L’inadeguatezza dell’approccio clinico alla diagnosi, ha indotto diversi Autori a proporre dei criteri operativi basati sulla definizione e delimitazione dei segni e dei sintomi che caratterizzano le diverse categorie diagnostiche; in questo modo, ogni entità clinica è definita da una serie di segni, sintomi e condizioni che devono essere presenti per poter soddisfare i criteri diagnostici o che non devono essere presenti per soddisfare i criteri di esclusione. Sono stati proposti anche glossari per garantire che tutti dessero lo stesso significato ai segni ed ai sintomi e per eliminare, per quanto possibile, la varianza dovuta all’interpretazione dei criteri diagnostici (la cosiddetta "criterion variance"). Questo non garantiva, però, dalla cosiddetta "information variance", cioè dal rischio che i clinici potessero ottenere informazioni diverse dai pazienti. Ciascun clinico ha, infatti, un suo stile nell’interrogare i pazienti e, non di rado, ha anche uno stile diverso nell’interrogare pazienti diversi, vuoi per le caratteristiche dei pazienti stessi e/o della loro patologia, vuoi per problemi di empatia. Il colloquio clinico, inoltre, può svilupparsi in maniera diversa da paziente a paziente e questo porta inevitabilmente ad esplorare in maniera disomogenea le diverse aree psicopatologiche; la raccolta di notizie da fonti differenti, infine, può portare alla raccolta di informazioni non univoche.
La modalità di raccolta delle informazioni richiede, inoltre, una valutazione della qualità delle informazioni raccolte; il clinico, in base alla sua esperienza, deve valutare se il paziente ha ben compreso le domande che gli ha posto, se ha risposto il vero o il falso, se ha cercato di salvare le apparenze, se ha cercato di assumere il ruolo di malato, se ha voluto rendersi socialmente accettabile, se ha teso a drammatizzare, se le sue risposte sono influenzate dalla psicopatologia al punto da non rendere attendibile ciò che egli dice, se la situazione ambientale o il rapporto medico-paziente può aver influito sulla qualità delle risposte, se le risposte stesse sono influenzate da particolari situazioni esistenziali o emozionali, ed altro ancora. Il clinico, sulla base delle risposte che dà a queste domande, decide se ritenersi soddisfatto o insoddisfatto e, di conseguenza, chiudere l’intervista o indagare ulteriormente per giungere a ciò che egli ritiene un’informazione valida. È evidente che anche questo complesso processo decisionale comporta notevoli margini di soggettività (e quindi di arbitrio) contribuendo pesantemente all’aleatorietà del giudizio diagnostico clinico, anche se riferito a rigidi criteri diagnostici. Per limitare tutte queste fonti di varianza, sono state perciò sviluppate delle "interviste strutturate" che, standardizzando l’intervista, portassero alla raccolta di informazioni omogenee, comparabili sia fra i valutatori che fra i pazienti. L’uso di strumenti standardizzati di valutazione diagnostica è diventato una sorta di "marchio" della psichiatria e la diagnosi così formulata rappresenta oggi il "gold standard" della diagnosi psichiatrica.
Per definire chiari e precisi criteri diagnostici, era necessario superare le diverse impostazioni dottrinarie delle differenti Scuole e questo era possibile solo affrontando il problema della diagnosi su di un piano puramente descrittivo, sindromico, che prescindesse da posizioni teoretiche preconcette. Questo approccio, nonostante i limiti di cui abbiamo appena accennato, rappresenta comunque un superamento della diagnosi clinica tradizionale i cui ambiti di variabilità erano assolutamente inaccettabili. Il primo tentativo in questo senso fu fatto nel 1972 da Feighner e dai suoi collaboratori della Washington University di Saint Louis, i quali proposero delle regole per la standardizzazione delle diagnosi psichiatriche, regole che sono conosciute come criteri di Feighner o criteri di Saint Louis. Essendo stati pensati in funzione della ricerca, questi criteri prevedevano le 15 categorie diagnostiche che, secondo gli Autori, possedevano una sufficiente validità in termini di descrizione clinica, consistenza nel tempo e, almeno per alcune, una chiara incidenza familiare. Poiché le categorie diagnostiche dovevano essere il più pure possibili, un buon numero di pazienti finiva, con questi criteri, nella categoria "altri disturbi".Nonostante questi limiti, i criteri di Feighner ebbero una favorevole accoglienza e furono ampiamente utilizzati nella ricerca. Lo strumento attraverso il quale venivano utilizzati nella pratica era una intervista semistrutturata, la Renard Diagnostic Interview – RDI (Helzer et al., 1981). La RDI si caratterizzava per il fatto che tutte le domande erano chiaramente specificate, che il sistema di assegnazione dei punteggi indicava non soltanto se un sintomo raggiungeva i criteri, ma anche perché non li raggiungeva e, infine, era accompagnato da un sistema computerizzato che forniva le diagnosi sulla base dell’analisi dei punteggi degli item.
