Otto anni fa, in occasione del lancio del primo numero della nuova rivista della SIP, Evidence-Based Psychiatric Care, Emilio Sacchetti – al quale sono grato per la fiducia accordatami in quell’occasione e per l’apprezzamento per i miei studi storici – mi propose di ricostruire la storia, che di triennio in triennio era andata perduta al punto che ormai non ci si ricordava con precisione neppure l’anno di fondazione, della società scientifica degli psichiatri italiani[i].
E oggi, in occasione del centocinquantenario di quell’evento che cadrà tra due giorni, vorrei riprendere qui quell’articolo e svolgere qualche ulteriore considerazione.
La Società Italiana di Psichiatria, inizialmente denominata Società Freniatrica Italiana, nacque in occasione della XI Riunione degli Scienziati Italiani che si svolse in Roma dal 23 al 28 ottobre 1873.
Il contesto non era casuale, perché nel corso delle Riunioni precedenti gli psichiatri italiani avevano avuto l’opportunità, anche molto prima dell’Unità d’Italia, di incontrarsi, tra tutti gli altri cultori italiani delle scienze, per scambiarsi opinioni su temi di comune interesse.
Nate su esempio tedesco – erano iniziate in Germania nel 1822 – francese (1832) e inglese, le Riunioni erano state volute da Carlo Luciano Bonaparte (1803-1857), principe di Canino, e da altri cinque studiosi, tra i quali il medico Maurizio Bufalini (1787-1875). La prima di esse si era tenuta a Pisa nel 1839, quindi oltre vent’anni prima dell’Unità d’Italia, sotto il patrocinio del granduca di Toscana Leopoldo II, nell’ambito del suo governo illuminato.
La medicina rappresentava una delle sei sezioni in cui era articolato il dibattito e, nel suo ambito, non fu infrequente che la discussione cadesse su temi che toccavano più o meno direttamente la psichiatria .
Dopo la prima, le successive riunioni si tennero a Torino (1840), Firenze (1841), Padova (1842), Lucca (1843), Milano (1844), Napoli (1845), Genova (1846), dove fu discussa la proposta del gruppo napoletano di una classificazione delle malattie mentali su base frenologica, Venezia (1847), quindi nei principali stati preunitari con esclusione dello Stato pontificio che ebbe verso di esse fin dall’inizio un atteggiamento sospettoso e ostile.
I partecipanti furono inizialmente poche centinaia, ma giunsero poi a superare i 1.600. Bisogna del resto considerare i trasporti di allora, che non rendevano agevoli gli spostamenti; e il fatto che chi decideva di partecipare non poteva contare certo su sponsorizzazioni di sorta.
Molti psichiatri appartenenti alla prima generazione italiana presero parte ad alcune di esse e tra di loro possiamo ricordare Benedetto Trompeo (1796(7)-1872) di Torino, Biagio Miraglia (1814-1885) e Timoteo Riboli (1808-1895) di Napoli, Pier Francesco Buffa (1813-1844) di Genova; e molti temi di interesse psichiatrico vi furono trattati.
Con i disordini del 1848-49 e la prima Guerra d’Indipendenza che vedeva opposti tra loro alcuni degli Stati preunitari questo primo ciclo venne sospeso dai governi della penisola che se ne sentivano minacciati e le Riunioni ripresero solo dopo l’Unità d’Italia a Siena (1862), dove gli psichiatri presenti discussero una prima proposta di legge nazionale sull’assistenza psichiatrica, per poi proseguire con minore regolarità rispetto al ciclo precedente appunto a Roma (1873) e poi a Palermo (1876).
A determinarne la crisi e il carattere discontinuo non fu solo il fatto di aver perso, con la fine del Risorgimento, il carattere politicamente originale e dirompente – costituivano la più importante occasione di confronto scientifico internazionale tra gli italiani della penisola e contenevano un’implicita aspirazione unitaria – ma anche il fatto che, come osservò Andrea Verga (1811-1895) in occasione della riunione romana, l’evoluzione delle scienze e l’aumento dei loro cultori rendeva necessario che gli scienziati italiani continuassero a coltivare le proprie discipline prendendo atto della parcellizzazione del sapere che si era verificata nel corso del secolo, e quindi mantenendo lo stesso spirito ma in modo autonomo gli uni dagli altri.
Sodalizi volti a riunire tutti gli psichiatri di un Paese e offrire loro un luogo di confronto, del resto, esistevano già in Gran Bretagna dal 1841, negli Stati Uniti dal 1844, in Francia dal 1852 e in Germania dal 1864.
