Sono più di dieci anni che non riesco a coricarmi prima delle tre del mattino e la “omicron” era ancora la quindicesima lettera dell’alfabeto greco. Quest’anno, però, è stato diverso. Non ho atteso il 2022, tale e tanta era la confusione, la disinformazione, la paura, la stupidità e anche la rabbia. Ci sono momenti in cui l’informazione va interrotta e assunta a piccole dosi. Questo è uno di quelli. Dunque, sono andato a letto presto, con alcune precauzioni
Nascondere il cellulare, alzare la cornetta del fisso, e staccare la corrente elettrica, per non essere indotti in tentazione dal “modem”, è fondamentale per uno come me della tribù degli immigrati digitali, sempre più esigua, diffidente e malmostosa. Non rispondere ad alcun segnale sonoro, né luminoso. Sia il portiere, il vicino di casa, il fattorino delle raccomandate. Come prima difesa dalla confusione può bastare. Poi scegliere una poltrona comoda della biblioteca e raccogliersi coi propri pensieri. Tutti! Magari iniziando a scacciare dalla mente proprio le feste canoniche, le ricorrenze cui vieni obbligato alla celebrazione per consuetudine (fastidiosa e inautentica). Per esempio, giornate come queste di fine d’anno 2021-22, con una pandemia virale, ferocemente attiva, cangiante e incombente, quella del Covid-19, giunge notizia dal Sudafrica – che fu di Nelson Mandela e Desmond Tutu, ma prima dei Boeri e anche di Churchill – di un nuovo mutamento virale in una variante chiamata “omicron”, contagiosissima, come mai è successo prima. Procede ad ondate sempre più alte, sempre più frequenti, superando il record del giorno precedente. Già ti viene il mal di mare prima ancora di causarti il panico del contagio e la confusione. “Calma e gesso”, mi viene subito in mente, come quando giocavo a biliardo con l’infermiere della “Neuro” Spartaco Mazzanti, per prender tempo e non andare in confusione, perchè il gioco si era complicato! Calma sì, ma un gesto di stizza e subito un morso alla lingua. Il “gessetto” era rimasto (come sempre) nel taschino del camice insieme alla “lucciola” per il fotomotore, che suor Domenica aveva provveduto a mandare in lavanderia.
Spiego meglio, perché ormai le associazioni scattano fulminee, precedendo la formulazione ordinata del pensiero: come, dove, quando, perché e a che proposito. Dunque, alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali della “Sapienza” in Viale dell’Università, dove giunsi dopo un’avventurosa maturità, Spartaco era un personaggio famoso [01], perché aveva retto la “mordacchia” (il tubo di gomma) fra i denti del primo paziente sottoposto all’elettroshock da Cerletti e Bini [02]. I locali – il Circolo dopolavoristico del “Teatro Ateneo” – lo erano ancor di più, perchè nel 1935, era stata la prima e unica volta, che nel comprensorio di una moderna “Città Universitaria” progettata da Marcello Piacentini, veniva costruito un Teatro. Dovevo guardarmi d’intorno perché negli anni Cinquanta del secolo passato farci sorprendere in camice e in divisa, due della “Neuro”, certamente in pausa, ma al biliardo dell’Ateneo, non era certo il massimo degli ippocratici e, confesso, neppure elegante. Non temevo il “Direttore”, perché Mario Gozzano, quello che ti sgridava se ti tanava a prendere l’ascensore dell’Istituto («chè serve ai malati») non beveva caffé, non andava mai al Bar dell’Ateneo e raramente varcava i confini del giardinetto della “Neuro”, che la tengono separata dagli edifici delle altre Facoltà della città universitaria stile littorio. C’era nondimeno il rischio d’incontrare un altro maestro, Pietro Sharoff, celebrità del teatro d’arte di Mosca, ormai naturalizzato italiano che a quel tempo faceva cartellone al Teatro Ateneo con “L’albergo dei poveri” di Maksim Gorkij. La mattina si tenevano regolarmente le prove e il mio problema urgente era quello di guadagnare con disinvoltura, rapidità e l’ultima buca a destra del biliardo, lato Buvette, dove tenevo infrattato un mozzicone di gessetto da biliardo.