I Research Diagnostic Criteria – RDC (Spitzer et al., 1975) rappresentarono la naturale evoluzione dei criteri di Saint Louis. Le categorie diagnostiche passarono, con l’inclusione di diagnosi importanti per la diagnosi differenziale, da 15 a 25 ed al loro interno furono identificate delle sottocategorie (il disturbo depressivo, ad esempio, ne prevedeva 11). Questo comportò una notevole riduzione dei soggetti non classificati. Fu creato anche un glossario di definizioni psichiatriche. Il limite principale degli RDC consisteva nel fatto che, per la loro impostazione programmaticamente ateoretica, e cioè di tipo unicamente descrittivo, potevano portare alla classificazione di un singolo paziente in più di una delle sottocategorie diagnostiche non mutuamente escludentisi, cosa che contrasta con i principi classificatori. Inoltre, non contenendo gli RDC criteri per discriminare i disturbi mentali su base organica, gli Autori suggerivano di escludere preliminarmente dalla valutazione con gli RDC i soggetti per i quali l’organicità non poteva essere chiaramente esclusa. I concetti della ateoreticità, per quanto riguarda l’eziologia dei disturbi mentali, e dell’approccio descrittivo, nel senso della definizione di tali disturbi attraverso la descrizione delle loro caratteristiche cliniche, che era alla base degli RDC, fu recepito pienamente (ed affinato) dall’American Psychiatric Association (APA) che lo trasferì nel sistema diagnostico-classificatorio ufficiale americano, il Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders (DSM) a partire dalla terza edizione (DSM-III, 1980) e, ancor più, delle due successive edizioni, il DSM-III-R (1987) ed il DSM-IV (1994). Il DSM è un vero e proprio sistema classificatorio completo, utilizzabile non solo ai fini di ricerca ma anche nella pratica clinica, che si pone in alternativa, per quel che riguarda le malattie mentali, alle classificazioni diagnostiche proposte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), le versioni 9 e 10 dell’International Classification of Diseases (ICD-9, 1978; ICD-10, 1991). È superfluo dire che i diversi sistemi classificatori (DSM-III, DSM-III-R, DSM-IV, ICD-9, ICD-10) sono differenti e pertanto alcune categorie diagnostiche, anche se hanno la stessa denominazione, non sono del tutto sovrapponibili. È di conseguenza erroneo ritenere che una diagnosi raggiunta mediante un’intervista diagnostica specifica per un sistema di classificazione corrisponda automaticamente alla diagnosi con lo stesso nome ma definita da un altro sistema classificatorio. Fra le principali differenze riscontrabili nelle ultime tre edizioni del DSM, possiamo ricordare, a titolo di esempio, la possibilità di fare diagnosi contemporanea di disturbi mutuamente escludentisi, la cui co-presenza, nello stesso periodo di malattia, era considerata in precedenza impossibile; per alcuni disturbi, inoltre, sono stati modificati anche una parte dei criteri diagnostici (sintomi, durata, criteri di esclusione, eccetera).
Per questa ragione sono state create interviste diagnostiche specifiche per i diversi sistemi classificatori, anche se, spesso, gli Autori hanno fornito, nel contesto dell’intervista più recente, i criteri per la diagnosi secondo i principali sistemi precedenti.