Non stupisce perciò l’aspirazione degli psichiatri italiani ad avere a loro volta una società scientifica nella quale potersi riunire tutti.
Un primo tentativo in tal senso era stato operato dal napoletano Biagio Miraglia con la Società Frenopatica Italiana fondata ad Aversa nel 1861, ma aveva avuto, forse anche per l’insistito riferimento alla frenologia di Gall che erano ormai in pochi a condividere, vita di pochi anni.
Alla Riunione di Siena del 1862, poi, non era stato possibile procedere in questa direzione per lo scarso numero di alienisti presenti.
Per questa ragione, sull’Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali, fondato da Andrea Verga a Milano nel 1852 come Appendice psichiatrica alla Gazzetta medica Italiana, nel settembre 1873 comparve un invito agli alienisti italiani, a firma Verga e Biffi, a partecipare numerosi alla riunione romana del mese successivo.
Il 23 ottobre 1873 era presente a Roma una dozzina di soggetti interessati, tra i quali oltre a Verga gli psichiatri Carlo Livi (1823-1877) di Siena, Clodomiro Bonfigli (1838-1909) di Ferrara, Giuseppe Girolami (1809-1878) di Roma, Cesare Lombroso (1838-1909) di Pavia, Gaetano Cappelli di Lucca, Paolo Fiordispini di Roma, Antonio Michetti (1829-1909) di Pesaro, Giuseppe Neri di Perugia.
A parte il Verga, si tratta prevalentemente di psichiatri dell’Italia centrale, per i quali recarsi a Roma era più facile, ma altri aderirono all’iniziativa pur se assenti e tra di essi vengono ricordati Serafino Biffi (1822-1899) di Milano, Stefano Bonacossa (1804-1878) di Torino, Biagio Miraglia (1814-1885) di Napoli, Agostino Sbertoli (1827-1898) di Pistoia, Francesco Pignocco di Palermo, Augusto Tamburini (1848-1919) di Reggio Emilia, Roberto Adriani di Perugia, Lorenzo Monti di Colorno, Enrico Toselli di Racconigi, Enea Bettini di Ferrara.
Erano almeno due generazioni di psichiatri: alcuni come Bonacossa, Girolami, Verga nati nnel primo decennio del secolo, altri come Tamburini decisamente più giovani. Alcuni di essi (Livi, Verga, Lombroso…) si erano impegnati in gioventù nell’aspra epopea del Risorgimento, e credo che questo testimoni della stretta connessione tra questione psichiatrica e questione democratica nella storia italiana.
Ma non erano tutti psichiatri i presenti all’atto fondativo e dobbiamo ricordare anche l’architetto Francesco Azzurri (1827-1901), che era socio corrispondente della Societé Médico-Psychologique e in quegli anni progettò i manicomi di Santa Maria della Pietà in Roma e quelli di Siena e Alessandria; i medici Giulio Bastianelli e Clito Carlucci (1810-1879), quest’ultimo protagonista del Risorgimento e primo rettore dell’Università di Roma dopo l’Unità; e Giuseppe Domenico Pinelli in rappresentanza dell’Associazione Nazionale degli Scienziati.
Verificata l’intenzione di costituire una Società scientifica nel campo della psichiatria, quello stesso 23 ottobre furono nominati presidente della riunione Girolami, e segretario Bonfigli.
Ad aprire la discussione fu Verga, il quale constatava come la nascita di una società scientifica degli alienisti italiani nascesse da due circoztanze: la crisi delle riunioni generaliste degli scienziati, definite da qualcuno “moribonde” da un lato, e dall’altro il fatto che: «li scienziati italiani in quest’ultimo decennio poterono persuadersi, che i medici alienisti sono ormai in numero tale da poter fare da sé».
I quattro obiettivi che Girolami identifica sono dunque: costituzione di una società scientifica; richiesta al governo di una legge «che tuteli gli interessi degli alienati»; classificazione uniforme delle malattie mentali; progetto di una statisica generale degli alienati.
Inizia quindi il confronto su due proposte di programma, del Biffi e dello Zani, che era nel frattempo deceduto, e il primo problema affrontato è quello della delimitazione dell’ambito di pertinenza della costituenda società scientifica e, conseguentemente, della denominazione.
Una prima ipotesi è Società medico-psicologica, sull’esempio francese, con l’intenzione di includervi i filosofi cultori di psicologia (oggi si tratterebbe degli psicologi); a questa ipotesi, caldeggiata da Verga, Livi, Girolami e osteggiata da Bonfigli e Lombroso, e a quella di denominarsi “Società Psichiatrica”, si aggiunse quella di Livi di denominarsi “Società Freniatrica”.
