Mi chiamo Franca Olivetti Manoukian. Ho una formazione di base in campo sociologico. Professionalmente mi qualifico come psico-sociologa, perché l’ambito disciplinare della psico-sociologia sostiene un approccio attento a collegare dimensioni sociali complessive con dimensioni soggettive / relazionali e in particolare un approccio orientato alla ricerca comprensiva dei problemi dei gruppi e delle organizzazioni. Da più di trent’anni realizzo attività di formazione, consulenza e ricerca presso vari tipi di organizzazioni pubbliche e private. Faccio parte di un istituto che si chiama Studio APS (Studio di Analisi Psico-Sociologica) che ho fondato con altri colleghi quando sono rientrata in Italia, dopo alcune esperienze di studio/lavoro all’estero, in Germania e in Francia. E’ una piccola impresa che senza appoggi istituzionali e finanziari è riuscita a sopravvivere e a svilupparsi nonostante i travagli interni ed esterni che ha attraversato nel corso di trent’anni, producendo un’esperienza di lavoro e di ricerca, limitata, ma credo, qualitativamente decorosa e quasi pregiata. Vive del lavoro che fanno i suoi soci e per me ha costituito e costituisce uno spazio continuo di confronto e di sperimentazione delle difficoltà che ogni organizzazione si trova ad affrontare e dei processi gestionali che vanno attivati e mantenuti.
Negli anni Settanta mi sono occupata essenzialmente di formazione in campo aziendale, ovvero di seminari per capi intermedi, imprenditori e manager di grandi aziende industriali, che già allora prevedevano investimenti formativi nell’area dei comportamenti organizzativi. All’inizio degli anni Ottanta dopo che sono stati istituiti i primi Servizi sociosanitari territoriali e anche i primi Servizi di Salute Mentale ho cominciato ad occuparmi di queste organizzazioni. Mi ci sono appassionata perché sono organizzazioni lavorative molto interessanti e sfidanti (che si misurano in modo particolarmente intenso con le problematiche del rapporto individuo-organizzazione) e perché ritengo che la qualità dei servizi di una società contribuisca in modo consistente alla qualità della vita sociale di tutti. E per questo da sempre mi sono impegnata in modo particolare nel lavoro con i servizi pubblici.
Faccio questa rapida premessa biografica perché ciò che espongo nella mia relazione non è frutto di elaborazioni libresche-accademiche, ma in gran parte si ricollega alle esperienze che ho potuto maturare lavorando nei servizi e che ho cercato, in tutti questi anni, di rileggere e valorizzare, per sviluppare concettualizzazioni più specifiche e congruenti. Mi pare interessante, quando si lavora in questi ambiti, tenere presenti due binari: uno, quello di cercare di utilizzare diversi approcci disciplinari e, quindi, non ancorarsi ad un’unica metodologia e cercare a tutti i costi di applicarla; due, articolare la teoria con la pratica, non tanto nel senso di mettere in pratica la teoria, ma nel senso di concettualizzare la pratica. Per questo e anche perché in prima persona o attraverso i colleghi, ho lavorato in molte regioni d’Italia, porto esperienze non legate a singole situazioni locali.
Solleverò, con il mio intervento, degli interrogativi, offrirò delle provocazioni, perché questo è un seminario, e non una conferenza. E’ previsto che si lavori nei gruppi: ed è una modalità opportuna e necessaria per il confronto, la discussione, la produzione di ipotesi e prospettive che ci si propone di far diventare operative.
Per quel che ho potuto capire, al centro dei seminari che sono organizzati dal Dipartimento della Prevenzione e della Comunicazione del Ministero della Salute come percorso di ricerca intorno alla Salute Mentale, è posto l’obiettivo di arrivare a costruire un piano strategico nazionale per la promozione e la tutela della Salute Mentale: un progetto vero e proprio per il funzionamento e l’operatività dei servizi.
