La diagnosi è, per definizione, una prerogativa specifica del clinico ed è questa diagnosi clinica che deve essere considerato il "gold standard", la pietra di paragone alla quale devono fare riferimento tutti gli altri metodi diagnostici. E una diagnosi clinica affidabile non può derivare che da un’esauriente indagine ad ampio raggio, condotta da un medico adeguatamente preparato, che prenda in considerazione tutti gli elementi di rilevanza clinica. In realtà, è stato ampiamente documentato che le diagnosi psichiatriche formulate esclusivamente sulla base della valutazione clinica, senza la guida di precisi criteri diagnostici, hanno un tasso di attendibilità e di riproducibilità molto basso. Il grado di accordo diagnostico fra valutatori diversi, quando la diagnosi è formulata esclusivamente in base a criteri clinici, varia, nei diversi studi, dal 32 al 64%.
Questa ampia discordanza è riferibile soprattutto alla pressoché totale mancanza di conoscenze circa l’eziologia e la fisiopatologia dei disturbi mentali, in conseguenza della quale la definizione delle categorie diagnostiche è stata per lungo tempo affidata al giudizio di autorevoli studiosi, piuttosto che a criteri specifici, validi e facilmente accessibili. Fino a meno di 20 anni fa i sistemi diagnostico-classificatori fornivano una descrizione generale delle categorie diagnostiche, anche con una lista dei segni e sintomi più comuni di ciascun disturbo, senza definire però, in maniera chiara ed univoca, quali segni e sintomi erano necessari e sufficienti per porre una specifica diagnosi o quali erano i criteri di inclusione e di esclusione; proprio alla inadeguatezza nosologica di quei sistemi è stata attribuita la maggiore responsabilità della discordanza diagnostica (Ward et al., 1962). Questa scarsa affidabilità diagnostica poteva essere tollerabile quando l’impostazione assistenziale psichiatrica era essenzialmente ad impronta custodialistica ed il discrimine era prevalentemente rappresentato dalla pericolosità (auto o etero) del paziente; oppure quando l’approccio alla patologia psichica era di tipo psicoanalitico o psicodinamico ed il problema non era, quindi, la diagnosi, ma il conflitto sottostante; o, ancora, quando la psicofarmacoterapia muoveva i suoi primi passi ed i farmaci disponibili erano in numero limitato e scarsamente specifici. In tutte queste condizioni, l’importanza pratica della diagnosi era tutto sommato modesta ed era, al più, motivo di diatribe tra Autori e Scuole di impostazione diversa. Ma, con l’arricchirsi dell’armamentario terapeutico, il problema della diagnosi si è fatto sempre più importante, non essendo più tollerabile l'aleatorietà dell’inquadramento diagnostico nella pratica clinica e nella ricerca. Nell’ambito della ricerca non era, infatti, accettabile che la valutazione dell’efficacia e della tollerabilità dei nuovi trattamenti venisse effettuata su campioni di pazienti selezionati in base a criteri diagnostici aleatori ed ampiamente soggettivi, poiché questo avrebbe impedito sia il confronto con ricerche fatte in centri diversi, sia la generalizzazione dei risultati. Nella clinica, d’altra parte, la mancanza di criteri diagnostici univoci avrebbe impedito di prescrivere il trattamento più appropriato per la specifica categoria diagnostica. La limitatezza delle nostre conoscenze non deve però costituire un ostacolo al progredire della conoscenza ed è allora necessario partire dalle conoscenze di cui disponiamo e che, a livello più elementare, consistono nell’identificazione di "sindromi", cioè di pattern sintomatologici, che non sono un semplice aggregarsi casuale di sintomi, ma che in qualche modo esprimono un qualcosa di unitario che li lega tra loro a definire un’entità autonoma e distinta. Sarebbe necessario validare tali sindromi attraverso adeguati campionamenti della popolazione ed opportune misurazioni ed analisi statistiche, ma questo è praticamente irrealizzabile per la difficoltà di mettere assieme campioni sufficientemente ampi da essere significativi e, anche se si riuscisse a raccoglierli, la misurazione di tutte le caratteristiche di rilievo psichiatrico in un siffatto campione sarebbe così complessa che difficilmente i risultati sarebbero attendibili: è altamente probabile che gli errori di misurazione rendano praticamente impossibile la validazione di una sindrome che colpisca meno del 5% della popolazione, poiché sarebbe comunque alta la probabilità di errori del secondo tipo (accettare l’ipotesi della non esistenza della sindrome quando in realtà esiste). L’alternativa a questo tipo di validazione potrebbe essere la dimostrazione che la collocazione del paziente in una specifica categoria sindromica significa prescrivere un trattamento più efficace, migliorare l’evoluzione e la prognosi del suo disturbo e così via. Sfortunatamente, anche a questo livello, le nostre ambizioni scientifiche superano di gran lunga le nostre capacità, per cui l’obiettivo di validare l’esistenza di una sindrome viene di solito evitato puntando, piuttosto, sulla dimostrazione della sua affidabilità partendo dal presupposto che senza affidabilità non vi è validità. Tuttavia, anche l’affidabilità, quando è applicata al campo delle diagnosi, è tutt’altro che scontata dato che i sintomi che concorrono alla definizione della sindrome fanno parte di un sistema dimensionale e si pongono, perciò, ciascuno in continuità con altre sindromi, rendendo difficile una categorizzazione diagnostica. Con questo non vogliamo negare il valore dell’approccio sindromico alla diagnosi, ma vogliamo semplicemente richiamare l’attenzione sulla necessità di una attenta considerazione e valutazione della sensibilità e della specificità delle procedure diagnostiche.