La "negazione" è, secondo uno stereotipo classico, la caratteristica che meglio definisce la psicologia dei soggetti che fanno abuso di sostanze. Questa caratteristica è certamente vera abbastanza da giustificare il fatto che sia diventata uno stereotipo ma, altrettanto certamente, non è una dimensione assoluta. Ci sono, è vero, soggetti che "negano" il loro abuso per tutta la vita, una vita spesa interamente ad abusare di alcol o di sostanze, fino a che non ne muoiono, ma ce ne sono anche tanti altri (forse la maggioranza) che hanno una lunga carriera caratterizzata dall’irregolare alternanza di periodi più o meno protratti di abuso e di sofferta astinenza. Se questo è vero, significa che oltre al polo della negazione ce n’è un altro, distinto ed opposto, che potremmo definire della "reazione". Questi soggetti sanno che ciò che stanno facendo è distruttivo, che la "cultura" della droga è ingannatrice e che è indispensabile uscirne: in essi c’è una sorta di ambivalenza che li fa oscillare fra questi due poli opposti, con prevalenza ora della negazione e ora della reazione, in una sorta di equilibrio delicato, precario ed instabile. Se così non fosse, non si spiegherebbe l’esistenza degli Alcolisti Anonimi, dei Narcotics Anonimous, delle comunità terapeutiche o della terapia di mantenimento con metadone, condizioni tutte che presuppongono una volontà di reazione, una volontà di sottrarsi alla condizione di dipendenza. È ipotizzabile che, anche nei soggetti che negano fino in fondo, sia potenzialmente presente il polo della reazione. Il lavoro del clinico consiste nel far emergere questo polo o, se presente, nel rafforzarlo.
Un altro aspetto che caratterizza chi fa abuso di sostanze è il rapporto con la sostanza di abuso e con l’insieme dei comportamenti ad essa correlati (il cercarla, l’assumerla, il viverne gli effetti), rapporto che assume le caratteristiche di un rapporto "interpersonale". Il soggetto stabilisce, infatti, con la sostanza un rapporto del tutto paragonabile a quello che generalmente si stabilisce tra persone e che tende a sostituire i rapporti interpersonali reali o, quanto meno, li mette in secondo piano: l’altro è la sostanza e l’insieme dei comportamenti correlati alla sua assunzione. Il medico, in questo contesto, è colui che, chiedendo l’abbandono della sostanza, il radicale cambiamento delle abitudini di vita, del comportamento, minaccia questo rapporto così importante e, in molti casi, esclusivo. Quindi, oltre che all’ambivalenza, di cui abbiamo accennato, il clinico deve essere preparato a far fronte anche a questo aspetto delle condotte di abuso e non dovrà meravigliarsi se, in risposta al suo approccio, incontrerà rifiuti, rabbia, malumore, ostilità.
Solo il colloquio diretto con il paziente, che il clinico deve sempre fare, potrà diventare il contesto nel quale far nascere e sviluppare un’alleanza terapeutica, a patto che il medico, diversamente da come generalmente fanno gli altri, sappia porsi davanti al soggetto in modo accettante e non giudicante.
Per queste (ed altre) caratteristiche (negazione e rapporto con la sostanza), i soggetti che fanno abuso di sostanze finiscono spesso per giungere all’osservazione del clinico tardivamente, generalmente quando ormai si sono verificati i danni bio-psico-sociali che fatalmente si determinano in tutte le condotte di abuso. Invece, com’è facile intuire, sarebbe di enorme importanza ai fini terapeutici e prognostici, che questi soggetti giungessero all’osservazione il più precocemente possibile o, comunque, quando quei danni non si sono ancora determinati.
Le sostanze di abuso sono, com’è noto, numerose ed ognuna ha delle sue caratteristiche specifiche, peculiari: queste specificità sono importanti per il clinico quando deve fare l’inquadramento diagnostico, impostare un progetto terapeutico e formulare una previsione diagnostica. Per noi, che ci occupiamo in questa sede di strumenti di valutazione, il problema è diverso, in definitiva più semplice, poiché possiamo individuare dei comportamenti che sono comuni a più di una sostanza e, al limite, valutare con un unico strumento più di una sostanza. Nella pratica, due sono gli stereotipi fondamentali a cui facciamo riferimento, da un lato l’alcol e, dall’altro, tutte le altre sostanze di abuso. Questa distinzione, per quanto grossolana, ha delle sue motivazioni che cercheremo qui di prendere in esame, senza pretendere, peraltro, di essere esaustivi.
