza muri. Diario da un’istituzione negata” di Paolo Tranchina

UN ANGELO AL QUALE TIRANO DIETRO LE PIETRE. Recensione di “Psicoanalista senza muri. Diario da un’istituzione negata” di Paolo Tranchina

3 Set 23

A cura di ct

Titolo:  Psicoanalista senza muri. Diario da un’istituzione negata
Autore: Paolo Tranchina
Editore: Moretti & Vitali
Pagine: 265
Prezzo: euro 20

Ho esposto recentemente (Ritorno a Basaglia?, 2022) e spero di poter presto ribadire (Franco Basaglia, un profilo, in stampa), quanto credo, per parte mia, che la conoscenza delle esperienze di deistituzionalizzazione che hanno avuto luogo in Italia tra gli anni ’60 e ’70 sia oggi preziosa per orientare il lavoro quotidiano, dalle grandi alle piccole cose, di chi lavora nel campo della salute mentale. Lavoro che certo è stato radicalmente trasformato dalla chiusura degli ospedali psichiatrici, ma che mantiene inalterate alcune caratteristiche nei rapporti complessi che legano il malato al curante, al sistema di cura, la famiglia, la società.
Credo che chiunque non abbia avuto la fortuna di vivere direttamente quelle esperienze emozionanti, straordinarie, formidabili (epiche anche) di deistituzionalizzazione – e siamo ormai la totalità dei lavoratori attivi nel servizio pubblico, a essere in questa situazione – debba approfittare perciò senz’altro del diario che Paolo Tranchina, al quale abbiamo dedicato in occasione della morte nel 2018 un ricordo su questa rubrica (segui il link), tenne della sua esperienza presso l’ospedale psichiatrico di Arezzo diretto da Agostino Pirella tra il settembre 1972 e l’agosto 1975.
Vi troverà raccontati, con la freschezza che è caratteristica del diario, i fatti (grandi e piccoli) e soprattutto i dubbi e le emozioni di una persona e di uno psicoanalista in quella situazione.
Non ho alcuna esitazione perciò nel consigliare la lettura, che mi ha autenticamente appassionato, di questo testo che, dopo una prima pubblicazione sulla “Collana dei Fogli di Informazione” nel 1989, viene oggi meritatamente rilanciato, forte di una corposa introduzione di Alessandro Ricci – che si aggiunge alla prefazione alla prima edizione di Lidia Campagnano e alla presentazione dell’attuale di Graziano Valent e Maria Rosa Tinti – nel mercato editoriale, anche se certo non in quello main-stream disattento ormai da anni a questo genere di letteratura dopo averlo con mutuo vantaggio coccolato allora.
«Dopo neanche un mese dal suo arrivo ad Arezzo» – scrive Ricci – «Paolo è già lì sulla scena quotidiana di un’impresa titanica, alle prese con il paziente più regredito, con il gruppo di infermieri più ostile, con l’assemblea più difficile».
Pirella, racconta Ricci, era già da un anno ad Arezzo all’arrivo di Tranchina e alcuni punti centrali destinati a orientare il cambiamento erano già patrimonio comune di chi vi era impegnato: che non si dovesse ricorrere alla contenzione; che non si dovessero mai trasferire malati dai reparti meno regrediti a quelli più regrediti, ma solo il contrario (si trasferisce “solo in su”, verso la guarigione; mentre nell’altra direzione, quella della cronicità, si cerca di tener duro e non cedere); soprattutto, quindi, che tra i pazienti, dovendo operare delle scelte, bisognasse partire dagli ultimi, i più gravi, i più regrediti, i più poveri; che all’assemblea generale dovesse essere destinata la preziosa sala creata per gli eventi scientifici, che fino ad allora era interdetta ai malati.
L’Amministrazione provinciale, di sinistra, è favorevole all’esperienza; per questo ha voluto lì Pirella e ha chiamato molti giovani medici ad affiancarlo e anche uno psicologo psicoanalista, Tranchina appunto.