Per quello che finora ne sappiamo sia dagli studi condotti sulle e nelle organizzazioni, sia dalle esperienze che noi stessi abbiamo fatto e stiamo facendo, quando si progetta qualche cosa è necessario partire dall’esistente. E comincio subito con una provocazione, dicendo che questo spesso non avviene. Si è molto impegnati nel cercare di definire ciò a cui si deve arrivare e si è molto meno investiti, attenti, incuriositi, dedicati a cercare di mettere a fuoco qual’è la situazione di partenza. Ogni processo di cambiamento in realtà consiste essenzialmente nei percorsi che si tratta di intraprendere e mantenere per arrivare a qualche cosa di diverso. Quando si avvia la costruzione di un piano (forse alcuni tra i partecipanti a questo seminario stanno prendendo parte anche concretamente alla predisposizione dei piani di zona, previsti dalla legge 328) è importante la prefigurazione degli obiettivi, ma questi sono effettivamente perseguibili quanto più sono collegati a dei problemi che vengono identificati attraverso una perspicace analisi della situazione esistente. In altre parole è interessante e importante ri-considerare l’esistente nei servizi, il come si opera e come ci si colloca, per capire che cosa modificare e che cosa consolidare, che cosa sviluppare e che cosa abbandonare, per individuare più chiaramente le difficoltà prendibili e soprattutto come è possibile effettivamente prenderle, ovvero averne una rappresentazione convergente e altrettanto convergenti motivazioni e mobilitazioni di singoli e gruppi per affrontarle.
Primo punto:
per progettare è importante partire dall’esistente: oggi i Servizi hanno a che fare con fenomeni collegati a trasformazioni epocali non volute e non gestite.
Se assumiamo di partire dall’esistente, partiamo da come ciascuno lo rappresenta e implicitamente lo valuta. Propongo pertanto la mia visione dell’esistente rispetto ai servizi di Salute mentale: una visione che mi deriva, che si è formata, cercando di mettere insieme quello che raccolgo io stessa in contatti diretti e quello che mi riportano i miei colleghi: segnalazioni, indicazioni, indizi che in questo periodo in particolare ci inquietano, ci intrigano, ci interrogano.
Una prima considerazione che faccio è che nei Servizi di Salute Mentale, nei Servizi Psichiatrici in questo momento si vive una situazione di notevole crisi, disagio, tensione, demotivazione, scontentezza, insofferenza. Incontro, incontriamo operatori molto arrabbiati, affaticati e anche direi "sofferenti".
E la domanda che pongo, a voi e a me stessa, è: perché si vive questa situazione di grande crisi?
La prima ipotesi che porto – ed è un’ipotesi forte – è che nei Servizi, sanitari e socio-sanitari in generale, e in particolare in quelli della Psichiatria, si viva male la situazione attuale perché non ci si collega al contesto più generale in cui i servizi sono collocati. Mi sembra che ci sia una grossa difficoltà da parte di chi lavora all’interno di questi servizi a vedere il contesto, a rendere conto a se stessi e agli altri, a tener conto di ciò che sta accadendo nella società in cui viviamo. Il contesto sociale in cui e per cui si lavora è come se non venisse considerato come parte essenziale della quotidianità. Lo si considera come qualche cosa che si legge sui giornali, uno sfondo distante, un insieme di eventi anche di per sé preoccupanti, ma tutto sommato lontani. Si parla di globalizzazione, di migrazioni transnazionali, ma si fa fatica a considerare la connessione che tutto ciò ha con la condizione attuale in cui versano i servizi, con il lavoro che quotidianamente i servizi sono chiamati a svolgere.
Per ragioni di tempo, ma anche per dare maggiore evidenza ad alcune affermazioni mi permetto di proporre delle condensazioni, delle semplificazioni, che vanno considerate come tali, ma che in modo provvisorio e strumentale, possono essere facilitanti. Cerco pertanto di individuare nelle trasformazioni che abbiamo difficoltà a descrivere e a capire, dei fenomeni che riguardano e interessano molto da vicino i servizi.
