Buongiorno, permettetemi di ringraziare gli organizzatori per avermi invitato.
Ecco vi dico subito che siete un pubblico di colleghi con cui da tempo però non interagisco, da quando mi sono trasferito dall'Università di Padova, dove insegnavo alla Facoltà di Psicologia, alle Università emiliane prima Bologna, poi Reggio Emilia e infine Modena. Sono alla conclusione della mia attività di docente e mi piace concludere con quei colleghi di altre discipline con cui ho iniziato, prima a Trento e poi a Padova. Allora pensavo, pensavamo che fosse necessario creare queste sinergie tra le scienze dello psy e le scienze della cultura perché non sempre ci si rende conto di quanto adoperiamo, in maniera non pertinente rispetto all'altro campo, concetti, metodi, definizioni che possono creare delle ambiguità, possono creare addirittura dei fraintendimenti.
Va bene, forse avrò modo di dire qualcosa sull'antropologia psicologica più avanti, mentre nel pomeriggio ascolterò la restituzione dei gruppi. In questo seminario mi trovo nella condizione di dover legittimare, in un certo senso, il contributo antropologico su quelli che sono dei temi sui quali voi potete agire non solo da ricercatori scientifici, ma anche da professionisti sul campo. Tuttavia devo immediatamente dirvi che, in prospettiva antropologica, anche noi antropologi adoperiamo gli stessi termini, gli stessi riferimenti, gli stessi concetti, ma in maniera devo dire spesso molto diversa. Vi anticipo che non è nelle mie intenzioni fare una lezione accademica; vorrei invece iniziare dandovi alcuni flash, alcune immagini, che spero vi possano servire non solo nella giornata odierna. Vorrei adoperare tre immagini della civiltà occidentale, in questo sono anomalo come antropologo, perché di solito gli antropologi parlano delle altre civiltà.
Il primo flash viene dall'inventore della storia, l'inventore forse dell'antropologia, quel grande intellettuale viaggiatore, anticipatore del sapere delle scienze umanistiche che è stato lo storico greco Erodoto (484 a. C. — 425 a. C. circa). Erodoto ci dà una strana notizia di un uso che è presente a Babilonia che è cioè di esporre il malato nel mercato; tutti coloro che si trovano a transitare nel mercato si fermeranno davanti al malato, ai malati e daranno delle loro opinioni su quello che sta facendo il malato, su quello che sta facendo il gruppo familiare del malato e danno dei consigli rispetto alle proprie esperienze. Sembrerebbe quasi che a Babilonia non esista una scienza medica, però sappiamo, lo sanno oggigiorno gli studenti delle scuole medie del nostro Paese, che invece è proprio a Babilonia che nasce la scienza medica ed esiste da mille anni prima di questa notizia data da Erodoto. A cosa serviva, allora, questo incontro tra il malato e la collettività? Ad immettere il malato come problema della collettività, e non più solo come problema né individuale né familiare. In questo senso la notizia è stuzzichevole rispetto a quelli che sono i vostri interessi, ma tornando ad Erodoto egli insiste sui grandi vantaggi che a Babilonia ci sono con quest'uso e raccomanda i suoi compatrioti di adottarlo per migliorare appunto il sistema di prevenzione e di cura in Grecia.
La seconda sollecitazione proviene sempre dalla nostra civiltà ed è di un altro storico: Polibio (203 a. C. — 120 a. C.), il quale ci dice una cosa strana, ci parla della notte della vittoria, del trionfo e della distruzione di Cartagine da parte degli eserciti romani che così hanno per sempre debellato il nemico tradizionale. Scipione ha molto insistito come tutta quanta la sua famiglia perché la guerra venisse fatta in Africa; hanno ottenuto il permesso del Senato, Scipione ha vinto, l'esercito cartaginese ha dato fuoco alla città, l'ha totalmente rasa al suolo. È il trionfo non solo suo personale, ma anche della sua famiglia; però Scipione, racconta Polibio, di fronte al rogo di Cartagine non è riuscito, lui generale soldato, a trattenere le lacrime perché di fronte al rogo si è accorto che stava scomparendo anche Roma. La notazione di Scipione è estremamente intelligente: la Roma degli Scipioni finisce, infatti, con la conquista di Cartagine. Da quel momento comincia una storia romana completamente diversa, la Repubblica entra in crisi, cominciano le guerre civili, di lì a poco si concluderanno ed insorgeranno le guerre del Triumvirato e poi comparirà il Principato e dopo il Principato comparirà l'Impero: Roma è veramente finita e finisce nel momento in cui Cartagine finiva o ancor prima di Cartagine.
