In tempo di pace, tre sono i tipi di morte violenta, il suicidio, l’omicidio e l’incidente.
Assieme rappresentano, nel mondo occidentale, il 2-4% di tutte le morti annuali, ma è a questi tre tipi di morte che i mass media dedicano la massima attenzione riversando su di essi un’enfasi eccessiva, quasi morbosa. Sembra quasi che la coscienza, la consapevolezza, della morte "naturale" sia repressa o scotomizzata e spiazzata sulle forme violente di morte. Un po’ come accade per la sessualità, che nelle sue espressioni "normali" è sottaciuta, coperta da pudori, vergogne e tabù, mentre è enfatizzata, urlata, per così dire, nelle sue forme estreme, pornografiche, eccessive, tanto che, non a caso, qualcuno (Gorer, 1965) ha parlato, per questo atteggiamento dei mass media nei confronti delle morti violente, di "pornografia della morte".
Peraltro, la morte naturale non è soltanto sottaciuta dai mass media, ma è anche praticamente scomparsa dalla pratica medica poiché le moderne tecnologie hanno radicalmente cambiato il processo che porta alla morte: in passato la morte era, tutto sommato, un processo fisiologico che poneva fine ad una malattia o che rappresentava la logica conclusione dell’invecchiamento. Oggi, con la messa in atto di terapie e d’interventi che, anche quando siamo affetti da malattie fatalmente mortali, incurabili, prolungano la nostra sopravvivenza fino (e talora oltre) i limiti dell’accanimento terapeutico, la morte è diventata "lenta".
È la perdita di un appropriato processo di morte che ha favorito la nascita e lo sviluppo di movimenti a favore dell’eutanasia, movimenti che rivendicano il diritto di morire con dignità attraverso atti di suicidio (più o meno ampiamente assistito, fin quasi a configurare l’omicidio); questo crea, naturalmente, per il clinico un ulteriore problema, quello di distinguere la ricerca di una morte "appropriata" dal comportamento irrazionale, anche se messo in atto dal malato terminale o dall’anziano.
Non è questa la sede per approfondire questo argomento, di cui abbiamo voluto comunque fare cenno, non tanto per ribadire la complessità del problema, ma anche per sottolineare l’impatto di questi problemi sulla società attraverso l’azione dei mass media.
Per tornare al suicidio, è un sentimento comune che la morte per suicidio sia, teoricamente, una morte prevedibile e quindi potenzialmente evitabile. In realtà, la morte è di per sé prevedibile, ciò che non siamo in grado di predire è quando si verificherà; anche in presenza di malattie ad esito fatalmente letale, possiamo prevederne solo l’imminenza, ma niente di più, e le difficoltà sono ancora maggiori per la morte da suicidio poiché i criteri in base ai quali si valuta il rischio suicidario correlano in misura modesta con l’esito previsto.
Il suicidio, invece, a torto o a ragione, è vissuto come una morte prevedibile e, quindi, prevenibile, ed il suo verificarsi determina perciò, rispetto a tutti o quasi gli altri tipi di morte, maggiori angosce nei familiari e nelle persone più vicine al suicida e maggior senso di frustrazione e di impotenza nei medici che lo hanno avuto in cura.
In realtà, se andiamo ad esaminare la letteratura relativa alla predizione e prevenzione del suicidio, l’unica conclusione possibile è che mancano sicure basi scientifiche per una predizione specifica.