Per esempio i cambiamenti globali creano a tutti i livelli, in vari campi, nelle famiglie e nei singoli, un senso di grande insicurezza. Se riflettiamo su quanto sta accadendo, se consideriamo ad esempio i dibattiti televisivi, le manifestazioni di massa, le lettere ai giornali o gli interventi nelle trasmissioni radiofoniche, i discorsi tenuti dalla cosiddetta "gente comune", che cosa stanno chiedendo oggi i cittadini? Chiedono sicurezza, sicurezza come bene essenziale; la sicurezza è stata considerata come un bene della modernità, tant’è che sono state emanate una serie di leggi per tutelare la sicurezza delle persone in vari campi: sicurezza rispetto al lavoro, rispetto alla propria collocazione sociale, rispetto alla salute, al traffico stradale, rispetto alla crescita e all’educazione dei propri figli. Ora tutti questi provvedimenti sono fortemente erosi dai cambiamenti globali. La sicurezza anziché crescere nella vita quotidiana diminuisce. Negli ultimi decenni si sono avute generazioni che hanno vissuto percorsi vistosi e anche piuttosto accelerati di ascesa sociale (ad esempio, genitori contadini che hanno visto i propri figli laurearsi). Attualmente questa tendenza evolutiva si è arrestata o interrotta. Che cosa si può sperare, si può attendere per il futuro dei propri figli, sia a livello economico che di collocazione sociale? Ci sono tutta una serie di elementi, di dati che non promettono niente di roseo… basti pensare anche soltanto ai cambiamenti organizzativi a livello lavorativo, che creano un clima di incertezza e anche di timore rispetto al poter mantenere il tenore di vita e di consumo a cui ormai ci siamo abituati. Il fatto stesso che oggi nelle amministrazioni locali non esista più un Assessorato alla Sicurezza Sociale (che era invece presente negli anni Settanta e Ottanta) porta a pensare che più o meno esplicitamente si sia rinunciato a proporsi di garantire la "sicurezza sociale" per i propri cittadini: sicurezza che nel passato era qualificata come "sociale" perché auspicata e promossa come miglioramento delle condizioni di vita, come perseguimento di benessere fisico e sociale, attraverso la ridistribuzione di risorse a livello collettivo-locale, attraverso la produzione di opportunità, eccetera.
L’altro elemento che, secondo me, gioca molto rispetto ai servizi è il fatto che c’è una grossa centratura, un forte investimento sulla affermazione dell’individualità, sul fatto che ognuno singolarmente deve riuscire, deve avere successo, deve ottenere, deve essere riconosciuto dagli altri, realizzarsi, sul piano familiare, lavorativo, sociale. Ai singoli è richiesto quotidianamente un faticoso e ineludibile impegno a dare il massimo e a ottenere il massimo. Chi non riesce è un perdente. D’altro lato ognuno è soggetto di diritti, ma la tutela dei diritti appunto soggettivi, dei diritti di cittadinanza non è automatica e sembra che spetti al singolo farli valere, farsi avanti come interlocutore attivo e propositivo, ma a volte anche contrappositivo e rivendicativo nei confronti di istituzioni che non garantiscono ciò che teoricamente promettono.
L’insicurezza e la tensione diffusa affinché ciascuno possa vedere riconosciuti e soddisfatti i propri diritti alla salute, alla cura, all’assistenza, alla normalità, a una vita qualitativa, si traducono in una pressione molto forte nei confronti di tutti i cosiddetti servizi alla persona e anche nei confronti dei Servizi di Salute Mentale. I servizi poi, non sono rivolti soltanto agli utenti diretti, a coloro che soffrono, che si presentano con specifiche domande di cura, che ricevono prestazioni: i servizi "servono" a tutta la popolazione che vive in un determinato territorio, e la popolazione oggi che cosa chiede? Chiede sicurezza e insieme soddisfazione dei diritti. Le pretende, non solo se l’aspetta. Ciò che è percepito come "bisogno" (grazie anche all’ambiguità di questa parola sembra che possano essere soddisfatti come bisogni fisiologici anche richieste e attese di benessere, di armonia familiare, di riconoscimento sociale, di occupazione corrispondente alle proprie motivazioni e capacità) diventa diritto e cioè qualcosa che deve essere tutelato a tutti i costi, perché i diritti istituzionalmente in uno stato democratico devono poter essere pienamente e indiscutibilmente esercitati. Il diritto alla sicurezza viene rivendicato fortemente, ma come può essere ottemperato? Per lo più, o almeno in ampie fasce di popolazione è diffusa la convinzione che si è più sicuri se viene accresciuta la difesa, ovvero se si esercita una più decisa e intransigente azione di repressione, se si ha a disposizione un numero sempre maggiore di agenti di pubblica sicurezza: più carabinieri, più guardie, più servizi che si facciano attivamente garanti di proteggere, di tutelare il cittadino minacciato dalla criminalità, ma anche dagli immigrati, dagli zingari e dai matti.