A cosa può servire questa sollecitazione? Credo che la si possa leggere in chiave prospettica per evidenziare come i problemi, o almeno molti dei problemi che noi viviamo, appartengano allo stesso ordine di quelli che sono sorti a Roma con la distruzione di Cartagine.
Vediamone alcuni esempi:
la caduta del muro di Berlino e la crisi dell'impero sovietico – come aveva anticipato Elias Cannetti – hanno creato un problema gravissimo che è la scomparsa della seconda massa. Ovviamente Scipione non sapeva di questo pensiero di Cannetti, ma Cannetti dice che quando scompare la seconda massa, la prima massa entra in un corto circuito per cui i suoi problemi diventano più gravi di quelli della seconda massa che è scomparsa. Noi non abbiamo avuto la saggezza di un militare nell'accorgerci che non era la fine della storia quella che si determinava con la caduta del muro, ma l'inizio di una nuova storia, nella quale, ancora adesso facciamo fatica a posizionarci.
I problemi che bisogna affrontare nella nuova era post-moderna toccano svariati fenomeni: i problemi della gestione del coinvolgimento, le differenze e l'interazione nella promozione della salute passano attraverso una situazione di radicale trasformazione della nostra società, e quasi tutte le nostre vecchie categorie divengono inutili. A cominciare dalla categoria Comunità. Oggi la categoria "comunità" serve ad indicare fondamentalmente la comunità internazionale: è una comunità che zoppica, è una comunità che non sempre funziona come ci piacerebbe che funzionasse, ma è l'unica comunità che abbiamo. La nostra comunità è l'Organizzazione delle Nazioni Unite, con la sua Costituzione, con il suo codice che è dato dai Diritti Umani e con tutta quanta una ristrutturazione delle relazioni degli Stati Nazione, delle ex-colonie, delle realtà precedenti alla Seconda Guerra Mondiale e, tenendo presente il significato di questa seconda sollecitazione, dovremmo smetterla di pensare in maniera schizofrenica. Cioè se oggi parlassimo dei cosiddetti extracomunitari, del fenomeno della migrazione, delle conflittualità culturali potremmo essere ripresi di essere andati fuori tema, di parlare di qualcosa che non afferisce agli interessi che questi seminari andranno a sviluppare. Però noi stessi potremmo rincontrarci in un'altra occasione in cui non parleremo di salute mentale, non parleremo di problemi della prevenzione, ma daremo voce, metteremo l'accento sulla convivenza nella nostra realtà completamente diversa, dentro lo stesso contesto, rispetto a qualche anno fa. E allora è legittimo parlare di soggetto come lo concepiamo noi, quando questo soggetto è completamente differente, si percepisce come differente, vuole essere percepito come differente, nel momento in cui ha attraversato un braccio di mare o ha fatto un viaggio più lungo per giungere in Occidente, nel momento in cui si è spostato verso l'Occidente; persino un secolo fa organizzavamo il mondo a partire dalla nostra indiscussa superiorità, eravamo talmente superiori da avere praticamente due possibilità da offrire al mondo: potevamo essere democratici-popolari, potevamo essere democratici-parlamentari, potevamo ricorrere ad Hegel (1770-1831), potevamo ricorrere a Marx (1818-1883). Era sempre l'Occidente che proponeva la sua immagine. Ma con l'implosione del mondo sull'Occidente, non solo è cambiato in maniera determinante l'Occidente, ma sta cambiando anche il nostro modo di pensare noi stessi, gli altri e i compiti che ci sono stati attribuiti.