Pagina dopo pagina, scrive Ricci, «la giornata di lavoro si squaderna sotto i nostri occhi e ci fa vedere da vicino di cosa è fatto il prodigio di un luogo di morte che riprende vita (…) c’è la riunione del mattino all’inizio della giornata, ci sono le assemblee di reparto coi pazienti e gli infermieri, poi la loro verifica; ci sono i pazienti impossibili da gestire, le riunioni al cambio di turno, le assemblee generali due volte la settimana, le riunioni dell’équipe, di nuovo altre verifiche; poi gli incontri con le famiglie dei degenti, dentro e fuori l’Ospedale. E poi c’è da cucire tutto questo».
Della sua esperienza ad Arezzo Paolo aveva già scritto nella quarta parte del suo Norma e antinorma. Esperienze di psicoanalisi e di lotte antistituzionali (Feltrinelli, 1979), ma l’intento qui è diverso. Se quello, infatti, è un testo volto allo sforzo di trarre dall’esperienza la teoria della prassi antistituzionale – un impegno collettivo nel quale poi Paolo si spese per tutta la vita vivendolo come un impegno etico contratto verso chi lo aveva mosso i primi passi, in primo luogo Basaglia – questo invece è la testimonianza diretta, il resoconto dei piccoli e grandi fatti dove largo spazio trovano soprattutto le sue emozioni.
È un testo più affascinante, coinvolgente e di piacevole lettura rispetto all’altro, insomma.
“Un angelo al quale tirano dietro le pietre”. Questa è la definizione che uno dei malati dà della presenza di Paolo Tranchina, all’epoca giovane psicoanalista già abbastanza affermato che ha scelto di prendere parte all’esperienza di deistituzionalizzazione diretta da Agostino Pirella all’ospedale psichiatrico di Arezzo.
Forse perché, da osservatore acuto ed esperto della sofferenza, quel malato ha colto le difficoltà di Paolo con i malati, i più regrediti dell’ospedale, poco interessanti a prima vista sul piano psicopatologico e prognosticamente meno promettenti, che in una situazione “normale” sarebbero stati lasciati dagli psichiatri a se stessi, “liberi” di regredire e disumanizzarsi sugli ultimi gradini di quella che Goffman chiama la “carriera” del malato mentale.
Ma che in quella situazione ci si ostina invece a convincere, faticosamente, a non sbavare, a rimanere vestiti, a ritornare a un comportamento che consenta loro di essere accettati nel consorzio delle persone.
O forse per le difficoltà incontrate con i colleghi, medici e infermieri, in questa sua posizione poco chiara, di psicoanalista fuori “luogo” (se il luogo è il lettino), e poco strutturata, che lo fa sentire permanentemente sotto esame da parte di tutti.
O forse ancora per esprimere, come gli suggerisce un collega più audace (forse troppo audace) nell’interpretare, l’invidia che la dedizione di Paolo suscita in lui.
Fatto sta che se qualcosa è palese nelle parole di Tranchina è che ad Arezzo come già a Gorizia la deistituzionalizzazione parte dagli ultimi o, se lascia qualcuno indietro, deistituzionalizzazione non è. Così, l’impegno di Paolo parte dal padiglione degli “Inquieti”, quello che in altri manicomi veniva chiamato degli agitati, che nel corso della deistituzionalizzazione accoglie i malati più regrediti dalle Infermerie, quelli che della loro dignità hanno perso giorno dopo giorno anche il ricordo.
E tra gli inquieti, quello su cui di più sceglie di investire è il più inquieto di tutti, che non sopporta di rimanere vestito, lacera gli indumenti e si aggira nudo per il reparto, incapace ormai di parola, mordendo gli sfortunati che gli capitano a tiro (il caso è illustrato anche in Tranchina, 1979, pp. 230-1). Eppure Paolo racconta di come anche con quell’ultimo degli ultimi, investendoci tempo, attenzione, pazienza si possono avere risultati straordinari, piccole ma grandissime soddisfazioni. Oppure su un altro, quello che si ciba di tutta l’erba e le foglie che trova; che Paolo sceglie di curare spostando gradatamente la sua attenzione verso le foglie commestibili dell’insalata… è la cura dell’insalata, allora? Beh pare di sì, e almeno in questo caso funziona.