I cambiamenti, le grandi trasformazioni che attraversano la nostra società, cambiamenti non voluti, difficilmente governati e governabili, sono all’origine di fenomeni che inducono, introducono diversi atteggiamenti, diverse richieste e attese che la popolazione in genere, ma anche rappresentanti privilegiati (come ad esempio gli amministratori locali, eccetera) manifestano nei confronti dei servizi.
E si pongono questioni che sono in forte discontinuità con la storia dei servizi di Salute Mentale: i servizi sono nati, sono stati istituiti per una presa di posizione istituzionale antirepressiva, contro la reclusione e l’emarginazione; si sono sviluppati attraverso il lavoro di più operatori, mirato a promuovere attività di cura collegate a processi di socializzazione e di integrazione o reintegrazione sociale, a investire nella riabilitazione attraverso inserimenti lavorativi e sociali. All’origine dei servizi di Salute mentale che oggi operano nel nostro paese sta quindi una scelta, un’opzione di fondo che tende a respingere istanze sociali diffuse di isolare i malati di mente entro istituzioni repressive per essere "sicuri", protetti e difesi da tante angosce che ad essi vengono collegate.
Mi scuso se richiamo questi tratti che caratterizzano il contesto sociale entro cui sono collocati i servizi in modo troppo schematico: può risultare una rappresentazione un po’ brutale. Ma mi sembra importante che da parte dei servizi non vengano sottovalutati i rapporti che essi hanno con i fenomeni sociali che condizionano il loro funzionamento e la loro attività. Ciò che forse oggi sta più a cuore alla gente – e uso volutamente questo termine generico per segnalare che i servizi sono visti e giudicati da un’entità indistinta e informe, solo apparentemente disinteressata e lontana — è di poter stare tranquilla e per stare tranquilla cerca di eliminare tutto quello che dà fastidio. I servizi, in particolare i servizi pubblici sono considerati come gli interlocutori a cui rivolgersi per ottenere la soluzione di difficoltà e preoccupazioni rispetto alla cura della salute propria e di quella dei propri figli e genitori anziani, all’assistenza di persone con handicap e vari tipi di malattie croniche, al come intervenire con adolescenti e giovani che hanno comportamenti inquietanti, ecc.: si chiede, si pretende che i servizi si assumano il compito di dare risposte definitive (risolvere = eliminare), di allontanare ciò che dà preoccupazione … e la malattia mentale non fa certo stare tranquilli.
Il contesto che ho tratteggiato non è uno sfondo lontano, una cornice irrilevante, bensì qualche cosa che irrompe nei servizi, che entra tutti i giorni nell’attività degli operatori, degli infermieri, degli psichiatri, delle figure professionali che sono inserite nei servizi.
Come mai è difficile riposizionarsi, ricollocare l’attività dei servizi rispetto ai mutamenti avvenuti nel contesto?
Faccio un esempio: cito un episodio che mi è rimasto impresso, avvenuto nel corso di un lavoro di consulenza con un gruppo di un Dipartimento di Salute Mentale in Lombardia.
Un responsabile di ambulatorio mi dice "pensi dottoressa a che assurdità siamo arrivati: il tribunale mi chiede di dare il mio parere rispetto ad una domanda che è stata presentata per uno dei nostri pazienti di avere l’amministratore di sostegno; chiedono a me di dare il mio parere rispetto all’opportunità che questa persona abbia l’amministratore di sostegno. Ma io cosa devo fare? Io lavoro qui per curare, lavoro qui per aiutare i pazienti, lavoro qui per prendermi cura delle loro difficoltà. Sono chiamato a fare, invece, il funzionario che dà al tribunale degli elementi su cui decidere per la vita delle persone…".
Non faccio commenti.
C’è un contesto esterno ai Servizi, ma nel quale i Servizi sono inseriti, che implica i Servizi, che li chiama a ricollocarsi, a ridefinirsi, mentre all’interno dei Servizi c’è una grossa difficoltà ad entrare in contatto con il contesto, con i diversi interlocutori che in esso si attivano con differenti attese, complesse, spesso anche tra loro contradditorie, più o meno collegate alle funzioni istituzionalmente definite.
