Oggi una serie di importanti risultati delle neuroscienze e delle scienze cognitive che ci dicono che ogni cervello, ogni mente, ogni corpo individuali sono microcosmi che riassumono in sé i tratti multiformi di quel macrocosmo che è l’umanità. La diversità non è definitoria soltanto delle relazioni fra culture e delle relazioni fra individui, ma anche e soprattutto di tutte le relazioni interne agli individui. Ogni cervello, ogni mente, ogni corpo individuali si sviluppano e si evolvono attraverso la cooperazione, l’intreccio, la tensione, il conflitto, la convergenza, la divergenza, la coesistenza di parti, di sottosistemi, di "attori" che hanno logiche, storie, obiettivi assai diversi ed eterogenei. Tutti i nostri comportamenti, anche quelli più stereotipi e apparentemente normali, sono in realtà il risultato di un compromesso e di un’integrazione fra circuiti neuronali assai differenti, attivati in diverse parti del cervello, e che sono in tensione prima ancora di trovare una relativa composizione, peraltro sempre precaria e revocabile.

Parallelamente, l’esplorazione del piano propriamente psichico ci dice che l’individuo sano e ben integrato è il risultato della comunicazione e del compromesso fra attori psichici multipli ed eterogenei, mentre la malattia mentale è spesso il risultato di un "colpo di stato" che porta un aspetto della personalità a voler sopprimere le sue controparti, interrompendo il continuo gioco del conflitto e della cooperazione fra punti di vista eterogenei. In un’ottica analoga sono stati studiati anche i processi della creazione artistica e scientifica, apparsi proprio come il risultato più fecondo della scelta consapevole di integrare e di intrecciare linguaggi, punti di vista, idee, attori psichici diversi ed eterogenei.

Il nostro patrimonio mentale e biologico, invece di insediarci in un ambito di possibilità relativamente fisso e predeterminato (come nella condizione animale) ci apre l’accesso a uno spettro di possibilità eterogenee, molteplici, disparate, potenzialmente illimitato, di cui non si scorge nessun indizio di un prossimo esaurimento. La condizione umana non è un destino segnato da una storia già scritta, ma una creazione continua, che si fa e si disfà in occasione di tappe, svolte, soglie che possono annullare le tendenze prevalenti in un dato momento e possono far emergere nuove tendenze altrettanto compatibili con la ricchezza e la varietà del nostro patrimonio biologico e mentale.

Sono proprio questa ricchezza e questa varietà del nostro patrimonio biologico e mentale che ci precludono di definire i singoli componenti della specie umana facendo riferimento a comportamenti medi, mediati, stereotipi o normali, come è abituale nel caso delle specie animali. E’ come se la specie umana, nell’attuare fisicamente la sua diaspora sulla superficie del pianeta, che l’ha condotta in habitat, in regioni, in climi assai diversi e disparati, abbia attuato una parallela diaspora simbolica nell’universo delle possibilità. Le diverse possibilità realizzate dalla specie umana nello spazio e nel tempo sono proprio quelle che noi chiamiamo culture. Sono tutte irriducibili e originali, perché tutte compatibili e generate dallo stesso bagaglio biologico e mentale della nostra specie, ma sono anche tutte strutturalmente incompiute, perché rimandano a un universo di possibilità estremamente più vasto, che in gran parte è ancora da esplorare e che forse sarà sempre impossibile esplorare compiutamente. La condizione umana ha un legame originario e irriducibile con la diversità, con la varietà, con la molteplicità dei linguaggi, dei punti di vista e dei comportamenti. L’identità umana non si riavvolge sui percorsi già tracciati, ma si ampia e si espande, per così dire a spirale, a mano a mano che le possibilità astratte prendono corpo e si concretizzano.