Sono gli ultimi, perché anche in ospedale psichiatrico si incontravano tra gli ultimi gli ultimi degli ultimi; e Paolo riflette su uno di loro: «Ha passato tutta la vita in ospedali vari. Non ha avuto niente dalla vita. Ce n’è tanti come lui in questa società che dà ad alcuni tutto e ad altri, come lui, assolutamente niente se non un minimo di sopravvivenza, fino alla morte. Quando mi sembra che i miei problemi e le mie disgrazie siano quasi insopportabili, penso a persone come Pierluigi».
Partire dagli ultimi. Perché di una psichiatria che non pone al centro gli ultimi – i più poveri, i più gravi, i meno autonomi, i più violenti, i più ribelli ecc. – non ci si può fidare, questo Tranchina insegna in queste pagine vibranti di passione.
Potrebb sembrare scontato, ma non lo è; e a volte per ragioni altrettanto rispettabili.
E so che con questo potrò far arrabbiare qualcuno, ma mi chiedo se non occorrerebbe riflettere oggi, quando la psichiatria rischia di sentirsi troppo attratta dalla corsa verso i “giovani”, su quanto sia lecito privilegiare, in base a scelte di carattere strategico diverse da quella di dover partire dagli ultimi, categorie di pazienti rispetto ad altre e su cosa questo significhi e comporti.
I giovani perché mediamente sono più vitali, simpatici e interessanti, perché a prognosi migliore secondo osservazioni che risalgono addirittura ai primi decenni dell’Ottocento, perché sono ancora poco gravati dal carico e dalle abitudini della malattia, si sa; ma la psichiatria, come la medicina, non dovrebbe forse compiacersi troppo di “vincere facile”. Non dovrebbe essere troppo preoccupata dei risultati, perché dare risultati quando si parte da più indietro vale di più; e perché forse, nella cura come nell’amore, bisognerebbe sempre ricordare che “ogni lasciata è persa”. Perché la coperta è quella che è; e a spostarla troppo da una parte si rischia di lasciare qualcun altro al freddo. Perciò:  bene certo occuparsi dei giovani, ma senza esagerare rispetto agli altri, io credo, e senza dimenticare mai questo insegnamento: che è dagli ultimi che la sanità deve partire.
Dobbiamo prestare attenzione perché di una psichiatria e di una medicina disposte a lasciare gli ultimi indietro c’è poco da fidarsi. E lo sanno forse anche quei giovani, oggetto oggi di tanta attenzione e corteggiamento che però, in caso di insuccesso, dovrebbero essere consapevoli di correre il rischio anch’essi di trovarsi nel giro di qualche anno tra gli ultimi, quelli sui quali per una psichiatria baldanzosa e forse troppo preoccupata di mietere apparenti successi può non valere più la pena d’investire.
Perciò, meglio per tutti che nessuno resti indietro; perché se vedo che qualcuno resta indietro, so che un giorno o l’altro a essere lasciato indietro potrei essere anch’io.
Partire dagli ultimi, dunque, ad Arezzo come a Gorizia, da quelli con i quali non è possibile la parola e la comunicazione deve accontentarsi di un gesto, il dono di una sigaretta, un atto anche minimo di riconoscimento.
Senza stancarsi di riproporre subito gli abiti, anche se sono appena stati strappati per girare nudi, e di riproporli ancora e ancora, senza scoraggiarsi. Senza provare imbarazzo di fronte agli atti che allontanano, creano fastidio e scandalo: «Ieri in assemblea abbiamo gestito Paolino che si sbava tutto e si tiene sempre le mani in bocca. È abbastanza disgustoso a guardarsi ma a pulirgli le mani e tenendolo vicino smette di ficcarsele in bocca».