Questo è un primo punto su cui mi pare interessante confrontarsi.
Secondo punto:
nella progettazione dei Servizi di Salute Mentale vanno affrontate delle modificazioni della loro organizzazione interna e in questa direzione si incontrano grosse difficoltà .
Il prof. Rossano, nella sua relazione ci ha ricordato come dal 1969, da quasi quarant’anni, si cerchi di realizzare, attuare il Dipartimento di Salute Mentale: se non viene messo in pratica come si vorrebbe, come sembra opportuno e auspicabile, è sensato continuare a ribadirne la necessità o non sarebbe consigliabile chiedersi che cosa ne impedisce effettivamente il funzionamento. Se fossimo dei medici che prescrivono un farmaco ad un paziente e il paziente non lo assume, o lo assume ma il suo effetto è totalmente inefficace, ad un certo punto diremmo "forse è il caso di pensare ad un’altra strada". Invece a livello legislativo è come se si fosse detto: il Dipartimento è la cosa giusta da fare, quindi continuiamo a ribadirlo. A questo punto secondo me, è forse il caso di aprire un altro percorso, tendendo conto di quanto è accaduto e provando a riflettere sul perché all’interno dei Servizi è così difficile modificare l’assetto organizzativo. È come se esistessero dei modelli organizzativi astrattamente proposti, mentre nei Servizi si va avanti secondo delle prassi consolidate.
Proviamo a chiederci perché.
Facciamo una prima ipotesi: i Servizi sono nati dalla demolizione di un’organizzazione che era l’ospedale psichiatrico, demolizione di un’organizzazione vista come luogo repressivo, reclusivo, autoritario, assolutamente inadeguato alle esigenze a cui pretendeva di dare risposte.
Dunque, i Servizi nascono contro l’organizzazione centrale. Come è stato demolito il manicomio? Non possiamo dimenticare la rivoluzione compiuta da Franco Basaglia. L’ospedale psichiatrico è stato demolito per opera di grandi capi carismatici, che hanno assunto questa battaglia e l’hanno portata vigorosamente avanti con grande successo.
Ma, è il caso forse di affermarlo con forza, quanti servizi hanno mantenuto questa struttura, questo modello organizzativo che è molto primitivo, che è quello di un leader circondato da collaboratori fedeli e appassionati, pieni di ammirazione nei suoi confronti?
Questo modello organizzativo è stato il modello che è uscito dallo smantellamento, dallo svuotamento dell’Ospedale Psichiatrico e non si è investito, in quegli anni, nella ricerca di altri modelli organizzativi. Quando sono venuti meno i capi carismatici o perché se ne sono andati o perché la palla è passata a qualcun altro che era un capo, ma non così legittimato, le cose hanno cominciato a complicarsi e a deteriorarsi. L’équipe, che era l’elemento cardine del primitivo modello organizzativo, in tante situazioni, ha cominciato a perdere di vitalità e di significato; si sono moltiplicate le suddivisioni tra psichiatri che condividono un orientamento e psichiatri che ne condividono un altro, tra figure professionali diverse. E’ interessante anche questo.
In effetti nel corso degli anni sono progressivamente entrate nei servizi nuove figure professionali, ma è come se si fossero aggregate agli psichiatri: penso non tanto agli infermieri che hanno sempre ricoperto un ruolo importante, ma penso agli psicologi, agli educatori, agli assistenti sociali, eccetera. Figure che sono state inserite per realizzare interventi più articolati e differenziati, più orientati alla riabilitazione, ma spesso non è bene identificato che cosa potrebbero o dovrebbero fare.
Si creano così separazioni, compartimentazioni tra metodi e tra professioni. L’aziendalizzazione e tutte le esigenze di risparmio, di ottimizzazione del rapporto costi/benefici riducono i tempi della comunicazione, perché c’è sempre meno tempo per fare riunioni, incontri, per aver la possibilità di scambiare e si va infiltrando una situazione di crisi.
Non si riescono ad introdurre nuovi modelli organizzativi perché si è molto presi dalle difficoltà e dalle sofferenze che il modello organizzativo preesistente ha portato nel suo disfarsi, nel suo indebolirsi.