Livi pose poi alcuni quesiti specifici riguardanti la commistione di uomini e donne nei manicomi. La giornata terminò con la nomina di due commissioni: una, composta da Verga, Livi e Lombroso, sulla costituzione della Società scientifica; e l’altra, composta da Neri e Cappelli, sul rapporto tra uomini e donne nei manicomi.
Dopo un giorno dato evidentemente alle commissioni per lavorare, la seduta riprese il giorno 25 bocciando la proposta di Verga di fare riferimento a “psyche”, a vantaggio di quella di Livi, con riferimento a “fren”. Quest’ultima ipotesi fu preferita perché, come avrebbe confermato Livi stesso due anni dopo, allorché si trattò di scegliere un titolo per la nuova rivista scientifica del manicomio di Reggio Emilia, la Rivista Sperimentale di Freniatria, fu considerata più consona a rappresentare il carattere insieme fisico e morale (cioè organico e psicologico) della disciplina.
La scelta sarebbe stata poi ribaltata nel 1930 allorché, l’anno successivo alla morte di Enrico Morselli che può essere considerato l’ultimo dei patriarchi della psichiatria positivista che diressero la Società dal 1873 al 1929, attraverso un referendum tra i soci fu adottata la denominazione attuale di Società Italiana di Psichiatria, in considerazione del fatto che questo termine era ormai largamente prevalso nel linguaggio comune.
Infine, anche la scelta di aprire fin dalla denominazione l’ambito di pertinenza della nuova Società ai medici legali, caldeggiata da Livi e Lombroso, venne respinta a maggioranza, scegliendo così di focalizzare sulla psichiatria il campo di pertinenza.
Viene così approvato all’unanimità, dopo alcune modifiche, lo Statuto approntato dalla commissione, a proposito del quale è interessante soffermarsi almeno su qualche articolo.
A partire n. 1, che individuava gli scopi della nuova Società: «l’incremento degli studi freniatrici, il progresso degli istituti manicomiali, la tutela e il vantaggio degli alienati».
L’articolo 2 ammette al nuovo sodalizio oltre agli alienisti tutti i medici, giuristi, cultori delle scienze naturali e filosofiche e «tutti coloro insomma che in qualsiasi modo intendono giovare alla causa degli infelici alienati».
È un punto che mi pare rilevante, perché testimonia come scopo precipuo della costituzione della società scientifica fosse la tutela degli interessi, sia di carattere clinico che politico-amministrativo, dei malati, e non quello della risposta alle esigenze, di carattere identitario o di altro genere, degli psichiatri, ai quali avrebbe potuto semmai provvedere un sindacato, come fu ad esempio a metà del XX secolo per l’AMOPI.
A questi soci effettivi se ne sarebbero aggiunti degli onorari, da scegliersi tra gli alienisti più illustri delle altre nazioni.
Fu stabilito che i soci si sarebbero riuniti in congresso con cadenza triennale e il primo congresso avesse luogo tre anni dopo. Che la carica di presidente avesse durata triennale, che ad ogni congresso si sarebbe stabilita la sede di quello successivo, che la nuova società si sarebbe dotata di un periodico, e l’Archivio ebbe quindi come sottotitolo dall’anno successivo quello di “organo della Società Freniatrica Italiana”, oltre che la quota d’iscrizione e quella annuale..
Domenica 26 ottobre si tenne una seduta straordinaria per discutere le disposizioni transitorie da aggiunggersi allo statuto. Che gli alienisti presenti all’incontro fossero considerati soci fondatori, che la prima sede della società sarebbe stata Milano, che il primo congresso sarebbe stato nell’autunno 1876 (fu poi invece anticipato al 1874, tanto era il desiderio di tenerlo).
Si procedette quindi all’elezione del primo presidente, carica che sarebbe stata di durata triennale, nella persona di Andrea Verga, affiancato da Serafino Biffi (1822-1899) – il quale gli sarebbe succeduto poi nel 1891 – nella carica di tesoriere-segretario.
Quanto ai quesiti posti dal Biffi, la commisione propose che il servizio femminile nei reparti maschili fosse “sconveniente” per molteplici ragioni, tra le quali quella che «le donne sono per natura deboli, timide, troppo tenere e troppo inchinevoli alla dolcezza» (i colleghi non avevano visto evidentemente Qualcuno volò sul nido del cuculo).