Ora, l’attuale età della globalizzazione e delle innovazioni tecnologiche a cascata appare caratterizzata da un lato da una profonda fedeltà e coerenza con questo senso profondo della condizione umana, ma dall’altro anche da un’esasperazione di questa tendenza che potrebbe produrre, se non esplicitata e governata, a drammatici e subitanei punti di rottura. E’ certo che sin dall’emergere del linguaggio, della coscienza e dell’universo simbolico, una delle caratteristiche essenziali della specie umana è stata una relativa autonomizzazione dall’universo materiale e dai vincoli spaziali. Tuttavia, in gran parte della sua storia, la specie umana è stata divisa in popolazioni sufficientemente separate e radicate in singoli luoghi, habitat, ecosistemi: la vita degli individui si svolgeva in genere entro questi scenari locali, che erano in grado di modellare fin nei dettagli gli universi mentali, culturali, simbolici. Naturalmente non vi era un perfetto isomorfismo, gli universi culturali e simbolici sfuggivano talvolta a un’impronta troppo stretta dei luoghi, ma la comunicazione diretta fra i due "mondi" della specie umana, quello materiale e quello mentale, era comunque assicurata. Oggi, invece, un rapido sguardo ai processi di globalizzazione basta a comprendere che il divorzio dai luoghi, l’indebolimento dei vincoli spaziali è un tratto onnipresente anche nella vita quotidiana degli individui comuni. Sempre di più le interazioni pertinenti per l’identità di un’individuo non avvengono in un unico spazio locale, ma in spazi molteplici e intrecciati in cui locale e globale, materiale, simbolico e informatico, presente, passato e futuro interagiscono in forme assai diversificate. Ciò non equivale affatto a un’eliminazione pura e semplice dei vincoli spaziali, bensì appunto all’insediamento in uno spazio più ampio, stratificato e complesso, dotato di un insieme di possibilità ben più esteso e ancora poco esplorato. Qualcosa di analogo avviene rispetto alle innovazioni tecnologiche, in particolare alle biotecnologie e alle tecnologie mediche che promettono di trasformare radicalmente il rapporto con i nostri stessi corpi. Sia nelle loro prospettive a breve termine — l’allentamento del controllo della selezione naturale sulla durata di vita degli individui grazie ai progressi generalizzati della medicina — sia nelle loro prospettive a medio termine — l’intervento su malattie genetiche fino ad oggi incurabili grazie al perfezionamento delle conoscenze dei genomi individuali — sia anche nelle loro prospettive più futuribili — l’esplorazione di nuove sensorialità e di nuove estetiche del corpo grazie a interventi genetici mirati – queste tecnologie promettono sempre e comunque un allentamento dei vincoli biologici su cui la nostra esistenza si è in passato basata. Anche in questo caso dobbiamo ripetere: non si tratta di un annullamento di questi vincoli e di un’esasperazione arbitraria delle possibilità, bensì di una maggiore flessibilità di questi vincoli e della produzione di uno spazio di possibilità più ampio e articolato. Ovviamente la questione cruciale non è di frenare e tantomeno di capovolgere questi processi, quanto di chiederci se non sia possibile accompagnarli con una nuova capacità riflessiva, se non sia possibile agevolare l’umanità ad insediarsi in questi spazi di possibilità con consapevolezza e anche con una certa tranquillità. E’ importante, soprattutto, diffondere la convinzione che — quali che siano gli sviluppi in atto — esse non condurranno affatto all’annullamento dei vincoli originari, a rendere tutto equivalente ed egualmente possibile, ma al contrario a precise scelte, a nuove priorità che dovranno essere definite in piena responsabilità.

La linea riflessiva che stiamo seguendo ci impone anche di affrontare, e possibilmente di cercare di riformulare, la tradizionale opposizione che intercorre fra, da un lato, l’ordinamento delle esperienze umane in una scala lineare e gerarchica ispirata da criteri di "progresso" o di "maturità" e, dall’altro, la rassegnazione a un relativismo impotente che mette tutte le esperienze sullo stesso piano in quanto equivalenti espressioni della condizione umana. E’ chiaro che una visione della specie umana accentrata sulla ricchezza delle possibilità, sulla diversità delle culture, sulla varietà delle esperienze, sulla legittimità di diverse espressioni nello spazio e nel tempo nega alle radici la possibilità di ogni valutazione lineare e statica di civiltà, culture, gruppi, collettività. E, tuttavia, questo stesso accento che va sull’incompiutezza radicale e essenziale di ogni espressione umana, sulla creatività della specie umana basata non sull’isolamento e sulla cristallizzazione, ma sull’interazione, l’integrazione e l’emergenza di nuove possibilità ci dice che culture, civiltà, gruppi e collettività devono trovare un equilibrio fra chiusura e apertura, fra l’espressione delle loro singolarità e delle loro particolarità e l’accettazione degli apporti creativi che provengono loro dall’esterno. In altre parole: ogni punto di vista che si asserisce come completo ed autosufficiente, che si erge a pietra di paragone senza entrare in un gioco di ascolto e di interazione con altri punti di vista, è la negazione pura e semplice del quadro dell’umanità vista come insieme di possibilità che si intrecciano e si espandono insieme. Proprio per questo la valorizzazione delle diversità non è incompatibile, ma anzi fa tutt’uno, con una nuova aspirazione all’universalità, un’universalità che non è decisa a priori sulla base di caratteristiche statiche e definitorie della specie umana, ed emerge invece dai giochi di relazione e di interazione fra le tante possibilità. Proprio per questo difendere e valorizzare i diritti umani e la democrazia quali le più significative prospettive universali emergenti dall’età della globalizzazione non equivale a retrocedere verso tradizionali criteri etnocentrici di progresso ma significa prendere sul serio molteplici segnali di interazione culturale, politica e spirituale fra le più diverse culture, che continuano a segnare la nostra era nonostante i perversi intrecci di barbarie vecchie e nuove.

