Scuola e ascolto
Il termine “ascolto”, con le sue ascendenze che riconducono al latino “auris” = ‘orecchio’, implica l’allenamento all’esercizio della facoltà auditiva, cioè all’affinamento della propensione all’uso di uno strumento sensoriale, l’orecchio, che immediatamente ci riconduce ad una situazione di passività e di ricettività.
E – poiché d’altra parte al termine “scuola” corrisponde etimologicamente una condizione di gratuità, di “tempo libero” e, in ogni caso, di non lavoro – sembrerebbe a prima vista che nello spazio fisico e mentale in cui vivono docenti e discenti ci si possa dare il tempo per esercitarsi all’ascolto con maggiore facilità di quanto ciò possa accadere allorché all’ordine del giorno ci sono i tempi dell’impegno lavorativo che, per loro natura, richiedono una propensione alla commisurazione del tempo a fini produttivi, ad un suo uso venale e assolutamente non gratuito.
A prima vista! In effetti sappiamo che uno dei fenomeni più macroscopici che abbiamo sotto gli occhi nella scuola moderna, a partire dalle nuove istituzioni prescolari, è quello dell’amministrazione delle attività didattiche, della loro curricolarizzazione, cioè della loro iscrizione in un ambito efficientistico:
– che attenta continuamente a quell’atmosfera di gratuità e di non lavoro che dovrebbe essere a fondamento di questo luogo fisico e mentale che non a caso si chiama “scuola”;
– che lungi dal liberare il tempo lo asservisce e lo direziona verso la costruzione attiva di vari progetti, spesso ideologici (il buon cittadino di domani, il buon lavoratore, il buon cristiano, il buon … e chi più ne ha più ne metta), in ogni caso concepiti in un clima non ricettivo che, più che figlio dell’ascolto, sembra essere figlio, come Minerva, della testa di un dio Giove che è sopra di noi, sopra i nostri figli, sopra i nostri giovani.
E, d’altro canto, il docente di ogni ordine e grado sa che in concreto – ed al di là del compito che l’istituzione gli assegna (in nome dello stato, del ministero, della confindustria, etc) – poi non appena egli entra in relazione con proprio discente deve ‘ridefinire il contratto’, deve adattarlo alla propria udienza attuale, fatta di discenti in carne ed ossa che con il loro stesso star lì, in attesa della sua parola e del suo gesto, gli si impongono e richiedono un’opera iniziale di osservazione e di ascolto in base ai quali poi i programmi vanno adattati, piegati, arricchiti, traditi, etc. etc.-
Si viene a creare in questo modo un campo pieno di tensioni in cui da una parte c’è il produttivismo e l’aziendalismo formativo e dall’altra l’esigenza dell’ascolto. E il docente, tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra, sta nel mezzo e nel suo operare alla lunga ‘rischia’ di diventare un esperto sia nell’arte di produrre buoni cittadini, lavoratori, cristiani, etc., sia in quella più sottile dell’ascolto.
Ed anzi spesso trova in itinere una modalità personale che gli permette di coniugare i due aspetti della questione: quello produttivistico e quello derivante dall’ascolto e dallo scambio con i propri discenti: di modo che egli possa sentirsi leale sia al contratto che lo lega allo stato e alla società, sia a quello che lo embrica alla classe attuale e concreta in cui opera, ed a ciascuno dei suoi attuali discenti.
Ascoltare i giovani
Per noi di una certa età i giovani rappresentano l’adolescenza che non c’è più, se non nei nostri cuori.
Il tipo di rispecchiamento che di fronte ad essi può nascere in noi, se i casi della nostra vita non ci abbiamo costretto ad allontanarci sideralmente da essi, quasi volessimo distruggere l’adolescente che c’è in noi, è quello che deriva dall’impatto fra l’adolescente che è di fronte a noi e quello che è dentro di noi.
“Scopri l’adolescente che c’è in te!”: questa esortazione per chi come voi e come me giornalmente convive con i giovani è puramente pletorica. Il nostro lavoro ed il nostro impegno ci sospinge verso di essi e quindi ci impone un rispecchiamento che ci dà molti vantaggi, così come molti dolori.
