Al termine di questo excursus sulle scale di valutazione della depressione, vogliamo esporre alcune considerazioni conclusive su questo argomento. Parlando della scala di Plutchik e van Praag (1987), abbiamo detto che gli Autori, avendo rilevato un’elevata correlazione fra la PVP, basata esclusivamente sui criteri diagnostici del DSM-III, e 4 scale più vecchie, create ben prima della definizione di specifici criteri diagnostici, sottolineavano, da un lato, la sostanziale stabilità della sintomatologia depressiva nel tempo e, dall’altro, la profonda conoscenza che i creatori di quelle RS avevano della patologia depressiva. In realtà questa correlazione esiste soltanto sul piano della valutazione globale poiché se andiamo ad esaminare, come ha fatto Faravelli (1983), il peso assegnato alle diverse componenti del quadro depressivo nelle diverse RS, appare evidente la diversa concezione che le sottende. Il quadro clinico della depressione è perciò sostanzialmente uniforme soltanto in apparenza essendo, nella realtà, diversamente interpretabile (ed interpretato) dai diversi Autori, e non solo sul piano formale, ma anche su quello dei contenuti. Così, ad esempio, l’inibizione rappresenta il 20% circa del peso totale dell’HAM-D, il 30% della MADRS ed oltre il 40% della DRS; la colpa il 10% dell’HAM-D ed il 25% del BDI; i sintomi somatici il 10% della MADRS, il 25% della SDS e poco meno del 40% della SAD. I sintomi nucleari della depressione, nel loro insieme, pesano fra il 40 ed il 50% nell’HAMD e nella SAD, fra il 60 ed il 70% nella SDS e nella MADRS ed oltre il 70% nella DRS e nel BDI. D’altronde, anche l’analisi fattoriale di RS diverse somministrate allo stesso campione di soggetti, evidenzia strutture fattoriali differenti (Faravelli et al., 1979). Non deve perciò meravigliare se le correlazioni reciproche fra le diverse scale riportate in letteratura sono spesso abbastanza modeste: si deve tener conto, infatti, che valori di coefficienti di correlazione fino a 0.70 corrispondono ad una varianza comune (ciò che le scale hanno tra loro a comune) inferiore al 50% (la varianza comune corrisponde al quadrato del coefficiente di correlazione). È dunque evidente che ogni RS misura aspetti diversi del fenomeno "depressione" e/o che ogni RS è funzionale ad una specifica concezione della depressione, e di questo non si può non tener conto quando ci troviamo a doverne scegliere una per i nostri studi e le nostre ricerche. È necessario perciò che il clinico, quando deve scegliere una RS per valutare la depressione, tenga presente che:

• nessuna delle RS disponibili è abbastanza specifica da poter prescindere da una preventiva diagnosi clinica o, meglio, effettuata mediante le scale di valutazione diagnostica;

• ogni RS esprime il modo in cui l’Autore concepisce la depressione e pertanto non è indifferente la scelta dell’una o dell’altra scala poiché ognuna misura entità largamente diverse l’una dall’altra;

• quando è possibile, è preferibile ricorrere a scale di eterovalutazione compilabili a seguito di un colloquio libero piuttosto che a quelle che richiedono un’intervista strutturata; un’intervista libera è meglio accettata dal paziente e, se il valutatore è sufficientemente esperto, l’affidabilità della scala non risulta ridotta;

• le scale di autovalutazione non sempre sono utilizzabili in una popolazione di depressi (soprattutto gravi) proprio per le caratteristiche intrinseche della depressione e comportano, generalmente, una sovrastima della gravità della sintomatologia;

• l’uso del punteggio totale di una scala come indice di gravità della depressione può rivelarsi fallace poiché non tutti gli item di una scala esplorano sintomi primitivamente depressivi.

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Parte generale

Parte speciale

CAPITOLO 29 - Gli effetti indesiderati dei trattamenti psicofarmacologici