La terza sollecitazione occidentale nasce da una moda che c'è stata nel campo della pittura per quasi tutto il Rinascimento e ha coinvolto numerosissimi artisti, mi riferisco solamente a quello che amo di più perché non solo lo penso il più grande, ma perché, oggettivamente, il riferimento che faccio ad un suo quadro è il riferimento al quadro più riuscito. Il pittore di cui parlo è il Beato Angelico (1395-1455) . Può anche accadere, al turista vigile e fortunato, di imbattersi, nel suo girovagare artistico fiorentino, in un piccolo dipinto del Beato Angelico al Museo di San Marco. Due Santi – Cosma e Damiano – sono raffigurati mentre si affaccendano "manualmente" a compiere un miracolo: trapiantare al diacono Giustiniano "la gamba di un etiope da poco deceduto".
La scena raffigura un uomo seminudo sdraiato su un letto, mentre da un lato e dall'altro due altri uomini vestiti in bianco rosso e blu gli "innestano" all'altezza della coscia un arto nero. Anticipando di cinque secoli la nostra pratica medica dei trapianti d'organi, i due Santi eseguono per prodigio ciò che la tecnica ha oggi reso possibile nel quotidiano: trasformando una chimera in una pratica, ma aprendo al contempo un nuovo campo di riflessione alle questioni dell'etica medica. Cosma e Damiano non mostrano alcuna preoccupazione sulla legittimità del "prelievo" dal negro morto; adottando il principio del opting out: lui vivente non aveva apertamente espresso il suo disaccordo al dono. Ma anche così la questione non si conclude. Perché infatti il candidato è stato Giustiniano, e non un qualunque altro che versava nella sua identica condizione? E perché se miracolo aveva d'essere, non concentrarsi su gli innumerevoli bisognosi d'altri e diversi interventi forse più gravi ed impellenti? Secondo quali criteri, insomma, quel miracolo oltre che vantaggioso è stato anche opportuno e "giusto"?
L'arte del Frate ha la capacità di rifrangere l'anacronismo di questi quesiti perché anch'essa anticipa – così come lo fanno i santi che precorrono i trapianti – la relazione tra fatti sociali e valori culturali. L'Angelico infatti contestualizza l'evento mirabile in uno spazio intimo, quotidiano, privato. I particolari della scena che raffigura il miracolo sono piccoli oggetti d'uso comune: una bottiglia e un bicchiere al capezzale del diacono, un paio di pantofole ai pié del letto. Il "trapianto" viene così descritto, nella semplicità dei gesti, come un evento reale. L'analisi antropologica, che sempre si attesta sulla descrizione dei fatti sociali, analizza i valori della cultura sfuggendo alla tentazione di assumere posizioni iper-relativistiche – "tutto è permesso" – ma cercando anche di evitare proposizioni etnocentriche indifendibili – il primato dell'Etica Occidentale, giustificato solo dal (mito del) Progresso della Civiltà e della Storia, della Scienza e della Tecnologia.
In prospettiva antropologica, quindi, il dibattito sui temi dell'etica medica va ricondotto ad una relazione tra ciò che i membri d'un gruppo fanno e pensano che sia giusto fare, e ciò che la cultura prescrive loro di fare. Fatti e valori, moralità e morale. Il problema non consiste, secondo immarcescibile tradizione letteraria, nel farsi guerra tra universalisti e "relativisti": cioè tra studiosi dell'etica (universale) e studiosi della cultura (relativa al contesto storico e sociale). Il problema ci riguarda in quanto uomini, non in quanto – diciamo cosi – "scienziati dell'uomo". II Beato, pittore di mezzo millennio fa, può aiutarmi ad essere chiaro. Se tutto si compie all'interno della camera del diacono – e il miracolo è un tutto, una totalità, un assoluto – il mondo che sta fuori dalle quattro mura può essere considerato "altro", può non venire preso in considerazione. Il miracolo ha delle sue regole (bisogna, preliminarmente, credere, pregare, esser pii e meritevoli, ecc.) ma anche il normale dell'esistenza e l'umiltà del quotidiano sono organizzati da regole: la cultura, diciamo noi antropologi. La genialità dell'Angelico sta nell'aver messo insieme, sulla sua tavola, l'incredibile e il mirabile accanto al tradizionale e al banale. Così tutta l'umanità è davvero entrata dentro un'unica stanza – il Villaggio Globale di McLuhan. L'informazione e la comunicazione hanno abbattuto le mura della stanza: non c'è più un esterno, non c'è più alterità. Ci sono però ancora, anzi soprattutto ora, le differenze.