Proprio nei giorni che leggevo queste pagina, ci è capitato di lavorare in ospedale con un paziente caduto in un grado estremo di regressione, che lo rendeva diverso da come lo avevamo sempre conosciuto e imbarazzante; non so come evolveranno le cose per lui, ma credo che se ce la farà ad uscirne, lo dovrà un po’ anche al coraggio che questo libro mi ha dato per guardare da un’altra prospettiva la sua situazione e mantenere la prognosi (la speranza) aperta.
Partire dagli ultimi ed essere disposti a ricevere, a volte, anche qualche colpo violento e tenerselo senza lamentarsi, e anzi forse vergognandosi un po’ di quello che può essere stato anche da parte propria un errore tecnico: averlo forse incautamente provocato, non averlo saputo evitare. Del resto, è per la causa! Una causa nella quale Paolo credeva allora, e ha continuato poi sempre a credere.
E forse tanta lamentosità che a volte oggi si avverte nei gruppi a ogni stormir di fronda – non mi riferisco certo ai fatti gravi di violenza dei quali a volte si può rimanere purtroppo vittima nel lavorare in psichiatria (segui il link), ma alle minuzie probabilmente inevitabili in un rapporto che è per sua natura conflittuale – ha a che fare anche con il fatto che non si sa più bene per quale causa si stia lavorando.
Il racconto si snoda così tra momenti di confronto gratificanti e bellissimi, e la durezza che lo scontro istituzionale talvolta comporta. Il mutare dell’atmosfera del reparto al mutare delle stagioni, quando l’inverno si sta tutti chiusi e la promiscuità forzata aumenta gli atti violenti. L’ansia per i malati che fuggono, lo sforzo costante di evitare l’incidente. Ma anche le soddisfazioni e le belle sorprese, che a lavorare sodo in psichiatria non mancano. Il continuo mettersi in discussione, considerare criticamente tra tutti i comportamenti, in primo luogo il proprio. Il verificare (è il termine con il quale nel testo ci si riferisce alla discussione a posteriore tra gli operatori sui fatti, in dialogo o in gruppo) continuamente dove si può aver sbagliato, verificarlo da soli, con un altro, in piccoli gruppi, in grandi gruppi: «Ieri ero abbastanza giù, l’opera è stata completata quando Cavelli mi ha dato un pugno (…). Sono troppo aggressivo, provoco nel reparto, non so essere con l’altro senza fare», confessa Paolo a se stesso a un certo punto.
Si ragiona delle dinamiche che attraversano i gruppi dei medici, degli infermieri, chi si è appassionato alla nuova linea, chi per mille ragioni fatica ad abbandonare la vecchia. Dell’ideologia, il pregiudizio, lo stigma  dei quali l’istituzione nonostante tutto è impregnata, che spuntano fuori quando meno li aspetti: a tavola tutti insieme si mangia e si beve, medici infermieri e malati, ma poi qualcuno rifiuta di bere a un bicchiere dopo che «ci ha bevuto un malato».
Difficile, dunque, per il personale interiorizzare il fatto che le cose possano davvero cambiare, ma difficile anche per il malato che, comprensibilmente, stenta a fidarsi: «”Adesso mi date una mano di nappate”. “Ma allora è questo che vuoi verificare, chi è più forte e se tu puoi fare quello che vuoi senza essere aggredito. Mi sembra che questa esperienza l’hai già fatta. È un’ora che stiamo qui a parlare con te”».
A un certo punto, Paolo nota che ci sono due volontarie che vanno al cinema con due “inquieti” dell’ospedale psichiatrico: qualcosa si smuove davvero, nonostante tutto, un po’ di apprensione, ma poi va tutto liscio.