I vantaggi sono nel fatto che la convivenza con i giovani ‘ci mantiene giovani’, che su questa base spesso si definisce in noi una specie di opzione in favore dell’immortalità, basata su questa consuetudine con una parte di noi – l’adolescenza – che ci aiuta a vincere certe angosce.
Gli svantaggi sono nel fatto che stare a lungo presso i giovani in una posizione di potere e di asimmetria (ancor di più forse quando questa asimmetria ci dà potere nei confornti deia bambini) risulta usurante poiché molte sono le tentazioni che derivano dall’uso e dall’abuso del nostro potere di adulti, e specialmente di docenti che devono selezionare, promuovere o bocciare, ma anche sedurre con la propria parola, con la propria materia, con la profpria persona …
Tutte cose che noi terapeuti dell’adolescenza possiamo, anzi dobbiamo o scansare o elaborare nella definizione del nostro controtransfert nei confronti dei giovani (e questo è forse un vantaggio mio rispetto a voi!) –
Osservazione e ascolto dei giovani quindi muovono forti passioni in noi: l’eros sublimato in base al quale, come suggeriva Diotima a Socrate, il buon docente (così come il poeta, il buon politico, etc) può ‘mettere incinto’ di pensieri e di voglia di apprendere (l’epistemofilia!) il proprio discente; e thanatos che, se sublimato come eros, diventa l’istanza alla base dell’opera di discernimento, di elaborazione, di correzione degli errori, etc. –
Ma convivere a lungo e produttivamente con queste passioni non è facile. Viene voglia spesso di difendersi da esse, di prendere le distanze. E ciò può accadere, può accentuarsi o placarsi lungo tutto l’arco della nostra vita lavorativa, dell’anno scolastico, della giornata, dell’ora.
Fürstenau in un suo celebre scritto degli anni ’60 descrisse magistralmente quella che allora era la modalità difensiva prevalente fra i docenti della vecchia scuola. E individuò nel rituale pedagogico la difesa principe di quei tempi: difesa di tipo ossessivo, basata essenzialmente in un (vano) tentativo di allontanamento del docente dal discente e in una cerimonializzazione del rapporto tutta incentrata sui rituali del registro del voto, dell’interrogazione, .. dietro i quali il docente pensava di nascondere le proprie pulsioni indotte e esacerbate dalla situazione di squilibrio di saperi e di poteri in classe.
Oggi il rituale pedagogico sta diventando sempre più un reperto del passato. L’opzione per l’informalità, che a partire dal ’68 è prevalsa in ogni ordine e grado delle nostre scuole, impone una vicinanza fra docenti e discenti che richiede apparati difensivi nuovi: io penso (Angelini, 2003) che l’odierna propensione alla vicinanca con i discenti spinga alla isterizzazione del rapporto: cioè una teatralizzazione di ogni cosa che avviene in classe, che permette una vicinanza fra le due generazioni impensabile quarant’anni fa: vicinanza che da una parte può essere un veicolo molto importante che favorisce l’ascolto; ma che dall’altra può diventare – e spesso effettivamente diventa – anche un crogiolo di nuove tentazioni: quella di bearsi del dialogo fine a se stesso perdendo di vista l’operatività, quella a scindere scissionalmente i giovani fra buoni e cattivi, etc –
Con quali parti di noi li stiamo ascoltando?
Come abbiamo visto, dire a se stessi: “poniamoci all’ascolto dei giovani” è già molto importante! Lo è perché implica l’assunzione di un atteggiamento ricettivo che solo un osservatore disattento potrebbe scambiare per fiacca passività. La ricezione infatti implica la presenza in noi di una attitudine che ci permette di rimanere noi incinti di loro, prima ancora che loro di noi. Perché solo lasciandoci impressionare da loro, lasciandoci contaminare dal loro essere, dai loro bisogni attuali di crescita e di maturazione, dal loro linguaggio (verbale e non verbale) noi potremo poi impressionarli con la nostra parola.
Ma ciò a ben vedere non basta. Occorre comprendere anche con quali parti di noi li stiamo ascoltando. Li stiamo ascoltando col nostro cuore? Con la nostra mente razionale? Con le nostre parti superegoiche e giudicanti? Con le nostre parti più narcisistiche? Con le nostre parti più intuitive? con quelle ideali?