L’alcol, "droga sociale", mette la sue radici in un terreno psicologicamente e socialmente favorevole: tutti (o quasi) bevono alcolici, molti hanno sperimentato episodi di ebbrezza alcolica, anche se spesso eccezionalmente ed in circostanze particolari; c’è una diffusa cultura favorevole all’uso degli alcolici, ed è perciò considerato "normale" che uno beva e che, in qualche caso, possa anche eccedere. Del resto l’attività farmacodinamica dell’alcol è, se paragonata a quelle della maggior parte delle "droghe illegali", relativamente modesta e questo, associato al fatto che le bevande alcoliche vengono assunte per via orale (con quanto di metabolico questo comporta), fa sì che l’alcolismo si renda chiaramente palese solo tardivamente, generalmente dopo molti anni dall’inizio, non solo dell’uso, ma anche dell’abuso. È tutto questo clima generalmente favorevole, o almeno tollerante, che tende a far sottovalutare, al soggetto ed a quanti gli stanno accanto, i rischi potenziali cui sono esposti i bevitori (o almeno i forti bevitori) e coloro che sono nelle fasi iniziali dell’abuso, che spinge il soggetto a minimizzare quando gli si chiede quanto beve, a non ritenere praticamente mai eccessiva la quantità di alcol assunta. Al tempo stesso, però, la stessa società considera "debole", "senza forza di volontà", colui che abusa del bere e va incontro alla degradazione tipica dell’alcolista, rafforzando in tal modo il suo atteggiamento di negazione. E così, di solito, l’alcolista in quanto tale arriva all’osservazione del clinico quando l’alcol ha causato danni consistenti su uno o più piani (biologico, psicologico e/o sociale), mentre sarebbe necessario che la diagnosi venisse posta il più tempestivamente possibile in modo da rendere la prognosi più favorevole. Ecco allora, per l’alcol, la necessità primaria di disporre di strumenti di valutazione capaci di individuare, possibilmente, i soggetti a rischio di alcolismo o, almeno, gli alcolisti nelle fasi precoci della loro "carriera".
Differenti sono le cose per le cosiddette "droghe illegali": il loro uso, oltre che perseguibile legalmente, avviene in un clima sociale ostile, di riprovazione, di condanna, in quanto estraneo alla nostra cultura, ed esaspera l’atteggiamento di negazione da parte dei soggetti. Ma sono soprattutto le caratteristiche farmacodinamiche della maggior parte di queste sostanze, unitamente alle modalità di assunzione, che "fanno la differenza" rispetto all’alcol. La loro potenza d’azione è di per sé tale da determinare il rapido instaurarsi dei meccanismi biologici che sono alla base dell’assuefazione e della dipendenza fisica, ma è soprattutto l’entità dell’effetto soggettivo, enormemente potenziato dalle modalità di assunzione (la via endovenosa o inalatoria) che portano la sostanza, in tempi brevissimi ed in quantità rilevanti, direttamente a contatto con il SNC, che provoca il rapido instaurarsi della dipendenza psichica, che è la chiave di volta della tossicodipendenza. Il rapido instaurarsi della tolleranza e della dipendenza conduce anche, in tempi brevi, al verificarsi del fenomeno dell’astinenza. Per evitare le sofferenze che questa provoca, è necessario il ricorso a regolari assunzioni della sostanza le quali, però, non potendo andare oltre certi limiti a causa del ridotto margine tra dose efficace e dose letale, finiscono per essere sufficienti per evitare l’astinenza ma inadeguate per provocare il piacere. È per questo che le condotte di abuso delle "droghe illegali" hanno, da
un lato, delle caratteristiche d’insorgenza, di evoluzione e di decorso più tumultuose e più rapidamente evolutive e, dall’altro, sono più pesantemente condizionate dalla negazione; tutto questo pone al clinico esigenze valutative diverse rispetto all’alcolismo.
Si deve, inoltre, tener conto del fatto che il fenomeno dell’alcolismo è vecchio come il mondo e che, pur essendo stato a lungo considerato più un problema di individui caratterialmente deboli o viziosi che una malattia, ha richiamato su di sé l’attenzione dei clinici da molto tempo; l’abuso di sostanze illegali è, almeno a livello sociale, un fenomeno giovane (in Italia possiamo collocare la sua data di nascita fra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70) ed è stato considerato (ed ancora in larga misura lo è) un fenomeno quasi
esclusivamente sociopolitico. Fatte queste necessarie premesse, sarà più facile capire le diversità quantitative e qualitative nella valutazione standardizzata delle condotte di abuso.