Il suo è un continuo “apprendere dall’esperienza”, insomma, e lungo il diario ne snocciola perle preziose: a partire da quello che, chiacchierone e conviviale com’è sempre stato, scrive del silenzio: «La sera è tornato un po’ in crisi e si è stati con lui in silenzio per un po’. Può essere difficile stare in silenzio perché magari ci si sente stupidi, e il nostro ruolo ci spinge ad agire, ma per il malato può essere molto importante perché gli si offre il messaggio: “Sto con te senza volere niente”, che è proprio il contrario di ciò che ha sempre avuto, imposizioni, manipolazioni ecc. (…). Quando mi sono alzato, Vittorio mi ha chiesto di dove ero. Voleva che restassimo ancora con lui e continuare quello spazio di comunicazione muta (…). Si è capita così l’utilità del silenzio, di quello che stavamo “essendo” insieme, come direbbe Hill, “essere con” anziché “fare con”.
Un altro aspetto che emerge è la necessità di un equilibrio, sempre difficile da individuare, tra lavoro di gruppo e relazione individuale operatore-malato: «L’unico livello di gestione garantita è un livello comunitario di coinvolgimenti multipli per cui Santino sia il paziente del servizio, di tutti. Non che questo eviti rapporti personali a due anche molto prolungati o intensi, che sono sempre fondamentali».
O un altro aspetto ancora il rischio di un eccesso di intervento nella cura: «Guardando giocare i ragazzi e gli altri ricoverati viene sempre voglia di dirigerli, di dire loro cose secondo quella che è la nostra norma, cosa fare e non fare. Per accettarli, invece, non basta sospendere il giudizio, bisogna dire di no a se stessi, alle nostre aspettative superegoiche e lasciarli invece a svilupparsi». È il permissivismo, del quale parla Rapoport a proposito delle prime comunità terapeutiche britanniche.
Non tutto, però, può essere permesso, accettato. Si può anche “litigare” con il malato: «Arrabbiato, ha detto che tutti ce l’hanno con lui; gli ho detto, arrabbiandomi e gridando anch’io, che non era vero, che era inutile che assumesse quel tono provocatorio, che doveva collegare la negazione del permesso di uscire dal reparto col suo comportamento di questo periodo, che lo tenevamo dentro perché eravamo stufi di passare le serate a cercarlo in giro al buio, con la macchina».
E si può perfino, all’interno di un rapporto umano autentico, arrivare a mettergli le mani addosso per trattenerlo, ma solo per poco tempo e rimanendo comunque accanto a lui: «Alla fine gli siamo saltati addosso e lo abbiamo messo dietro alla macchina di Guelfi con due infermieri che lo tenevano».
Centrale per lo picoanalista Tranchina è la relazione tra lavoro analitico e lavoro istituzionale, insomma il fatto che lo psicoanalista, dopo il divano, perda adesso anche i muri, e qui sta la differenza con la terapia istituzionale di Racamier, mi pare: «Qui la differenza con la psicoanalisi è radicale, infatti non ci muoviamo all’interno di un modello dato, ma cerchiamo di rispondere ai bisogni via via emergenti».
L’importanza per la riabilitazione di situazioni come il calcio (non la “calcio-terapia”!), nel quale si impara a dosare, regolare l’aggressività, e accade che: «cooperazione e scontro sono contigui, non si oppongono, convivono».
O di cogliere l’ironia di un paziente che, a proposito di un gruppo di curanti seduto a un bar, chiede a Tranchina cosa facciano e, alla risposta ovvia e banale di Paolo obietta: «no, vede che si sbaglia, bevono lo psico-caffé».

Apprendere, dunque, dall’esperienza, riflettere sugli aspetti centrali della relazione di cura, e nella situazione comunitaria sempre anche apprendere insieme: «Sento di voler un bene via via crescente ad Aldo [D’Arco] e [Paolo] Serra e sento che anche le mie invidie per Gian Paolo [Guelfi] si ricompongono nel lavoro comune. Sento di voler bene agli infermieri e ai ricoverati, via via a un numero sempre maggiore e questo mi riempie di emozioni».