Un’altra ipotesi:
c’è molto più attaccamento alle dimensioni professionali che investimento nelle dimensioni organizzative.
Gli psichiatri che sono quelli che forse più di altri potrebbe anche sviluppare un pensiero, delle iniziative, delle conversioni per costruire nuovi modelli organizzativi, rimangono concentrati su quello prevalente, unico oggetto d’amore che è la clinica, l’intervento con il paziente, la dimensione della cura. La dimensione dell’organizzazione è sempre vissuta come qualcosa di estraneo, che non appassiona. Ci si identifica molto più nell’appartenenza professionale che nell’appartenenza organizzativa. Questo vale per tutti gli operatori, ma in particolare per coloro che fanno parte, per posizione sociale e per saperi istituzionalmente legittimati, delle professioni più forti. Così l’attaccamento alla dimensione professionale porta ad esempio a pensare che siano gli psichiatri, che siano e che debbano essere, i registi della cura e, da qui, si chiede a livello dell’organizzazione interna, ma anche sul versante esterno, di avere una posizione preminente, come se gli altri professionisti dovessero collaborare ad un programma di cura che viene messo a punto essenzialmente dal professionista medico. Implicitamente, quasi automaticamente, anche sotto la pressione delle attese dei pazienti e dei parenti, viene assunta una centralità che non facilita la cooperazione. Ogni professionista infatti tende a ricercare un rafforzamento della propria identità professionale e lo cerca anch’egli nel rapporto con il paziente.
Anche rispetto ai nuovi orientamenti di intervento che insistono sull’integrazione tra professionisti, tra servizi, tra pubblico e privato si riscontrano continuamente inerzie e chiusure, se non conflitti ad esempio con i Servizi sociali dei comuni o con i Servizi del privato sociale che non accettano che siano totalmente delegate ai Servizi psichiatrici — agli psichiatri e ai neuropsichiatri – le decisioni rispetto a come, per chi, con chi definire l’allocazione delle risorse.
Più volte si è visto come servizi in cui operano professionisti molto preparati, riconosciuti a livelli elevati, di eccellenza, siano servizi che non riescono ad arrivare ad un funzionamento dinamico flessibile, rispondente alle esigenze dei pazienti, ma anche a quelle del personale che in essi lavora.
Nei Servizi appaiono diffuse insoddisfazioni e insofferenze, fatiche e demotivazioni.
Paradossalmente, le situazioni di crisi sono le situazioni più opportune per aprire nuovi investimenti, perché se si sta bene, non cambia niente.
Cercherò di dire brevemente quali siano secondo me le strade per uscire da queste difficoltà: per cercare di sviluppare in modo progettuale dei percorsi che permettano delle evoluzioni organizzative significative.
Il primo punto è: riformulare l’oggetto di lavoro del servizio.
L’oggetto di lavoro non è la mission, non è la finalità generale, scritta nei testi legislativi, non è prevenzione, cura, riabilitazione … non è nemmeno la risposta ai singoli pazienti, la singola prestazione, il singolo intervento. L’oggetto di lavoro è qualcosa che va ridefinito alla luce della specificità del contesto, in cui ci sono dei mandati istituzionali, dei dati generali, ma anche sulla base di dati specifici che nei Servizi non vengono utilizzati. I pazienti non sono tutti uguali e non possono essere trattati allo stesso modo: dal punto di vista di ciò che va realizzato per loro e con loro, le problematiche da affrontare non possono nemmeno essere considerate come del tutto uniche e singolari: o meglio per poter realizzare dei processi di lavoro congruenti con le specifiche esigenze dei singoli vanno anche individuate delle ricorrenze, delle differenziazioni di massima che permettano di prevedere e attivare differenti priorità e differenti modi e tempi per operare; si tratta, ad esempio, di identificare differenti tipologie di situazioni dei pazienti non solo in funzione della diagnosi, ma anche di dati che indichino i carichi di lavoro che sono necessari, i tempi da prevedere e rispettare, l’opportunità della combinazione degli apporti di diversi professionisti oppure dell’intervento di un solo professionista.