La scienza della salute e le sue tecniche terapeutiche dovranno, con gradualità sapiente, essenzializzare le differenze culturali altrui, intrecciandole con l'anticaprofessione di aiuto del divino Apollo. Come potranno coadiuvare i contributi d'un sapere antropologico in grado di dotare l'uomo contemporaneo d'un "occhio critico" sulle insorgenti alterità? Oggi gli inarrestabili movimenti di popolazioni producono e riproducono un sapere meticcio a cui adattare strategie interdisciplinari per interpretarne la "complessità interculturale".
Quello che è rilevante, ripeto, è che il miracolo viene fatto attraverso un'invenzione medica. È solamente un caso, ma la nostra vita è dominata dai casi, che il primo trapianto sia stato fatto con un organo di un negro nel torace di un bianco in un ospedale sud-africano. Quello che è ancora più importante però è che il Beato Angelico ci fa vedere come dobbiamo, proprio al contrario di quello che ci consiglia Erodoto, togliere dal suo contesto il malato, dobbiamo rinchiuderlo dentro questa piccola stanza dove i due Santi fanno questo trapianto, dobbiamo isolare il malato dal suo mondo perché è questa la vera santità, è questo il vero miracolo, è questa la vera possibilità di guarigione del malato.
Come sapete, noi abbiamo nella nostra tradizione le divisioni della medicina che contengono tanto la prospettiva del mercato di Babilonia, quanto la prospettiva del miracolo di Cosma e Damiano.
Attualmente però sembra che a queste due possibilità se ne siano aggiunte altre; e mi chiedo quanta consapevolezza abbiamo di quante altre possibilità si sono aggiunte attraverso quello che è accaduto con la caduta della seconda massa, che è accaduto con l'implosione del mondo sull'Occidente?
C'è un meraviglioso film che, secondo i patiti del cinema della Nouevelle Vague (fine anni '50) ha iniziato la Nouvelle Vague, un film di un antropologo, Jean Rouch, che ha come titolo I maestri pazzi che descrive queste altre, e diverse possibilità, attraverso il racconto di una patologia psichiatrica che si determina in un paese africano a seguito del fenomeno di urbanizzazione violenta da parte della tribù. Questi abitanti creano un rito assolutamente inesistente che, tra l'altro, è volgare per quanti riferimenti approssimativi ci sono alle loro tradizioni arrivando a forme violente come quella di scannare un cane e divorarne il cuore palpitante, la comunità riesce a trovare un sistema di integrazione nuovo che non è quello proposto dalla città coloniale, ma non è neanche quello della tradizione tribale da cui loro provengono. Cioè questa è una dimostrazione di come la medicina occidentale ha influenzato la cultura africana, ma abbiamo anche il rovescio della medaglia: abbiamo tutta quanta una serie di tecniche curative, preventive, di supporti alla salute che arrivano nella nostra società, a Roma o in qualunque altra città italiana, da tradizioni completamente diverse dalla nostra che non hanno nessuna integrazione con la nostra tradizione. In questo senso diviene fuorviante parlare di comunità. Noi non abbiamo più la vecchia comunità perché oggi la comunità è comunità internazionale, la comunità che si è costituita è quella internazionale e a questa noi concettualmente ci riferiamo. La comunità ha le sue origini nel Medioevo, si è costituita nel Medioevo cioè nella fase di compressione demografica, nella fase in cui era necessario ricorrere alla comunità di fronte alla grande crisi dei due imperi romani, alla grande crisi dello stesso potere del Papato. La comunità è la soluzione che viene trovata nel Medioevo ai problemi di un mondo che non esiste più e che ancora non sa come doversi organizzare. La comunità dunque è un fenomeno essenzialmente medievale: quando il mondo diventa moderno, la comunità scompare e, infatti, in tutta quanta la teoria delle scienze umanistiche c'è la contrapposizione tra comunità e società dove la società rappresenta la modernizzazione, la razionalizzazione dei processi, un andare al di là di quelle che sono delle relazioni che erano state costituite solo per risolvere dei problemi pratici, ma che erano insufficienti per il nuovo progetto che si dava l'Occidente e con l'Occidente che si dava tutto quanto il mondo.