E ancora: è il nostro un ascolto freddo e distante? Oppure attento e trepido? E’ un ascolto curioso o disattento, ansioso e preoccupato, o impudico e impiccione? etc. etc.-
E secondo quali modalità ci poniamo all’ascolto: secondo modalità ossessive (cioè, ad es. riempiendo la distanza che c’è fra noi e loro ponendo quintali di test fra noi e loro)? oppure quello un po’ isterico con cui ci approcciamo solitamente con loro in classe?
Perché ciò che ascolteremo realmente, così come ciò che non vorremo ascoltare o censureremo, dipende molto da queste cose?
Infine una nota sugli strumenti: diceva un nostro didatta che la camera dello psicoterapeuta è spoglia come un ‘tempio’ greco di quelli precedenti all’arrivo degli dei dell’olimpo, cioè di quelli usuali ai tempi in cui la teogonia greca era basata sul culto della Grande Madre[1]; ma che sbaglierebbe chi, a partire da questa carenza di strumentazione altamente tecnologizzata, concludesse che il lavoro dello psicoterapeuta richiede l’uso di bassa tecnologia, poiché il bagaglio ‘tecnologico’ del terapeuta è dentro di sé, nella sua capacità di ascolto, che si apprende nei luoghi della supervisione.
Io penso che allo stesso modo si possa dire che il bagaglio osservativo e di ascolto del docente non richieda il possesso di un apparato tecnologico e strumentale complesso (bastano carta e matita!), ma potrebbe, secondo me dovrebbe essere arricchito da una difficile e complessa capacità di ascolto che nel vostro caso attualmente è figlia solo dell’intuizione, ma che con qualche accorgimento potrebbe diventare anch’essa figlia di un lavoro di supervisione.
A prima vista! In effetti sappiamo che uno dei fenomeni più macroscopici che abbiamo sotto gli occhi nella scuola moderna, a partire dalle nuove istituzioni prescolari, è quello dell’amministrazione delle attività didattiche, della loro curricolarizzazione, cioè della loro iscrizione in un ambito efficientistico:
– che attenta continuamente a quell’atmosfera di gratuità e di non lavoro che dovrebbe essere a fondamento di questo luogo fisico e mentale che non a caso si chiama “scuola”;
– che lungi dal liberare il tempo lo asservisce e lo direziona verso la costruzione attiva di vari progetti, spesso ideologici (il buon cittadino di domani, il buon lavoratore, il buon cristiano, il buon … e chi più ne ha più ne metta), in ogni caso concepiti in un clima non ricettivo che, più che figlio dell’ascolto, sembra essere figlio, come Minerva, della testa di un dio Giove che è sopra di noi, sopra i nostri figli, sopra i nostri giovani.
E, d’altro canto, il docente di ogni ordine e grado sa che in concreto – ed al di là del compito che l’istituzione gli assegna (in nome dello stato, del ministero, della confindustria, etc) – poi non appena egli entra in relazione con proprio discente deve ‘ridefinire il contratto’, deve adattarlo alla propria udienza attuale, fatta di discenti in carne ed ossa che con il loro stesso star lì, in attesa della sua parola e del suo gesto, gli si impongono e richiedono un’opera iniziale di osservazione e di ascolto in base ai quali poi i programmi vanno adattati, piegati, arricchiti, traditi, etc. etc.-
Si viene a creare in questo modo un campo pieno di tensioni in cui da una parte c’è il produttivismo e l’aziendalismo formativo e dall’altra l’esigenza dell’ascolto. E il docente, tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra, sta nel mezzo e nel suo operare alla lunga ‘rischia’ di diventare un esperto sia nell’arte di produrre buoni cittadini, lavoratori, cristiani, etc., sia in quella più sottile dell’ascolto.
Ed anzi spesso trova in itinere una modalità personale che gli permette di coniugare i due aspetti della questione: quello produttivistico e quello derivante dall’ascolto e dallo scambio con i propri discenti: di modo che egli possa sentirsi leale sia al contratto che lo lega allo stato e alla società, sia a quello che lo embrica alla classe attuale e concreta in cui opera, ed a ciascuno dei suoi attuali discenti.
Ascoltare i giovani
Per noi di una certa età i giovani rappresentano l’adolescenza che non c’è più, se non nei nostri cuori.
