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Il killer seriale autistico – La casa di Jack di Lars von Trier

4 Mar 19

Di Redazione Psychiatry On Line Italia
Proseguendo, indifferente alle critiche e alla critica, nella sua strada più radicale intrapresa con i precedenti Antichrist (2009 ), Melancholia (2011) e Nymphomanic I e II (2013), e nel suo programma estetico di unire la sontuosità delle immagini allo sconcerto dello spettatore, diffondendo al contempo opinioni etico/estetiche quantomeno non convenzionali, il divino Lars ci propina questa volta una rivisitazione della vicenda di Jack lo Squartatore in chiave moderna, ambientandola in un contesto agricolo/forestale e non urbano.
Le pretese di questo, come degli altri film citati, sono smisurate e non si può entrare adesso nel dettaglio dopo una prima visione. Ci interessa però sottolineare che nella delineazione del non facile personaggio, interpretato (bisogna ammetterlo) in modo magistrale, da Matt Dillon, Lars Von Trier, probabilmente attingendo ampiamente alla sua propria, ben nota, psicopatologia, si rifa quasi alla lettera al modello attualmente in voga dello “spettro autistico dell'adulto” (delineato in vari modi da autori come Baron-Cohen e Liliana Dell'Osso): mancanza di empatia, necessità di imparare a simulare ed esprimere le emozioni, interessi ristretti, ruminazioni ossessive,  franchi sintomi ossessivo-compulsivi, perfezionismo totale (qui viene citato per analogia Glenn Gould, al quale, ci perdoni l'autoreferenzialità, abbiamo nel 2015 con Liliana Dell'Osso, dedicato un saggio accostandolo in modo non convenzionale a Marilyn Monroe). Il progetto di questo serial killer, un ingegnere/architetto, è di costruire una casa perfetta; dopo vari tentativi abortiti, ci riuscirà, alla fine, utilizzando materiali insoliti, prima di intraprendere un viaggio nell'inferno dantesco, guidato ovviamente da un certo Verge (Virgilio), l'ultima interpretazione del compianto Bruno Ganz) e sprofondarvi. Per giungere a questo epilogo Lars ci racconta con magistrale e spesso gratuito sadismo, ed un sardonico gusto dell'horror, alcuni dei numerosi omicidi efferati che lui compie per soddisfare il suo sofisticato perfezionismo, nonché la sua sconfinata misoginia e, non da ultimo, l'emulazione individuale dell'”operazione estetica” compiuta dai grandi regimi criminali del secolo scorso. Tutto questo viene farcito con citazioni cinematografiche multiple, autocitazioni di propri film, innumerevoli materiali di repertorio e, non da ultimo, una bella animazione che spiega scientificamente il meccanismo della dipendenza patologica, in questo caso la dipendenza di Jack per l'omicidio. Molti spezzoni di questo film potrebbero essere utilizzati per insegnare la psichiatria.
 E' inutile dire che, accanto all'ammirazione per la sua qualità formale siamo di fronte ad un'opera a dir poco irritante e magniloquente, che ci vuole del tempo per digerire e anni forse per poter metabolizzare e rivedere serenamente; ma questo succede praticamente con tutti gli ultimi film del nostro autore al quale auguriamo di frenare, per il prossimo futuro, la sua personale deriva verso l'Inferno, ammesso che già non vi sia giunto.

 
 
 

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