Per questioni di tempo rinuncio a tre citazioni più antropologiche su che cosa fa il resto del mondo e mi avvio alla conclusione non prima di fare però una sollecitazione sul concetto di marginalità: penso che il concetto di marginalità possa essere un concetto al quale sia utile ricorrere tanto per spiegare che cosa si sta determinando nell'Occidente a seguito di questa radicale trasformazione dei costumi, delle relazioni, quanto per vedere come nella comunità nazionale, anche se la comunità nazionale è molto difficile da capire che cosa sia, si determini attraverso quello che un grande antropologo, insieme a Gregory Bateson (1904-1980), allievo tra l'altro di quest'ultimo, Victor Turner (1920-1983) indica come sfrangiamenti, elencandone tre tipici della vita comunitaria.
Il primo è lo sfrangiamento prodotto dalla marginalità, cioè sono quegli sfrangiamenti, dice Turner, che si producono sugli orli della struttura, sono degli sfrangiamenti che possono non essere negativi, sfrangiamenti che possono essere altamente positivi. Pensate a come è veramente difficile stabilire dove finisce il negativo e comincia il positivo, e viceversa, su alcuni di questi soggetti della marginalità: è sufficiente essere un grande musicista rockcontemporaneo per cui l'assunzione della droga non relega il grande musicista tra i drogati, ma lo mantiene tra i creativi, tra gli artisti e del resto uno dei nostri cantautori era un frequentatore delle sostanze e addirittura in una lettera alla sorella racconta che c'ha dell'ottima roba (sostanza psico-attiva) che sta portando dall'Africa e di cui le farà omaggio, solamente che quello che è il problema dell'assunzione della droga e della dipendenza cambia completamente a seconda del punto della struttura in cui ci si colloca. Se lo sfrangiamento della marginalità nel caso dell'artista è positivo, divento negativa in un'altra prospettiva, ma badate che è contemporaneamente positivo e negativo, perché naturalmente poi si muore di droga anche nei complessi rock e non si muore usando la droga il sabato sera. Non tutti coloro che la adoperano il sabato sera – e sono tantissimi – muiono. Cioè il vero problema è perché alcuni precipitano nella negatività ed altri invece riescono a mantenersi come sfrangiatura della marginalità.
Il secondo concetto sulla marginalità di Turner è quello della liminalità cioè sono gli sfrangiamenti che si determinano all'interno della struttura. Come molti di voi anch'io vengo, veniamo dal mondo universitario, è vero che il mondo universitario ha tante cose che non funzionano e su cui dovremmo agire e trovare delle soluzioni. È vero che ci sono dei lavori che sono inutili, allo stesso tempo è vero che ci sono però contemporaneamente dei lavori molto all'avanguardia. Il problema che differenzia il ricercatore di successo da quello di insuccesso è dato da questa liminalità, lo traduco immediatamente nel fatto che praticamente la fortuna di chiamarsi Levi Montalcini e andare negli Stati Uniti piuttosto che rimanere in Italia ha fatto la differenza. La nostra collega, laureata Nobel, se fosse rimasta in Italia molto probabilmente non avrebbe raggiunto il premio Nobel, nonostante tutte quante le sue altissime doti. Sono veramente delle situazioni per cui essere in un posto o essere in un altro determinano non solo il successo o l'insuccesso, ma anche la percezione della realtà in maniera diversa.
Il terzo elemento è dato, invece, dagli sfrangiamenti che stanno al di sotto della struttura. Gli sfrangiamenti che stanno al di sotto della struttura sono gli sfrangiamenti di coloro che un tempo venivano definiti i poveri, gli emarginati, gli analfabeti e che oggi si trovano a convivere nella nostra stessa realtà, ma con questa loro sfrangiatura che cambia un po' tutta quanta la realtà, anche la nostra.
Penso di poter concludere così, vi ringrazio nuovamente per l'occasione che mi è stata data e per l'attenzione e la pazienza con cui mi avete ascoltato. Buon lavoro.