Il tipo di rispecchiamento che di fronte ad essi può nascere in noi, se i casi della nostra vita non ci abbiamo costretto ad allontanarci sideralmente da essi, quasi volessimo distruggere l’adolescente che c’è in noi, è quello che deriva dall’impatto fra l’adolescente che è di fronte a noi e quello che è dentro di noi.
“Scopri l’adolescente che c’è in te!”: questa esortazione per chi come voi e come me giornalmente convive con i giovani è puramente pletorica. Il nostro lavoro ed il nostro impegno ci sospinge verso di essi e quindi ci impone un rispecchiamento che ci dà molti vantaggi, così come molti dolori.
I vantaggi sono nel fatto che la convivenza con i giovani ‘ci mantiene giovani’, che su questa base spesso si definisce in noi una specie di opzione in favore dell’immortalità, basata su questa consuetudine con una parte di noi – l’adolescenza – che ci aiuta a vincere certe angosce.
Gli svantaggi sono nel fatto che stare a lungo presso i giovani in una posizione di potere e di asimmetria (ancor di più forse quando questa asimmetria ci dà potere nei confornti deia bambini) risulta usurante poiché molte sono le tentazioni che derivano dall’uso e dall’abuso del nostro potere di adulti, e specialmente di docenti che devono selezionare, promuovere o bocciare, ma anche sedurre con la propria parola, con la propria materia, con la profpria persona …
Tutte cose che noi terapeuti dell’adolescenza possiamo, anzi dobbiamo o scansare o elaborare nella definizione del nostro controtransfert nei confronti dei giovani (e questo è forse un vantaggio mio rispetto a voi!) –
Osservazione e ascolto dei giovani quindi muovono forti passioni in noi: l’eros sublimato in base al quale, come suggeriva Diotima a Socrate, il buon docente (così come il poeta, il buon politico, etc) può ‘mettere incinto’ di pensieri e di voglia di apprendere (l’epistemofilia!) il proprio discente; e thanatos che, se sublimato come eros, diventa l’istanza alla base dell’opera di discernimento, di elaborazione, di correzione degli errori, etc. –
Ma convivere a lungo e produttivamente con queste passioni non è facile. Viene voglia spesso di difendersi da esse, di prendere le distanze. E ciò può accadere, può accentuarsi o placarsi lungo tutto l’arco della nostra vita lavorativa, dell’anno scolastico, della giornata, dell’ora.
Fürstenau in un suo celebre scritto degli anni ’60 descrisse magistralmente quella che allora era la modalità difensiva prevalente fra i docenti della vecchia scuola. E individuò nel rituale pedagogico la difesa principe di quei tempi: difesa di tipo ossessivo, basata essenzialmente in un (vano) tentativo di allontanamento del docente dal discente e in una cerimonializzazione del rapporto tutta incentrata sui rituali del registro del voto, dell’interrogazione, .. dietro i quali il docente pensava di nascondere le proprie pulsioni indotte e esacerbate dalla situazione di squilibrio di saperi e di poteri in classe.
Oggi il rituale pedagogico sta diventando sempre più un reperto del passato. L’opzione per l’informalità, che a partire dal ’68 è prevalsa in ogni ordine e grado delle nostre scuole, impone una vicinanza fra docenti e discenti che richiede apparati difensivi nuovi: io penso (Angelini, 2003) che l’odierna propensione alla vicinanca con i discenti spinga alla isterizzazione del rapporto: cioè una teatralizzazione di ogni cosa che avviene in classe, che permette una vicinanza fra le due generazioni impensabile quarant’anni fa: vicinanza che da una parte può essere un veicolo molto importante che favorisce l’ascolto; ma che dall’altra può diventare – e spesso effettivamente diventa – anche un crogiolo di nuove tentazioni: quella di bearsi del dialogo fine a se stesso perdendo di vista l’operatività, quella a scindere scissionalmente i giovani fra buoni e cattivi, etc –
Con quali parti di noi li stiamo ascoltando?