Ecco dunque il desiderio di riprendere in mano il “gessetto” da biliardo e rotolarlo tra le dita per mettere ordine al pensiero, ai fatti accaduti, quelli dimostrati (autorevolezza delle fonti, bibliografia ecc), quelli verosimili, quelli inverosimili o, notoriamente falsi e incredibili perché totalmente fuori contesto (come Karima el Marough – in arte Ruby Rubacuori – nipote di Mubarak), eppure votati a maggioranza in una stupefacente seduta parlamentare contro la magistratura su un cavilloso “conflitto di attribuzione” tanto vergognoso quanto indelebile [03]. No! Ragionare pacatamente sulle cose, è il primo atteggiamento mentale da assumere, senza farsi travolgere dalle emozioni. Fare chiarezza. Mettere ordine cronologico ai fatti. Tanto più se si vuole tentare un minimo bilancio di fine d’anno, in questo clima soffocante di pandemia interminabile e ricorrente, che ha ripristinato lo sfondo torbido delle pagine manzoniane sulla peste del Seicento, che il nostro ci ha descritto nell’Ottocento e noi riviviamo, vichianamente, nel Duemilaventi. Untori, monatti, timori, sospetti, credenze, congiunzioni astrali, tal quali quelle credute da Don Ferrante.
Che la paura, compagna della fretta,. fossero cattive consigliere e, la filosofia dell’emergenza, non fosse d’oro ma di princisbecco, i latini lo sapevano benissimo fin da quando Tacito li aveva ammoniti. «Veritas visu et mora, falsa festinatione et incerti valescunt», vale a dire che “il vero s'impone alla vista e col tempo, il falso allorché prevalgono la fretta e l' incertezza”. Adagio antichissimo, che ci ha sempre detto come il “presto sia nemico del bene” ma vitale in circostanze necessitative disperate. Allarme, emergenza, fretta, paura, hanno sempre dato suggerimenti estremi, diciamo “salvavita”. Lo sanno i neurofisiologi da quando nel 1920 Walter Cannon dimostrò i meccanismi automatici primordiali di “attacco o fuga” (“fight or flight reponse”), validi anche nei grandi mammiferi, uomo compreso. Lo sanno anche i clinici che lavorano con gli “ossessivi-compulsivi”, le popolazioni dei “nevrotici freudiani”, gli “scrupolosi” dei confessionali che non mollano il malcapitato confessore, appena addentato, senza negoziazioni estenuanti e impossibili. Ma quando l’allerta è costante, l’arco riflesso va in pausa e il segnale si spegne per cui si attenua anche il valore dell’informazione e l’autorevolezza dell’autorità che la diffonde. Si possono sospettare torbidi e cospicui interessi altrui, immaginare turbe di incalliti sfruttatori dell'attimo propizio, scippatori delle necessità collettive, pronti “all’assalto dei poveri ingenui creduloni che ignorano la verità”. Allora siamo più prossimi al delirio di rapporto sensitivo della psicosi collettiva che alla notizia mediatica, per usare il linguaggio kretschmeriano studiato e spiegatoci da Callieri.
In un 31 dicembre del 2019 – che sembra ormai lontanissimo – le autorità cinesi comunicarono ufficialmente all’Organizzazione mondiale della Sanità, che nella metropoli di Wuhan – capoluogo della provincia di Hubei – si era verificata una serie di casi di polmonite atipica, di cui si ignorava l’eziologia. Non si trattava certamente di un semplice batterio ma di un virus. Quello che era stato isolato nella regione, però, pur facendo parte della classe dei “Coronavirus” non corrispondeva ad alcuno di quelli fino ad allora identificati. Gli fu attribuita la sigla “Covid 19”. I Cinesi non vennero creduti, perché qualcuno, per ovvie ragioni geopolitiche, oltre-Pacifico e in Europa, non ha mai smesso di rammentare, periodicamente, “al colto e l’inclita”, che i cinesi sono tanti. Quasi un miliardo e mezzo, sono comunisti, fanno lunghe marce dietro un uomo chiamato Mao, che ha capeggiato la “banda dei quattro”. Ha scritto un “libretto rosso” stimato il “vangelo” di quelle popolazioni “a noi” remote, ma con una caratteristica tremenda, di “mangiare i bambini”, imparata da Stalin, suo compare e grande sostenitore.