Ci fu discussione sulla scelta della sede del primo congresso tra Imola e Siena, ed avendo le due proposte pari sostegno la scelta fu demandata al presidente, che optò per Imola, dove infatti si tenne l’anno successivo con un centinaio di partecipanti.
Altri temi principali discussi in quella fase iniziale furono quello, di carattere nosografico, dei criteri da adottare per pervenire a una classificazione italiana, e quindi a una statistica nazionale, dei disturbi mentali; e quello, di carattere politico-organizzativo, delle caratteristiche che avrebbe dovuto avere una legge nazionale relativa all’assistenza agli alienati e ai manicomi, della quale si avvertiva l’esigenza. Un terzo tema, quello dei manicomi criminali, non trovò spazio al Congresso di Imola, dove fu però impostato, come abbiamo già ricordato in questa rubrica, dal Biffi (segui il link), ma rinviato al secondo Congresso che ebbe luogo ad Aversa nel 1877 per la discussione[ii].
Certo quei giorni dell’ottobre 1873 sono ormai lontani un secolo e mezzo, e non è comune ritrovarne traccia nel dibattito odierno[iii].
Pure, i temi che vedevano allora interessata la Società scientifica (nosografia, statistica, normativa, sicurezza) sono sorprendentemente uguali a quelli anche oggi all’ordine del giorno. In questi 150 anni essa ha dovuto affrontare molti passaggi importanti, dalla sciagurata scelta di dividere la responsabilità dell’insegnamento da quella della direzione dei manicomi adottata negli ultimi due decenni dell’Ottocento, che avrebbe posto la questione del rapporto tra “ospedalieri” e universitari e quella della lunga egemonia dei seconfi (molti dei fondatori erano l’una cosa e l’altra, altri erano solo ospedalieri), all’approvazione della legge 36 nel 1904, alle connivenze con il regime fascista ivi compresa l’adesione al Manifesto degli scienziati razzisti (segui il link), alla subalternità culturale e scientifica alla neurologia, alla graduale contestazione del manicomio, alla nascita della psicofarmacologia e l’insistente invadenza da parte delle aziende, alla rinascita delle prime cattedre di psichiatria, all’approvazione della legge 180 nel 1978 e alla costruzione di un modello originale di assistenza senza manicomio.
Ma tutte queste c sesarebbero avvenute solo in seguito e i fondatori in quelle giornate non avrebbero potuto neppure lontanamente immaginarlo.
Un’osservazione, a un secolo e mezzo di distanza, però, mi pare utile proporre.
Ed è che la Società nacque dal desiderio di Andrea Verga e degli altri di costruire un sodalizio capace di sforzarsi di tenere dentro e rappresentare tutte le diverse anime della psichiatria italiana. La società, in altre parole, non avrebbe dovuto perseguire lo scopo di rappresentare una parte, sostanzialmente omogenea al suo interno, nel dibattito tra gli psichiatri italiani, ma all’opposto quello di aprirsi per far sì che tutti gli psichiatri italiani sentissero di poterne far parte, potervi contare e trovare sufficiente spazio per discutere tra loro. Anche di questioni scomode e divisive, come potrebbero essere oggi la contenzione fisica, i rapporti finanziari con l’industria farmaceutica, le scelte più utili ai malati nel campo dell’organizzazione dell’assistenza, l’adeguatezza della formazione fornita dall’università alle esigenze dei servizi ecc.
Certo, possiamo ben immaginare che per psichiatri più sensibili alla filantropia e più vicini al paradigma alienistico come Verga e Biffi non fosse facile costituire una società scientifica insieme, ad esempio, con uno anticlericale e sensibile al paradigma degenerazionistico (e nel ricorso a questi termini dedico un ricordo affettuoso a Luciano Del Pistoia) come Lombroso, le cui idee in molti casi, a partire dal rapporto tra cura e custodia, dall’utilizzo del manicomio criminale o dalla pena capitale, per non parlare di idee generali nel campo politico-religioso e dei metodi di ricerca, certo non condividevano. Ma tutti ebbero la capacità di comprendere che nella Società doveva esserci spazio tanto per gli uni, quanto per gli altri, e in generale per opinioni contrastanti, o società freniatrica “italiana” non avrebbe potuto essere.
I fondatori, insomma, parevano avere chiaro che per una società autenticamente scientifica il confronto tra posizioni diverse e la possibilità di mettere in discussione le decisioni della leadership costituiscono un elemento di ricchezza, e non un problema o addirittura un fastidio.
Nell’immagine: Andrea Verga
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