Come abbiamo visto, dire a se stessi: “poniamoci all’ascolto dei giovani” è già molto importante! Lo è perché implica l’assunzione di un atteggiamento ricettivo che solo un osservatore disattento potrebbe scambiare per fiacca passività. La ricezione infatti implica la presenza in noi di una attitudine che ci permette di rimanere noi incinti di loro, prima ancora che loro di noi. Perché solo lasciandoci impressionare da loro, lasciandoci contaminare dal loro essere, dai loro bisogni attuali di crescita e di maturazione, dal loro linguaggio (verbale e non verbale) noi potremo poi impressionarli con la nostra parola.
Ma ciò a ben vedere non basta. Occorre comprendere anche con quali parti di noi li stiamo ascoltando. Li stiamo ascoltando col nostro cuore? Con la nostra mente razionale? Con le nostre parti superegoiche e giudicanti? Con le nostre parti più narcisistiche? Con le nostre parti più intuitive? con quelle ideali?
E ancora: è il nostro un ascolto freddo e distante? Oppure attento e trepido? E’ un ascolto curioso o disattento, ansioso e preoccupato, o impudico e impiccione? etc. etc.-
E secondo quali modalità ci poniamo all’ascolto: secondo modalità ossessive (cioè, ad es. riempiendo la distanza che c’è fra noi e loro ponendo quintali di test fra noi e loro)? oppure quello un po’ isterico con cui ci approcciamo solitamente con loro in classe?
Perché ciò che ascolteremo realmente, così come ciò che non vorremo ascoltare o censureremo, dipende molto da queste cose?
Infine una nota sugli strumenti: diceva un nostro didatta che la camera dello psicoterapeuta è spoglia come un ‘tempio’ greco di quelli precedenti all’arrivo degli dei dell’olimpo, cioè di quelli usuali ai tempi in cui la teogonia greca era basata sul culto della Grande Madre[1]; ma che sbaglierebbe chi, a partire da questa carenza di strumentazione altamente tecnologizzata, concludesse che il lavoro dello psicoterapeuta richiede l’uso di bassa tecnologia, poiché il bagaglio ‘tecnologico’ del terapeuta è dentro di sé, nella sua capacità di ascolto, che si apprende nei luoghi della supervisione.
Io penso che allo stesso modo si possa dire che il bagaglio osservativo e di ascolto del docente non richieda il possesso di un apparato tecnologico e strumentale complesso (bastano carta e matita!), ma potrebbe, secondo me dovrebbe essere arricchito da una difficile e complessa capacità di ascolto che nel vostro caso attualmente è figlia solo dell’intuizione, ma che con qualche accorgimento potrebbe diventare anch’essa figlia di un lavoro di supervisione.
(Relazione tenuta nel 2003 a un gruppo di docenti delle superiori di Parma)
Bibliografia:
- Angelini L., “Per un counselling rivolto agli educatori di adolescenti che non vedrò”, in: Ricerca psicoanalitica, 2003, Anno XIV, N.2, pp.169\178
- Angelini L., Affabulazione e formazione: docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998
- Angelini L., “L‘alleanza terapeutica in un servizio pubblico per l’infanzia” (con D. Bertani), in “Pollicino” N.2, primavera – estate 1985, pp. 6-14.
- Bernfeld S., Sisifo ovvero i limiti dell'educazione, Guaraldi, Firenze, 1971
- Borgogno F., L’illusione di osservare, Giappichelli, Torino, 1978
- Ginsburg A., L’inconscio e la pratica educativa, Quaderni dell’MCE, Roma, 1975
- Grinberg L., Grinberg R., Identità e cambiamento, Armando, Roma, 1976
- Käes R., Quattro studi sulla fantasmatica della formazione e sul desiderio di formare, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
- Mottana P., Formazione ed affetti, Armando, Roma 1993
- Offe C., Lo stato del capitalismo maturo (in particolare : "Sistema educativo, sistema occupazionale e politica dell'educazione. Per una definizione della funzione sociale complessiva del sistema educativo"), Etas Libri, Milano 1977
- Pietropolli Charmet G., 2003, “La consultazione con l’adolescente oggi: dialogo su teoria e metodo”, in Ricerca psicoanalitica, N.2 – ’03, Roma
- Richter H.E., Genitori, figli e nevrosi, Il Formichiere Ed., Milano, 1975
- Winnicott D. W., Adolescenza: il dibattersi nella bonaccia, in Winnicott D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Armando, Roma, 1968
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