Ma poi anche, in altri momenti: «Ne ho piene le scatole di tutte queste ipocrisie e vischiosità, separatezze e neoistituzionalizzazioni, con tutti chiusi nei reparti».
Delle riunioni di équipe quella che mi ha colpito di più ha avuto luogo il 16 gennaio 1975 e per oggetto la questione dell’amicizia con il paziente, con tanti diversi interventi, punti di vista, e un sistematizzazione che mi pare interessante della questione da parte di Pirella: «Bisogna capire meglio cosa vuol dire essere amico di un paziente, e come si concilia questo con il bisogno di curarlo e con la necessità di rispondere anche ai bisogni di tutti gli altri; insomma, come si concilia questa cosa dell’amicizia con nostro ruolo oggettivo nell’istituzione. Forse che ai nostri amici diamo i farmaci, o possiamo impedirgli di uscire di casa? E forse che con i nostri pazienti passiamo il nostro tempo libero, li scegliamo per le nostre vacanze e così via? Questo non toglie che i rapporti possano essere molto intensi, anche più dell’amicizia, a volte, m bisogna capire meglio il problema che c’è tra amicizia liberamente scelta  con il bisogno e rapporti terapeutici legati al ruolo».
Accanto alla quotidianità dell’ospedale psichiatrico, il diario offre anche opportunità di gettare uno sguardo intorno. Il rapporto non sempre facile con la città, le scritte ostili sui muri, gli attacchi politici e corporativi, e dall’altro lato le manifestazioni di solidarietà.
I rapporti dialettici con le forze conservatrici, ma anche quelli complessi con PCI e PSI, che sono fatti anche di singole persone.
L’incontro con tutto il gruppo basagliano, e con Basaglia, a Ferrara, e la constatazione che “è proprio simpatico”. Il rimpianto per la perdita di Gorizia, l’ammirazione per Trieste.
La partecipazione a Milano a un convegno di lacaniani organizzato da Armando Verdiglione e il commento: «Certi analisti di sinistra si sentono particolarmente rivoluzionari tacciando la risposta ai bisogni di codismo, adattamento, aiuto di tipo religioso-assistenzialistico, rispetto alla pura eversività rivoluzionaria del desiderio. Un lacaniano di sinistra è arrivato a dire che le nostre prassi sono un aggiornamento neocapitalistico della psichiatria tradizionale».
E dall’estero, Gaetano Benedetti che, in visita ad Arezzo, offre una sua lettura dei processi ai quali assiste individuando tre livelli ai quali il lavoro sta incidendo nei rapporti con il malato: il primo è il nuovo clima di ascolto e tolleranza, che tende a modificare la “strutturazione di un “Super-io sadico” che favorisce la scissione psicotica; il secondo è costituito dal coinvolgimento e la responsabilizzazione dei pazienti, che favoriscono l’estensione delle parti sane e il rafforzamento dell’io; il terzo dalla condizione comunitaria e il lavoro di équipe, che favoriscono processi di elaborazione e integrazione che contrastano quelli di scissione e frammentazione che sono caratteristici del lavoro istituzionale.
Ma anche i confronti con altri psicoanalisti attivi nel campo della psicoterapia delle psicosi, oltre a Benedetti, Norman Elrod, Sirala, Muller, i Lidz, poi i libri pubblicati da Paolo con coautori come Janine Chasseguet-Smirgel e Luce Irigaray. E poi altri incontri come quello con Mara Selvini Palazzoli e con Alma Menn, una collaboratrice di Loren Mosher nel progetto Soteria. E anche quello con figure originali e bizzarre, perché erano anni di audaci sperimentazioni (le si provava tutte), come la psicoterapeuta norvegese che, per difendersi da una paziente violenta che aveva in psicoterapia, durante alcune sedute la affrontava con il casco.
