Cosa accade dinanzi ad un'opera d'arte, ascoltando il brano musicale del nostro autore preferito, assaporando una prelibatezza, assumendo stupefacenti? Può riassumersi tutto nell'attivazione di alcune aree del nostro cervello? Nel trionfo dei correlati biochimici? Nel rilascio di dopamina, encefaline, endorfine e altre sostanze chimiche?
Che cos'è il piacere, quanto lo stesso si muove tra soggettività e pensiero comune, tra libertà e divieto? Chi decide fino a dove può spingersi la fisiologica ricerca dell'essere umano a proposito del godimento? Chi stabilisce cosa all'interno di questa ricerca può dirsi lecito e cosa illecito?
La dimensione del piacere, così come quella del consumo di sostanze psicoattive (legali e illegali) o quella dei comportamenti a rischio, non è facilmente definibile, considerata la sua estrema polimorfia e la conseguente assenza di linearità. Diversi fattori, infatti, intervengono a definirne i contorni, il “come”, il “dove”. Ciò che appare ineludibile, pena la mancata sia pur comunque parziale comprensione del fenomeno, è il “perché”. Tutti gli esseri viventi agognano il piacere, declinabile in diversi modi: scarica di tensione, benessere, appagamento dell'ideale di sé, superamento dei limiti, felicità, euforia, assenza di dolore, accesso a nuove esperienze percettive ecc. Dovremmo attingere al gran fondo della diagnostica per prevedere una tensione differente.
Nell'ascolto quotidiano di consumatori/dipendenti patologici di sostanze psicoattive, alla domanda “perché?”, la risposta più frequente è: per ricavarne piacere, intenso, spesso breve, foriero di conseguenze in alcuni casi devastanti; eppure piacere. Questo testo intende avvalersi soprattutto delle parole e delle storie di persone che utilizzano le sostanze psicotrope (legali o illegali). Troppo spesso, infatti, quando se ne discute, la voce dei diretti interessati è ignorata. Da addetti ai lavori comprenderemo i meccanismi tradotti dalle neuroscienze, dalla psicologia clinica, le strade percorse dai neurotrasmettitori, i cambiamenti neuroadattivi e tanto altro ancora, ma poco comprenderemo dei consumatori senza un ascolto che, solo se reale e appassionato, potrà tradursi in responsabilità da parte di chi racconta.
Se trascuriamo questo assunto, assecondando il bisogno di tacitare la dissonanza cognitiva che discende dall'apprendimento dei rischi, difficilmente riusciremo a trovare soluzioni alternative al consumo dilagante.
Libertà o divieto. Malattia o vizio. Innocenza o colpa. Riduzione del danno o tolleranza zero. Manieristica e sempre più asfittica continua ad essere la discussione attuale sul consumo di sostanze psicotrope, nella distrazione (voluta o culturalmente imposta) dal concetto di piacere.
Questo scritto intende provare ad inserirsi nel dibattito culturale intorno all'uso/dipendenza da sostanze in risposta all'egemonia del modello biochimico, declinato secondo il paradigma dominante delle neuroscienze, proponendo una riflessione sullo stigma e la colpevolizzazione cui il consumatore va incontro soprattutto nel superamento del limite, nel consegnarsi all'eccesso.
Alla necessità di far collimare sintomi e diagnosi bisognerebbe, infatti, aggiungere un sapere problem, setting and pleasure oriented per rispondere più efficacemente ad un indubbio e diffuso bisogno di strumenti curativi e trasformativi, oltreché meramente descrittivi.
Perché un piacere diverso è possibile; rispetto alle sostanze è altro. È espressione del proprio autentico Sé e incontro con l'Altro.
Che cos'è il piacere, quanto lo stesso si muove tra soggettività e pensiero comune, tra libertà e divieto? Chi decide fino a dove può spingersi la fisiologica ricerca dell'essere umano a proposito del godimento? Chi stabilisce cosa all'interno di questa ricerca può dirsi lecito e cosa illecito?
La dimensione del piacere, così come quella del consumo di sostanze psicoattive (legali e illegali) o quella dei comportamenti a rischio, non è facilmente definibile, considerata la sua estrema polimorfia e la conseguente assenza di linearità. Diversi fattori, infatti, intervengono a definirne i contorni, il “come”, il “dove”. Ciò che appare ineludibile, pena la mancata sia pur comunque parziale comprensione del fenomeno, è il “perché”. Tutti gli esseri viventi agognano il piacere, declinabile in diversi modi: scarica di tensione, benessere, appagamento dell'ideale di sé, superamento dei limiti, felicità, euforia, assenza di dolore, accesso a nuove esperienze percettive ecc. Dovremmo attingere al gran fondo della diagnostica per prevedere una tensione differente.
Nell'ascolto quotidiano di consumatori/dipendenti patologici di sostanze psicoattive, alla domanda “perché?”, la risposta più frequente è: per ricavarne piacere, intenso, spesso breve, foriero di conseguenze in alcuni casi devastanti; eppure piacere. Questo testo intende avvalersi soprattutto delle parole e delle storie di persone che utilizzano le sostanze psicotrope (legali o illegali). Troppo spesso, infatti, quando se ne discute, la voce dei diretti interessati è ignorata. Da addetti ai lavori comprenderemo i meccanismi tradotti dalle neuroscienze, dalla psicologia clinica, le strade percorse dai neurotrasmettitori, i cambiamenti neuroadattivi e tanto altro ancora, ma poco comprenderemo dei consumatori senza un ascolto che, solo se reale e appassionato, potrà tradursi in responsabilità da parte di chi racconta.
Se trascuriamo questo assunto, assecondando il bisogno di tacitare la dissonanza cognitiva che discende dall'apprendimento dei rischi, difficilmente riusciremo a trovare soluzioni alternative al consumo dilagante.
Libertà o divieto. Malattia o vizio. Innocenza o colpa. Riduzione del danno o tolleranza zero. Manieristica e sempre più asfittica continua ad essere la discussione attuale sul consumo di sostanze psicotrope, nella distrazione (voluta o culturalmente imposta) dal concetto di piacere.
Questo scritto intende provare ad inserirsi nel dibattito culturale intorno all'uso/dipendenza da sostanze in risposta all'egemonia del modello biochimico, declinato secondo il paradigma dominante delle neuroscienze, proponendo una riflessione sullo stigma e la colpevolizzazione cui il consumatore va incontro soprattutto nel superamento del limite, nel consegnarsi all'eccesso.
Alla necessità di far collimare sintomi e diagnosi bisognerebbe, infatti, aggiungere un sapere problem, setting and pleasure oriented per rispondere più efficacemente ad un indubbio e diffuso bisogno di strumenti curativi e trasformativi, oltreché meramente descrittivi.
Perché un piacere diverso è possibile; rispetto alle sostanze è altro. È espressione del proprio autentico Sé e incontro con l'Altro.
0 commenti