Ritengo, a proposito di equilibrio fra evoluzione normativa ed intervento clinico, che in alcuni casi le norme siano rimaste un po’ indietro, in altri sono più avanti delle prassi. Il tema oggi trattato, che in particolar modo io ho voluto trattare, ovvero quello della continuità della cura è stato fortemente dibattuto all’interno del gruppo di lavoro a cui ho assistito. Contrariamente ad altri pareri personalmente ritengo che la questione non si possa chiudere ritenendo intoccabile l’assetto normativo attuale e rinviando solo a regolamentazioni regionali la soluzione dei problemi; è sufficiente tener conto della straordinaria diversità delle interpretazioni presentate dalle diverse regioni sui trattamenti obbligatori per rendersene conto. Nel gruppo a cui ho partecipato si è sostenuto, per esempio, che in alcune regioni l’ASO non viene mai utilizzato, e vivacemente criticato come principio, in altre è considerato strumento abituale, importante per l’aggancio terapeutico in talune situazioni critiche. Di fronte a posizioni così distanti credo che non sia più tempo di riflessioni ma di interventi, così come credo sia giunto il tempo di dire che da troppo alcuni temi restano elusi. Quello sollevato dai neuro-psichiatri infantili sul consenso nella minore età ne è chiaro esempio. Accettare norme che trattino il problema del consenso nella minore età come se si trattasse di categoria unica, ponendo sullo stesso piano persone di 13 o 17 anni non solo non è coincidente con la consapevolezza clinica di ciascuno di noi, ma si pone in contrasto anche con le osservazioni scientifiche dei settori specialistici ed anche con orientamenti di altri paesi europei.

Per quanto attiene poi alla psichiatria del territorio, sono fortemente convinto che per lavorare bene sia necessario avere certezza della cornice normativa di riferimento. Credo che mai come in questi tempi gli psichiatri avvertano il bisogno di un quadro operativo sicuro, definito. L’esistenza di un cambiamento in atto credo sia avvertita da molti di noi, non senza timori. Per lungo tempo si è operato percependo attorno a sé l’esistenza di un pensiero condiviso, di una strategia comune che si rifletteva nella norma; attualmente non è più così, è chiaro lo scollamento fra operatività quotidiana e norma, anche perché diverso è il livello di aspettative e di richieste del contesto; è davanti agli occhi di tutti l’ondata di ritorno di richieste di controllo sociale, veicolate anche da recenti fatti giudiziari. Questo tema è stato dibattuto nel gruppo e se da un lato le recenti pronunce della Corte Costituzionale sono state apprezzate per l’apertura trattamentale nei confronti dei pazienti socialmente pericolosi, dall’altro non dobbiamo nasconderci che di fatto esse attribuiscono agli psichiatri un chiaro mandato di difesa sociale. Un po’ dovunque, in carenza di normativa, vengono attuate prassi giudiziarie che cortocircuitando completamente il DSM affidano direttamente ai servizi pazienti giudiziari, e la richiesta — chiara – è curare nell’interesse della collettività, in prospettiva di difesa sociale. Si sta creando, specie nelle strutture riabilitative, una doppia popolazione di pazienti, con diverso mandato, ed è situazione che impone attenzione perché non credo si possa curare ignorando modalità di invio e finalità; quando poi qualcosa di grave accede, come le recenti vicende giudiziarie a carico di psichiatri testimoniano, non ci si può più difendere assumendo di avere solo funzioni di cura.

Ben venga la chiusura degli OPG, dunque, ma se il trattamento del paziente socialmente pericoloso deve passare attraverso i servizi dovremmo discutere come questo trattamento va fatto, con quali modelli, strategie, con quali strutture è possibile rispondere alla richiesta di trattamento e controllo. Non dobbiamo farci lusingare dal passaggio dalla sociale pericolosità al "bisogno di trattamento", ed invece preoccuparsi di chiarire quale mandato è sotteso a questa richiesta, se è possibile svolgerlo; altrimenti diviene solo indifendibile richiesta di assunzione di responsabilità.

