Si è trattato e si tratta di un processo di liberazione contemporaneo per il malato e per l'operatore.   
Il primo nell'uscire dalla prigionia della irrecuperabilità della malattia data per scontata, dalla violenza dell'istituzione, nella conquista di diritti perduti o mai avuti; il secondo, nell'uscire dalla prigione del pregiudizio scientifico, riconoscendo la necessità di una ricomposizione di tutti gli elementi (biologici, psicologici e sociali) presenti non tanto nella malattia di cui l'operatore continua a riconoscere solo i sintomi, quanto nel malato, cioè nella persona che si pretende di curare. Ricomposizione, dunque, di bisogni negati anche dalla parcellizzazione delle discipline. Accettando il rischio della libertà del malato e assumendosene la responsabilità attraverso il sostegno del gruppo, diventa allora possibile reggere la sofferenza, accettarne ogni espressione, per spostare il conflitto ad un livello diverso. Conflitto di potere e di interesse fra l'istituzione e l'assistito, fra il medico e il paziente, ma anche fra il paziente e la famiglia, fra l'adulto e il giovane, il docente e lo scolaro, l'uomo e la donna, l'individuo e la società. Se il conflitto scompare o è appiattito è sempre il più debole a soccombere.  

Il processo necessario a questa trasformazione culturale non è dunque semplice e richiede una formazione degli operatori che tenga conto di tutti gli elementi emersi nelle pratiche di questi anni. Una formazione capace di misurarsi e confrontarsi con questa complessità, riconoscendo che se il manicomio ha risposto ad un'esigenza della società nell'espellere gli elementi di disturbo (i più deboli, i più svantaggiati, i più poveri perché solo questi erano internati), la psichiatria l'ha avallata e confermata scientificamente. E' dunque con questo fallimento che deve misurare i propri paradigmi, mentre nella formazione degli psichiatri e degli psicologi – salvo rarissime eccezioni – non c'è finora traccia di quanto è avvenuto nel settore in questi trent'anni ed il silenzio si fa sempre più paradossale.  
Da parte nostra, intendo da parte di chi ha creduto e operato secondo questa linea, si può dire che a vent'anni di distanza dalla riforma, la cultura va mutando soprattutto nelle esperienze che sono passate attraverso il superamento del manicomio: il che significa dove si è vissuta la passione civile, etica e politica del  cambiamento  e la convinzione forte della disumanità e inutilità dell'internamento, di fronte alla trasformazione di persone in precedenza annientate da una logica di controllo sostenuta solo dalla forza e dalla sopraffazione. Restano, certo, sofferenza, disagi, inadeguatezze (non è stata mai negata questa sofferenza), ma con un aspetto umano che ponendo altre domande, richiede altre risposte e ricevendo altre risposte pone altre domande.  

Chi non conosce direttamente il potere di trasformazione della liberazione che vale tanto per il malato quanto per l'operatore, penso difficilmente possa rompere la logica in cui è stato formato e la funzione che per tradizione gli compete. Per questo è utile continuare a parlare di manicomio, non solo perché di fatto ancora esiste, ma anche perché non ci sono sufficienti strumenti culturali e sociali per non ricostruirlo. L'operazione di smantellamento di mura reali e metaforiche, di grate e di rigide codificazioni ha infatti richiesto il rispetto dei diritti della persona, sana o malata, e un confronto della propria disciplina con questi diritti: il che a sua volta esige la capacità di reggere il conflitto che questo confronto produce, senza cancellarlo. Nell'accettazione dell'altro e nel conflitto che ne deriva c'è sempre il rischio di una perdita di se quando il ruolo non ti difende, non ti ripara. Ma è questa uscita dal ruolo pur giocandolo che consente di passare ad un livello più alto, più comprensibile, più condivisibile per entrambi i poli dell'incontro: che consente dunque di passare da una domanda all'apertura di un'altra domanda qualitativamente diversa.  
Per queste ragioni, ora che il superamento del manicomio è dato per accettato anche se non concretamente ovunque attuato, in un momento in cui disoccupazione, impoverimento materiale e culturale di fasce sempre più vaste di popolazione possono alimentare nuove forme di disagio e di sofferenza, quindi di esclusione ed emarginazione, si fa più acuta la necessità di riprendere alcuni elementi problematici delle prime esperienze, di riprendere a domandarci se il rapporto fra discipline individuali e collettivi non richieda una messa in discussione più profonda di queste discipline, in nome della necessità di una formazione degli operatori più adeguata ad una realtà che ormai corre su altri binari.

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