È probabilmente nell’area della depressione che la valutazione standardizzata ha raggiunto il massimo sviluppo. Numerose sono, infatti, le RS — di auto e di eterovalutazione, interviste più o meno rigidamente strutturate, questionari e checklist, eccetera — create per lo studio e la quantificazione delle diverse componenti del quadro depressivo. Questo potrebbe apparire in contraddizione con il fatto che questo disturbo ha, rispetto ad altre patologie psichiatriche (quali la schizofrenia o i disturbi d’ansia), uno spettro sintomatologico abbastanza ben delineato (almeno apparentemente) e dei confini che, per quanto non univocamente definiti, sono comunque soggetti a variazioni sostanzialmente limitate. È anche vero, però, che la depressione ha, in virtù della sua larghissima diffusione, un ruolo epidemiologico preminente nel contesto della patologia psichiatrica e che è il disturbo per il quale è disponibile un vasto "armamentario" terapeutico anche se i risultati terapeutici, per quanto sostanzialmente positivi, sono ancora lontani dal soddisfare le nostre aspettative (o forse abbiamo un "armamentario" così vasto proprio perché insoddisfatti dei farmaci finora proposti!). E ciò comporta un rilevante interesse per questo settore da parte dell’industria farmaceutica che propone sempre nuove molecole per il trattamento della depressione, delle quali è necessario testare l’efficacia terapeutica mediante studi clinici nell’ambito nei quali, in assenza di effetti risolutivi, gli strumenti di valutazione sono chiamati a documentare differenze di potenza e di spettro d’azione rispetto agli standard di confronto. Fino ad oggi, infatti, non ci sono stati salti qualitativi particolarmente significativi nel trattamento della depressione e le classi di farmaci via via proposte, passando dai triciclici agli atipici e da questi ai serotoninergici ed ai noradrenergici selettivi, pur avendo migliorato nettamente la tollerabilità ed ampliato lo spettro d’azione, andando ad agire su settori diversi del quadro sindromico, sono ben lontani dall’essere risolutivi, né potrebbe essere altrimenti, poiché il loro bersaglio è tuttora l’ultimo anello della catena patogenetica che porta alla depressione (del quale cominciamo ad avere una discreta conoscenza) e non il primo anello, quello che è all’origine del disturbo (del quale abbiamo, finora, molte ipotesi ma poche conoscenze). Nasce sostanzialmente da questa realtà il fatto che siano state elaborate numerose RS che si proponevano ora come più "sensibili" al cambiamento della sintomatologia, ora più adatte ad esplorare più approfonditamente aspetti indicati come più tipici della depressione o più trascurati dalle altre RS o più espressivi dello "spettro" depressivo. Il numero degli strumenti di valutazione per la depressione oggi disponibili è tale da creare imbarazzo non solo al ricercatore che debba scegliere quelli più adatti alle sue esigenze specifiche, ma anche a chi debba farne un’esauriente disamina. In pratica, però, la maggior parte di questi strumenti ha avuto o una diffusione molto limitata (se non addirittura locale), o una vita effimera e noi, nella nostra esposizione, potremo prenderne in considerazione soltanto un numero limitato che comprende, oltre a quelli di uso più comune, quelli di maggiore interesse o con caratteristiche peculiari. Gli strumenti per misurare la depressione differiscono in rapporto al fatto che facciano riferimento alle teorie etiologiche (biogenesi/psicogenesi) piuttosto che ai modelli di malattia (continuo/discontinuo), alla metodologia della rilevazione (autovalutazione/osservazione comportamentale) piuttosto che agli aspetti sintomatologici presi in considerazione (cognitivi/comportamentali/fisiologici) e, nell’ambito di questi ultimi, se prendono in considerazione uno solo o più aspetti della condizione depressiva (specifici/globali). Molta enfasi è stata posta in passato sugli strumenti "globali" (o "comprehensive", nella terminologia americana) e poca su quelli specifici, quando, in realtà, la capacità di uno strumento di descrivere globalmente la depressione può trovare limitazioni rilevanti nel contenuto dello strumento, nel tipo di popolazione e nel tipo di depressione. Così, ad esempio, due delle più note scale generali, la Beck Depression Inventory – BDI (Beck et al., 1961) e la Hamilton Depression Rating Scale – HAM-D o HDRS (Hamilton, 1960), si pongono su due versanti diversi privilegiando, la prima, i correlati cognitivi della depressione e, la seconda, quelli fisiologici; in questo modo, poiché i disturbi cognitivi sono preminenti nella depressione medio-lieve e quelli fisiologici nella depressione grave, le due scale finiscono per essere più adatte, la prima, per la valutazione della depressione più lieve, quell che un tempo veniva indicata come "depressione nevrotica", la seconda, per la depressione grave o "depressione endogena". Per il loro carattere di "globalità", le scale di questo tipo rischiano di non essere accurate nella definizione di aspetti particolari del quadro depressivo e nella rilevazione di eventuali loro variazioni nel corso del trattamento; in questi casi è opportuno far ricorso a scale specifiche che consentono di meglio verificare precise ipotesi o definire con esattezza l’effetto del trattamento su settori particolari.