Certamente le persone non decidono all’improvviso di suicidarsi; la volontà suicidaria è secondaria rispetto ad un livello individuale di tolleranza oltre il quale la morte diventa la soluzione preferibile. Il raggiungimento di questo livello è graduale: la percezione della realtà, generalmente selettiva, porta ad una progressiva crescita del desiderio di morire, fino al raggiungimento della soglia oltre la quale c’è il passaggio all’azione. Ci sono, nella storia delle persone, eventi e circostanze che aumentano la vulnerabilità e predispongono al rischio di suicidio:
- il sesso: essere maschi piuttosto che femmine;
- l’età: essere tra i 20 ed i 30 anni o sopra i 60 se si è uomini, avere meno di 25 anni o intorno ai 45 se si è donne;
- la situazione coniugale: l’essere uomini separati o divorziati (a qualsiasi età) o avere più di sessant’anni e vivere da soli;
- le perdite precoci: aver avuto, nell’infanzia, un lutto, quale la perdita di uno o di entrambi i genitori;
- le patologie somatiche e le nuove perdite: andare incontro a patologie somatiche gravi, che minacciano seriamente la vita o l’integrità del soggetto, e, soprattutto, il verificarsi di nuove perdite significative;
- le relazioni con le persone significative: le modalità di rapporto (e soprattutto i loro cambiamenti)
- e/o la percezione (reale o simbolica) della perdita degli altri;
- i precedenti tentativi di suicidio: è stato calcolato, su base annua, che su 100.000 soggetti con un tentativo di suicidio in anamnesi, 1.500 si suicidano e che su 100.000 con due o più tentativi di suicidio in anamnesi, se ne suicidano 15.000;
- altri fattori, quali la mobilità sociale, la perdita del lavoro o del ruolo sociale, l’emigrazione ed altro ancora.
Il clinico deve conoscere questi fattori in modo da capire, non solo, quali sono i suoi pazienti più esposti al rischio di suicidio, ma anche quando raggiungono il massimo livello di vulnerabilità, ed essere in grado così di fornire una risposta calibrata rispetto alle effettive esigenze del paziente in quel determinato momento.
Il suicidio può essere considerato come la conclusione di un percorso nel quale si possono individuare diverse tappe:
- il desiderio di morire è il punto di partenza: quando il soggetto sente che le proprie esperienze si avvicinano al punto (soggettivo) di rottura, al punto in cui, cioè, tutto diviene psicologicamente intollerabile, si fa strada un crescente desiderio di morire (che, in realtà, è un desiderio di chiudere con — o di sottrarsi a — la situazione);
- con il crescere del desiderio di morire, alcuni incominciano a prendere in considerazione i vari modi per attuare il proposito autolesivo e, talora, viene scelto un metodo che verrà poi messo in atto nella fase successiva di progettazione del suicidio;
- la progettazione del suicidio inizia quando il soggetto ha deciso di risolvere il suo problema esistenziale attraverso il suicidio, ha scelto il metodo per attuarlo, se lo è procurato ed ha deciso quando e dove attuarlo in modo da impedire di essere salvato;
- la messa in atto del suicidio è l’atto conclusivo di questo percorso.
Nel comportamento suicidario ci sono altri elementi importanti da tenere in considerazione come, ad esempio, la letalità, cioè il rapporto fra il grado di efficienza del metodo utilizzato ed il tempo necessario perché si verifichi la morte; il margine per l’intervento è in rapporto al grado di letalità; metodi rapidamente efficaci richiedono interventi rapidi per essere efficienti, metodi che richiedono tempi più lunghi offrono maggiori possibilità per l’intervento. Non esistono metodi che garantiscano la morte e soprattutto la morte immediata;
ci sono sempre eventi imprevisti ed imprevedibili che possono offrire, anche nei comportamenti suicidari a più alta letalità, l’opportunità di intervenire tempestivamente e di salvare il suicida o che possono portare il soggetto alla morte anche nei casi a bassa letalità. Senza considerare, poi, la possibilità che l’individuo cambi idea in qualsiasi momento e che riesca, con ciò, a salvarsi o a consentire il salvataggio.
Il suicidio può, dunque, concludersi o meno con la morte, indipendentemente dalle intenzioni del soggetto; se sopraggiunge la morte si osserva, generalmente, un incremento di vulnerabilità nei confronti del suicidio da parte dei familiari, se il soggetto sopravvive, è per lui che aumentano nettamente le probabilità di suicidio.