Quando si parla di interventi di urgenza e di continuità alle cure si cita spesso, anche oggi è stato fatto, l’articolo 54 c.p., ovvero lo stato di necessità. La cosa non mi convince affatto. Credo sia legittimo chiedere di lavorare in un sistema che non obblighi a ricorrere all’articolo 54 c.p. per giustificare un operato che non ha nulla di straordinario, credo si sia in diritto di avere norme e regolamenti che indichino con chiarezza se si è legittimati o meno a fare qualcosa, in che modo ed a quali condizioni. L’articolo 54 del codice penale, peraltro, non è un jolly da usare a proprio piacimento ed a chi non lo ricorda vorrei rammentare che l’incipit è: "non è punibile chi". Il che significa; non avresti dovuto farlo ma vista la situazione non sarai punito. Credo che gli psichiatri abbiano il diritto di lavorare con meno incertezze e timori — che poi si riflettono poi sulla qualità dell’assistenza, del rapporto con il paziente — perchè l’alternativa, al di là dei buoni intendimenti, è la medicina difensiva, ovvero la morte del rapporto terapeutico. Rifiutare di lavorare con il solo ombrello protettivo dell’art. 54 c.p. non è accademia, distinguo linguistico, è ribadire la volontà di operare in condizioni di chiara legittimità, é testimonianza della necessità di restituire agli strumenti normativi e regolamentari psichiatrici chiarezza di contenuto e confini. Abbiamo bisogno di nuove norme, riferimenti, regolamenti ma anche di nuove prassi che vanno costruite sulla scorta dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale che, su alcuni temi, come si diceva, è invece progredita, e bene.

Il pensiero è all’amministrazione di sostegno, che a mio avviso richiede anzitutto un salto qualitativo concettuale da parte di tutti coloro che in qualche modo vi si avvicinano. Noi siamo figli di un sistema fondato sulla tutela, ovvero sulla delega e privazione di diritti, con giudici tutelari almeno in parte ancora legati ad una visione patrimoniale della tutela, che oggi invece, con l’amministrazione di sostegno, diviene strumento di garanzia e promozione sociale. Abbiamo bisogno anche di prassi diverse, nel senso che pure le perizie devono essere redatte diversamente o forse, come ipotizzo, le perizie in questo ambito non dovrebbero essere più fatte, perché la perizia è strumento obsoleto, statico mentre l’amministrazione per essere efficace deve essere dinamica, flessibile, deve potersi adattare ad esigenze personalizzate, deve poter rapidamente cambiare. Abbiamo uno strumento potente come l’Amministratore di sostegno ma vengono ancora usate prassi e modelli che sono propri dell’interdizione, superati.

Credo, ed è l’ultima cosa che voglio dire, che con l’amministrazione di sostegno buone cose possono già esser fatte. Per esempio utilizzarla per pazienti, anche ma non solo psichiatrici, che non siano in grado di fornire il consenso a prestazioni mediche o chirurgiche. Un esempio ricorrente negli ospedali è quello di pazienti anziani, con frattura ad una gamba, non in grado di fornire il consenso e non interdetti, per i quali il ricorso allo stato di necessità è una vera e propria forzatura; o, ancora, può essere usato in pazienti psichiatrici che non sono in grado, per ragioni psicopatologiche, di fornire il consenso ad interventi medici utili alla loro salute. Già oggi vi sono amministratori di sostegno nominati solo per vicariare ed integrare il consenso alle cure mediche, ed é cosa importante. Mi piace infine pensare all’amministratore di sostegno, e azzardo questa valutazione alla presenza del Professor Cendon che l’ha creata, come coscienza critica vicaria in un paziente che, in un dato momento, non riesce ad esercitarla. Ho ascoltato cose importanti oggi, in gruppo, a proposito del rischio di veder troppo sbilanciata la relazione medico-paziente all’interno di un CSM, con una prassi ordinaria nella quale lo psichiatra, possessore delle conoscenze, sa cosa è bene per il paziente e decide per lui. Ecco, tra le tante funzioni che può svolgere l’amministrazione di sostegno mi piace immaginarlo come quella parte di ciascuno di noi che consente, quando si è chiamati a svolgere il ruolo di paziente, di poter dire: questo trattamento non mi piace, o mi piace ma non in questo luogo o magari con quell’altro medico. Anche questo è ciò che può essere l’amministrazione di sostegno, ciò che deve diventare. Il vero problema in questo caso è costruire una nuova prassi ed anche ragionare su chi può svolgere il ruolo di amministratore di sostegno, perché forse il grande limite di una delle leggi migliori che siano state prodotte negli ultimi anni è la difficoltà di avere, senza costi, amministratori terzi, laddove alla famiglia non si possa far ricorso. Tutto ciò è la dimostrazione che non solo di nuove norme abbiamo bisogno ma anche di trovare il modo di adattarle alle prassi, di plasmare lo strumento sulle reali esigenze dei pazienti.

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Calensario seminari progetto salute mentale