Le prime volte che mi è capitato di fare lavoro di consulenza nei Servizi di Psichiatria, provocatoriamente, chiedevo a tutti gli operatori "spiegatemi che cosa siete qui a fare", o ancora più decisamente "che cosa è il "prodotto" nei vostri servizi. Se si entra in un laboratorio di analisi dei residui tossici, o in un’agenzia viaggi, o in un centro di apprendimento delle lingue straniere, pur essendo tutte queste organizzazioni che forniscono dei servizi in gran parte "immateriali", le figure professionali presenti sono in grado di dire che cosa fanno. Ma se andiamo nei Servizi di Psichiatria e chiediamo agli operatori "che cosa siete qui a fare" ci risponderanno descrivendoci che cosa fanno nello svolgimento dell’attività professionale o elencheranno le finalità scritte nelle leggi e nei mandati. Che cosa "produciamo"? per produrre è necessario ridare consistenza, chiarezza e senso all’oggetto di lavoro, ridefinirlo e l’oggetto di lavoro va ridefinito tra e con coloro che operano all’interno (per ricomporre le differenti rappresentazioni) e con una forte interlocuzione con il contesto esterno e con le specifiche situazioni che esso presenta: il Servizio che lavora a Perugia è molto diverso da quello che lavora a Lecce, da quello che lavora a Gorizia, eccetera. La ri-definizione dell’oggetto di lavoro richiede pertanto un investimento conoscitivo ed elaborativo per re-interpretare il mandato istituzionale e le sue nuove formulazioni e per rileggere i dati quantitativi e qualitativi che permettono di specificare su quali problematiche si è chiamati ad intervenire e come si interviene.
Secondo elemento:
per sviluppare delle evoluzioni nell’organizzazione dei Servizi di salute mentale secondo me è importante ri-vedere le modalità con cui vengono attribuiti, assunti e esercitati i ruoli di autorità; questi appaiono ancora legati alla figura del Primario, il capo, il boss, quello che decide, quello che riceve il mandato, lo incarna secondo le proprie inclinazioni e lo trasmette agli altri, con uno stile diverso a seconda del carattere, del temperamento, degli atteggiamenti e delle scelte personali; ma se ci si propone di costruire, ri-costruire, dare maggiore spessore ed efficacia a un’organizzazione che produca servizi, in costante dialogo con il contesto esterno, attenta alle richieste e alle interlocuzioni che lo contraddistinguono, dobbiamo far crescere e rinvigorire cooperazioni e identificazioni all’interno del Servizio, ri-componendo i contributi delle diverse professionalità, i diversi orientamenti metodologici, le partizioni e le frammentazioni. Chi è responsabile di un’unità operativa — e ancor più del Dipartimento – non può essere il primario, carismatico e paternalistico (secondo la più consolidata tradizione in campo medico ospedaliero), ma è importante che sia essenzialmente un coordinatore: qualcuno che ascolta, che sa riconoscere i rapporti che i suoi colleghi hanno con l’oggetto di lavoro, che hanno tra loro, con la loro professione, e che cerca di capire ciascuno che cosa può investire nell’insieme per realizzare effettivamente i processi di lavoro che sono richiesti.
Terzo elemento importante è il processo di lavoro: si lavora troppo per prestazioni e troppo poco per processi.
È vero che c’è una forte pressione da parte degli apparati aziendali a misurare le prestazioni, ma non è con le prestazioni di singoli professionisti, giustapposte le une alle altre che si ottiene la continuità della cura, indispensabile per i pazienti, che si sviluppano rapporti positivi con i familiari e con le persone che ci sono intorno, che si mantengono e si alimentano collaborazioni tra operatori e tra servizi.
Per permettere agli interlocutori amministrativi delle Aziende Sanitarie di capire in cosa consiste il vostro lavoro e quindi di individuare modalità di controllo più pertinenti e congruenti con le specificità dell’attività dei Servizi di Salute Mentale si tratta di rendere visibile l’oggetto, ma anche di rendere visibile i processi che sono necessari per raggiungere l’oggetto.
Concludo perché forse ho preso troppo tempo. Spero che nei gruppi si potrà sviluppare la discussione e che successivamente sarà possibile chiarire e precisare contenuti che possono essere risultati oscuri e poco comprensibili.