Ricordo molto ben cosa successe allora, parlo del Maggio 78.
Ero specializzando del secondo anno in Clinica a Genova e la fretta con cui era stata approvata la Legge 180 ( poi recepita quasi integralmente nella Legge di Riforma Sanitaria, 833, del 23 dicembre di quell'anno, che ho pensato bene di riprodurre per lo stralcio riguardante l'assistenza psichiatrica a cui rimando ) aveva fatto si' che, almeno in Liguria, non si fosse approntata nessuna struttura di ricovero alternativa alla Clinica dell'Universita' che cosi' si venne a trovare nella necessita' di accettare per un certo periodo un flusso incredibile di pazienti ( essendo l'unico reparto chiuso psichiatrico della regione, se si escludevano i Manicomi, dove potessero essere ricoverati pazienti acuti in regime di TSO ).
Ricordo molto bene l'atmosfera di allora, almeno tra gli operatori del settore: era un misto di "liberazione da un incubo", quello dell'Istituzione Manicomiale, anche inteso come "tragica e unica" occasione di lavoro, speranze per il futuro, supportate dalle notizie dei "miracoli" di Arezzo e Trieste, preoccupazione, in molti, per gli sviluppi della cosa in un'Italia forse preparata idealmente, non certo praticamente ad un cambio cosi' radicale di approccio alla malattia mentale.
Ricordo molto bene l'ideologia psichiatrica dominante allora, che se da una parte aveva portato alla chiusura ( sacrosanta) delle Istituzioni Totali, dall'altra proponeva una visione parziale della malattia mentale grave vista fondamentalmente soprattutto come un disturbo sociale, curabile attraverso l'ottimistica idea che un cambiamento dei rapporti all'interno della societa' avrebbe eliminata quella che era avvertita come "discrepanza" nella visione dell'uomo come essere "potenzialmente buono" rovinato dalle contraddizioni ( reali ed esistenti) della logica dominante del Capitale.
Ricordo molto bene la nascita dei servizi territoriali, la settorializzazione per quartieri dell'assistenza, i progetti e le attese di un intervento globalmente "diverso" che aveva come obiettivo il reinserimento anziche' l'emarginazione, passando attraverso forme alternative di assistenza che necessitavano la nascita e lo sviluppo di struttire intermedie di accoglienza…………..ricordo i miei vent'anni quasi di professione vissuta in gran parte quale Psichiatra di Guardia presso il Pronto Soccorso del piu' grande Ospedale d'Europa.
E adesso a distanza di tanti anni si torna a parlare di " chiusura dei manicomi" come se il tempo non fosse passato.
Credo sia indispensabile domandarsi le ragioni di tale fenomeno.
Fatto salvo il fatto che:
a) non puo' essere disconosciuta da alcuno la rilevanza "epocale" della Riforma del 78:
i pazienti di cui oggi si parla ( mi riferisco agli ospiti delle vecchie strutture manicomiali) non sono il frutto della nuova legge ( nel senso che i pazienti acuti dal 78 ad oggi sono entrati in un sistema di assistenza indubbiamente diverso e piu' moderno) ma sono "le vestigia" dei danni del passato custodialista e manicomiale. Semmai va detto che la 180 e' stata in questi anni, in quasi tutta Italia, disattesa anche nei suoi dettati, in una situazione dove disposizioni concettaulmente transitorie sono diventate ( come accade purtroppo spesso in Italia) norma definitiva, creando problemi nuovi ( di cui accennero' piu' sotto), ma non ingigantendo le vecchie realta'.
b) ormai piu' nessuno crede che la malattia mentale sia "solo" frutto di conflitti e contraddizioni sociali: la follia e' democratica, colpisce tutti gli strati sociali della societa', non sono i soldi ma la sensibilita' culturale che puo' aiutare a curarla.
c) le carenze assistenziali hanno lasciato spesso soli i pazienti e le loro famiglie, che a volte rifiutano il congiunto, in una logica di difficolta' di rapporti insita nel disturbo mentale che non puo' essere misconosciuta ma va detto con altrettanta chiarezza che gli aspetti di tendenza alla cronicita' che spesso compaiono nelle sindromi piu' gravi e che sono tipici di alcune patologie, non hanno un supporto nelle strutture di assistenza "pensate" per una "acuzie che sempre si risolve positivamente" che e' reale solo per una percentuale piuttosto piccola della popolazione psichiatrica. Di qui il sempre piu' ingravescente fenomeno della "revolving door" ( i rientri ripetuti e ravvicinati nei reaprti ospedalieri psichiatrici) e il prolungamento "infinito" di alcune degenze, fenomeni per i quali non si puo' piu' procastinare un cambiamento di rotta terapeutica, intesa qui come "progetto globale di assistenza non omogeinizzato".
La malattia mentale e' un fenomeno complesso che necessita' di risposte complesse e spesso pluriprofessionali.
Non si puo' pensare, in un'ottica distorta di afficentismo, di demandare al privato cio' che il pubblico in quasi venti anni non ha saputo o voluto fare; la Psichiatria e' sempre stata la cenerentola tra le specialita' mediche, la politica sanitaria in questi anni ha si' favorito, per molto tempo, la piena occupazione per gli specialisti in psichiatria ma non ha mai seriamente affrontato il problema che, "crescendo" nel tempo il numero degli assistiti, la mancaza di servizi diversificati avrebbe vanificato l'operato degli psichiatri che per altro non mi sembra abbiano fatto valere le loro opinioni nelle sedi giuste.
Se aggiungiamo la atttuale congiuntura economica e la bancarotta dello Stato Sociale, il blocco del turn-over il quadro si colora di tinte ancora piu' fosche.
Cosi' si arriva alla situazione di oggi: improvvisamente, come sempre improvvisamente, ci si ricorda che i manicomi vanno chiusi definitivamente ( dopo vari per fortuna vani tetativi di riapertura) ma non si sa, in realta' dove "mettere queste migliaia di persone se non in strutture che "cambiando nome" svolgono alla fin fine la stessa funzione.
Siccome pero' la malattia mentale, per le ragioni sopra esposte, puo' necessitare "anche" di lunghi periodi di degenza, "e'" anche abbandono, solitudine e ritiro, "e'" anche caduta nei ruoli sociali o incapacita' a sostenerli, al tempo stesso si continua a rimandare la presa d'atto che e' improcrastinabile una revione non gia' della legge ma delle modalita' con cui in questi anni e' stata applicata, in una logica che impedisca le differenze abissali che oggi si riscontrano sul territorio italiano, inventandouna gabbia che non affidi "al buon cuore" della compagine civile la soluzione di problemi che debbono avere proposte di soluzione univoca da Domodossola a Capo Passero.
Per funzionare la Psichiatria ha bisogno di un nuovo patto sociale in cui la Politica, lungi da cavalcare i facili semplicismi che le sono propri, riconosca la specificita' dell'interveto psichiatrico e non deleghi totalmente al privato cio' che invece deve essere fatto dal pubblico: l'ho gia scritto altre volte, i tagli di personale in Psichiatria sono assolutamente impossibili, il controllo della qualita' dei servizi deve essere severo perche' spesso l'utenza non ha gli strumenti " emotivi" per difendersi, la via di una riforma dell'attuale legislazione che sotto spoglie piu' o meno celate preveda logiche ( purtroppo da piu' parti sollecitate nell'attuale vacanza di strutture efficienti) di custodia, va, prima di tutto da noi operatori del settore, combattuta con tutte le forze che disponiamo.
La Psichiatria in Italia deve ricominciare a pensare a se stessa come scienza e come pratica assistenziale, come fecero Basaglia e i Padri della 180, magari su basi diverse, facendo tesoro degli errori del passato, non lasciando che la situazione precipiti in un baratro dove le uniche vie di uscita richierebbero di essere rappresentate dalle "navi dei folli" che nella Germania medioevale raccoglievano sul Reno gli alienati e i diversi per abbandonarli poi al loro destino in qualche landa ben lontana dagli occhi pietosi degli abitanti delle citta' che li avevano espulsi da una porta secondaria con un biglietto di sola andata.
Questo argomento merita un approfondito dibattito per cui invito i lettori ad inviare i loro contributi che verranno linkati qui di seguito:
Contributo di Albertina Seta.