Queste riflessioni ci consentono anche di prendere sul serio le radici antropologiche delle prospettive fondamentaliste, e nel contempo ci impongono di segnalare la loro profonda deviazione e perversione, che va contro le radici stesse della condizione umana. Il fondamentalismo è un tentativo di scorciatoia, di apparente alleviamento della fatica di abitare e di percorrere uno spazio ampio di possibilità, è la rinuncia al movimento, è il tentativo di trincerarsi in un luogo statico, di ridurre la vertigine dei grandi spazi e di lottare contro il flusso perenne del tempo. Ma con ciò stesso va contro le radici stesse non solo dell’umanità, ma della vita stessa, che sono cambiamento, evoluzione, impermanenza, incompiutezza, generatività. Rispetto alla storia e all’esperienza umane, il fondamentalismo scambia la parte per il tutto, pretende di isolare — in quanto tribunale sommo – un singolo tempo e un singolo spazio di questa esperienza e di questa storia, se non addirittura un singolo testo e una singola voce, siano essi di natura religiosa o non religiosa. In questo modo ignora rovinosamente come i sensi profondi del tempo, del spazio, del testo o della voce così prescelti sono dati proprio dalle loro relazioni con tempi, spazi, testi, voci che sono altri, che sono irriducibili e inoccultabili, che sono stimoli e partner dialogici per interazioni creative. Stephen J. Gould, il grande evoluzionista che era anche un grande umanista, ben individuò il discrimine fra la visione creativa dell’umanità e il fondamentalismo, che poi è il discrimine fra la vita e la morte, laddove sottolineò che il fondamentalismo ha in orrore l’eccentrico e il superfluo, mentre queste due dimensioni sono fondamentali non solo per la creatività umana, ma per la creatività della vita e della natura nel suo complesso. Ovvero: la ricchezza delle possibilità e degli attori in uno spazio dato, la ricchezza delle interazioni fra questi attori e queste possibilità, e anche e soprattutto il tempo concesso a queste interazioni perché possano aver luogo e consolidarsi, sono le condizioni fondamentali per la logica dell’emergenza. E’ in questo modo che la vita nasce dall’universo inorganico, che il linguaggio umano nasce dalle reti neuronali, che la qualità della vita degli individui e delle collettività migliora e si espande. Uno dei compiti politici fondamentali di questa età travagliata, nel senso più ampio e degno del termine, è proprio quello di arricchire le esperienze degli individui e delle collettività sia di possibilità, sia di possibilità di interazione.

In questo modo scopriamo l’importanza, ma anche e soprattutto l’ambivalenza, di un termine che oggi è presente in una miriade di dibattiti politici, sociali, storici, antropologici — che è quello di identità. Proprio questo termine è oggi il terreno di contesa di due concezioni assai divergenti, per non dire opposte, della condizione umana. Il richiamo all’identità, infatti, può essere una via per ridurre l’eterogeneo all’omogeneo, il dinamico allo statico, il flessibile al rigido: può diventare una parola d’ordine che impone una scelta, di separare il superfluo dall’essenziale, di purificare, di ripulire, che non a caso sono termini sinistramente risuonanti in tutti i conflitti nazionali, etnici e religiosi più cruenti. In tal caso le identità diverse sono viste come contrapposte, come conflittuali, come mutamente incompatibili: all’individuo spetta solo di schierarsi da una parte, oppure di andarsene o di perire. Il richiamo all’identità, però, può essere anche un invito a scoprire di che cosa si siano veramente alimentate le nazioni, le etnie, le religioni, le culture, le civiltà. Scopriremo allora che identità pure non esistono e che tutte le nazioni, le etnie, le religioni, le culture, le civiltà, sono il risultato di difficili alchimie fra storie, narrazioni, idee, tradizioni che hanno origine in spazi e in tempi differenti, che creano nuove coerenze e nuove emergenze da insiemi di apporti spesso disordinati e disparati. In questo quadro anche e soprattutto ogni persona ci appare come unica, singolare, irripetibile, di valore inestimabile, ogni persona è un fertile terreno di intreccio e di incontro fra identità e narrazioni differenti, ogni volta nuovo e originale, è un laboratorio irripetibile perché l’esperienza umana nel suo complesso si riproduca e si ampli.

Se dobbiamo prospettare un programma poltico e sociale per il presente e per il futuro, questo non può che consistere nel riprogettare le nostre istituzioni rispettando e valorizzando le identità multiple che stanno alle loro radici, e rispettando e valorizzando quell’irripetibile intreccio di identità multiple che è ogni volta ogni persona.

Questa sfida investe in primo luogo le istituzioni formative, e soprattutto quelle che hanno a che fare con i giovani e gli adolescenti, data la proliferazione di stimoli e di opportunità (e, naturalmente, di rischi) cognitivi a cui sono esposti oggi: una proliferazione (fatta di cinema e di televisione, di videogiochi e di internet, di linguaggi musicali e di eventi sportivi, di oggetti e di mode) che il più delle volte salta tutte le mediazioni fra locale e globale ed espone direttamente l'individuo a flussi provenienti da contesti spaziali assai eterogenei e distanti, in un ordine che non è sequenziale e che non è predefinito in alcun modo.

In realtà, si danno connotazioni ancora più problematiche: questi cortocircuiti tra locale e globale, che determinano l'esperienza degli adolescenti e dei giovani dei nostri giorni, si prolungano persino in cortocircuiti tra reale e possibile. I mondi immaginari costruiti dal gioco, dalla fiction, dalla fantascienza, e anche i mondi di remotissimi passati quali sono ad esempio i mondi popolati dai dinosauri, si trovano oggi tutti quanti interconnessi in itinerari che possono diventare assai stimolanti e originali, ma che possono anche condurre a una progressiva erosione del senso della collocazione fisica in questo stesso mondo.

Così ogni individuo è esposto sin dai primi anni di vita a una ricombinazione, ogni volta unica e differente, di mondi lontani nello spazio e nel tempo, che le appartenenze culturali o sociali non riescono più a controllare o ad omologare. L’adolescente o il giovane che intraprende i percorsi formativi tracciati dalle istituzioni scolastiche certamente non ha consapevolezza alcuna di questa sua condizione di simultanea appartenenza a molti mondi. Questo, anche perché il più delle volte questa consapevolezza non l’ha neppure l’adulto, insegnante, cittadino, professionista in continua formazione. Anzi, adolescenti, giovani e adulti tutt’insieme sovente sono turbati dallo sconcerto e dall'inquietudine, percepiti ma non tematizzati, derivanti dal venir meno della solidità (forse soltanto apparente, e tuttavia rassicurante) delle vecchie appartenenze. E questi turbamenti possono diventare il motore per un predilezione regressiva di nuove appartenenze ancora più omogenee e semplificatrici di quelle antiche, come quelle dei tanti tipi di clan o di bande giovanili, o anche quella comportata dall'ovattato assorbimento in una pseudo-virtualità ipertecnologica, ipermeditizzata e defisicizzata.

Dinanzi a queste sfide, che soprattutto per le nuove generazioni sono immediate e quanto mai concrete, le istituzioni hanno il nuovo compito di supportare l'unicità (e la complessità, cioè molteplicità) degli itinerari costitutivi di quelle particolarissime culture che stanno diventando gli individui del nostro mondo, esponendoli alla comunicazione e alla contaminazione reciproca con quelle culture altrettanto originali (singolari e complesse) che sono costituite dagli altri individui.

Il compito urgente è proprio quello di aiutare l'individuo a percepirsi come un'identità multipla, aiutandolo nel contempo a percepire gli altri individui come identità altrettanto multiple. Solo questo gioco di riconoscimenti reciproci, in se stesso e negli altri, può fare emergere nuove idee di collettività e di cittadinanza, sottratte sia al degrado di arcaiche appartenenze rigide ed omologatrici sia al fascino perverso di nuove appartenenze totalizzanti ed anche — ed è l'esatto rovescio della medaglia — nullificanti.

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Calensario seminari progetto salute mentale