Questa nuova edizione del diario si conclude con interventi di persone che hanno voluto bene a Paolo. A partire da Cesare Bondioli, che coglie la differenza tra la presenza di Tranchina ad Arezzo e quella di altri psicoanalisti che in quel tempo giravano come supervisori negli ospedali psichiatrici nel suo “sporcarsi le mani”, nel suo essere contestualmente uno del gruppo di lavoro, attivo a partire dai malati più regrediti e attento come gli altri all’ascolto della loro parola, e quello che portava in più nel gruppo il punto di vista analitico.
Per proseguire con Paolo Serra e il ricordo delle difficoltà di Tranchina in quegli anni a tenere insieme il suo impegno nell’istituzione ad Arezzo e l’attività psicoterapeutica in studio a Milano, alla quale non aveva rinunciato del tutto, che solo perdere un treno poteva far saltare. E che presenta la lettera di un ricoverato che costituisce una delle migliori descrizioni che mi sia capitato di leggere di cosa è stato l’ospedale psichiatrico. Di Paolo sottolinea soprattutto l’ottimismo, l’ottimismo del cuore che aiuta a non soccombere neppure nel più drammatico dei reparti dell’ospedale, neppure di fronte al più difficile malato del reparto più difficile. Un ottimismo che è uno degli elementi costitutivi di questa storia, forse, Serra ha ragione, che promana da Franco Basaglia e che Pirella porta con sé ad Arezzo, dove Tranchina è lì per farlo suo.
Nel ricordo della moglie, Maria Pia Teodori, anche chi lo ha incontrato in poche occasioni, come me, lo riconosce agevolmente: è proprio lui, sì, generoso, entusiasta, chiassoso, esuberante, tutt’uno con i suoi Fogli d’Informazione. Così poco più che trentenne, nelle pagine di questo diario, e così fino alla fine. Appassionato, come ricorda la figlia Teresa, dal tentativo di «raccontare l’esperienza anti-manicomiale italiana con umanità e precisione, sentendo che questo era il suo compito: scrivere, raccontare, tramandare e diffondere. Con un senso di “collettivo” talmente alto, da essere quasi inconcepibile per coloro che hanno vissuto solo quest’epoca individualista e con deboli legami sociali».
Prima di lasciare la parola al diario, Ricci ricorda il suo ultimo incontro con l’autore sottolineandone la straordinaria vitalità e convivialità, da indomito toscano. E anch’io voglio ricordare il nostro ultimo incontro. Nell’intervallo di pranzo di un convegno romano, dei relatori eravamo rimasti indietro noi due e ci sedemmo a un ristorante, in fondo a via Nazionale, poco distanti i Fori e il Colosseo. Parlammo di molte cose, tra un boccone e l’altro. Tra le altre, mi raccontò di un progetto al quale lavorava, chiedendomi di collaborare. Si trattava di creare un CD che raccogliesse tutta la bibliografia relativa alle esperienze di deistituzionalizzazione. Mi pareva che fosse proprio il carattere gigantesco dell’impresa a entusiasmarlo. Mi diede un CD, ne aveva copie nella borsa, che era fermo al punto al quale era arrivato.
Non so a che punto fosse poi giunto il progetto quando è stato costretto a rinunciarvi; ma credo che questo diario potrebbe costituire un ottimo tassello di quella ambiziosa costruzione. A proposito della sua rilettura del libro cinquant’anni dopo le vicende narrate, infatti, Serra scrive di avere risentito i suoni, gli odori del reparto, riconosciuto persone, riprovato sentimenti verso di loro. Credo che quei suoni, quegli odori, quelle persone messe in quella situazione e soprattutto quelle emozioni, questo libro possa regalarle anche a coloro che, come me, non le hanno provate in modo diretto; ma hanno, credo, una grande necessità di conoscerle per fare dell’esperienza di allora la falsariga preziosa sulla quale poter leggere e migliorare l’esperienza di oggi.
Non certo per farne un mito, voglio tranquillizzare qualcuno; ma per riprendere a leggere in modo critico, ciascuno, il proprio lavoro e le proprie scelte. Che in psichiatria è sempre necessario.

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia