Una certa violenza della relazione erotica deriva dalla passione: “uccidiamo”, in parte, dentro di noi la soggettività dell’oggetto amato, per poterlo amare, ci facciamo “uccidere” da esso nella nostra soggettività, per poter essere amati.
L’amore è come la guerra: la “correttezza” non è il suo luogo preferito. La sua etica è, tuttavia, molto forte.
Più esattamente: l’unica etica possibile è quella dell’amore. Nessuna reale soddisfazione erotica è raggiungibile in assenza del rispetto del desiderio dell’altro e di una relazione paritaria sul piano dell’impegno amoroso.
La passione deve rispettare, per persistere, ciò che più la contraddice: la libertà, l’autodeterminazione del suo oggetto.
La violenza si stacca dalla passione quando la relazione erotica si scontra con le ferite narcisistiche degli amanti.
L’uomo teme che la donna possa soggiogarlo e ingannarlo e le rifiuta rabbiosamente ogni vero riconoscimento, equiparando la virilità con la resistenza al fascino femminile.
La donna crede che amare la trasformi in un essere privo di valore, esposto al capriccio degli altri, e si sottrae al desiderio del partner. Spesso i due pregiudizi (radicati nell’infanzia) si incastrano e la vita della coppia diventa un inferno.
La rabbia maschile, nettamente più incline a trasformarsi in aggressione fisica lesiva, degenera nel punto in cui diventa espressione diretta del disagio della civiltà.
La società degli scambi ineguali contrasta la sedimentazione in profondità e l’elaborazione dei sentimenti: ciò che li accorda al desiderio e rende persistenti e feconde le relazioni. Dissocia l’agire dal sentire e il fine dal senso di responsabilità. Assegna così all’uomo un vantaggio sociale netto sulla donna e lo fa anche ammalare.
Tutte le volte che l’uomo sfrutta il vantaggio, si stacca dal legame erotico tra soggetti vivi e liberi: si trova schiacciato nella posizione di un essere supposto superiore (un automa), dominante su un essere designato come inferiore, ma proprio per questo più sano e meno alienato dalla propria costruzione sociale. Più si identifica con il potere, più si priva delle sue possibilità di godimento.
L’elemento maschile perde il suo carattere erotico e invade come massa inerte l’elemento femminile della sua soggettività, soffocandolo.
La violenza dell’inerzia che comprime il suo mondo interno è scaricata all’esterno sotto forma di aggressività che può colpire un altro uomo o la sua donna.
La donna diventa il bersaglio dell’aggressività sotto la spinta dell’invidia: a nulla serve la volontà di dominio sull’altro che a scoprire che è più vivo di noi.
La violenza può diventare impulso di annientamento in uomini fragili in cui il potere nei confronti della donna, che assegna loro la società, copre precariamente la profonda impotenza a desiderare ed essere desiderati.
La donna colpisce involontariamente, nel punto più vulnerabile, la loro fragilità e ucciderla può apparire necessario per ricompattarsi.
Le donne uccise sono delegittimate sul piano della loro femminilità e vedono nel modo deciso dagli altri, l’unica loro possibilità di essere amate. Accettano questa violenza psichica di cui la violenza fisica non è che la logica estensione. Ritrovano nell’uomo la propria madre che le ha amate a modo suo e non credono nel padre perché è stato assente dalla loro vita.
L’assenza del padre crea l’illusione del “principe azzurro”.
Costui incarna il fatto che il destino non è nelle loro mani.
Esposte al suo arbitrio non possono che confonderlo con il “principe nero”.
Quando dietro la maschera dell’amore appare l’assassino, il più delle volte è tardi.
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