Dopo l’annuncio, tutti a chiedersi cosa ci fosse dietro (o davanti). Passò un mese prima che l’OMS, il 30 gennaio 2020, dichiarasse l'emergenza globale e ancora un paio (11 marzo 2020) la pandemia. Il pianeta Terra fu sigillato per lockdown e sanificazioni. Ma in Occidente – guidato da Trunp, un presidente USA indeciso tra la varechina e l’acido muriatico – ci si preoccupava molto più del salto di specie coi pipistrelli cinesi che della salute degli individui. Fortunatamente a fine 2020 vennero i vaccini, di quelle che, spregiativamente, sono chiamate "Big Pharma", perché talora intervengono come gli avvoltoi dopo la pugna sui campi di battaglia. Ma tutti sanno che le grandi imprese farmaceutiche non sono chiamate a pettinare le bambole. Venne anche il variopinto caravanserraglio di annessi e connessi legati alla pratica del vaccino, al rifiuto del medesimo, alla contestazione, alla protesta violenta fino all’assalto e alla devastazione della storica sede della CGIL romana. a Corso d'Italia, 25. Per quanto il fatto non avesse nulla a che vedere col Covid, gli scalmanati, senza mascherina, lanciavano urla di “libertà”, impugnavano tricolori, gagliardetti e bastoni, salutavano romanamente e distruggevano gli uffici. Si sa a quale formazione politica appartengano ma si stenta a prendere i promessi provvedimenti perchè non si riesce ancora a trovare la “Legge Scelba” che è del 1952. Certamente gli episodi più stupefacenti sono stati quelli del dentista di Biella che si è presentato al centro vaccinazioni esibendo una protesi deltoidea in silicone preparata minuziosamente tanto per passare il tempo tra una dentiera e l’altra. Voleva vedere l’effetto sul medico vaccinatore, che poi era una infermiera. Venale, più che stupido, quello che ci giunge dalla Nuova Zelanda dove non è richiesta la tessera sanitaria, del tizio che si è fatto vaccinare 10 volte in un giorno prendendo ogni volta il posto di un no-vax per denaro.
L’anno si è chiuso con presagi sinistri. I tappi dello champagne millesmé non sono saltati, la spuma era di un rosso tra il pompeiano e il bordeaux, il perlage spento. L’orchestrina come quella sul ponte del "Titanic" di una volta – spaventosamente inclinato come si faceva un tempo per aver sbattuto contro un iceberg – strimpellava per quei pochi che avevano accettato d’immolarsi in uniforme di gala rigorosamente anni venti: “petit noir” per lei (il castigato tubino Chanel di chiffon nero), “smoking” per lui. Tutto lucido, molta brillantina, nero comunque! Sono passati due anni completi, stiamo iniziando il terzo e l’incubo non cessa. La tragedia continua tra la più grande delle confusioni, la più scellerata delle negazioni, la più stolida delle rivolte.
Non ci lascerà facilmente questo coronavirus Sars-CoV-2. Oltre agli aspetti etiopatogenetici, fisiopatologici, clinici, di isolamento, educazione sanitaria, cura e vaccinazione, già piuttosto complicati su larga scala e, sul piano organizzativo. Vi sono anche quelli, socioculturali e igienico-sanitari, relativi alle condizioni di vita e di accesso al cibo, che sono strettamente collegate alla circolazione dell’infezione. Anzi sono in una stretta relazione sinergica, come, in passato, mi ha sempre rammentato il mio grande amico Tullio Seppilli [04] un grande studioso e Maestro di Antropologia Medica. Fattori entrambi collegati, d’importanza determinante, tanto che si è voluto parlare anche e giustamente di sindemia. Sarà meglio smettere di smaniare e fare sciocchezze, ma prendere piuttosto le misure per una lunga guerra di posizione, lavorare sui vaccini, essere cauti sulle facili diffusioni, mascherandosi e sanificando. Buon anno 2022
Note.
01. In proposito si veda Ricordanze 04. PARTE QUARTA. SDSM Progetto impossibile but “Yes we came”. Intanto poche scelte utili e fattibili di Sergio Mellina. Pol.it psychiatry on line Italia, 22 ottobre, 2018.
02. Cfr. L’elettroshock. Una “terapia” empirica, inefficace e anche “pestifera”. di Sergio Mellina. Pol.it psychiatry on line Italia, 25 febbraio, 2019.
03. “XVI LEGISLATURA. Resoconto stenografico dell'Assemblea della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana. Seduta n. 458 di martedì 5 aprile 2011”, pp.18-29.
04. Cfr. Curanderos made in italy? i guaritori popolari in Italia di Sergio Mellina Pol.it psychiatry on line Italia, 3 gennaio, 2019.
Nascondere il cellulare, alzare la cornetta del fisso, e staccare la corrente elettrica, per non essere indotti in tentazione dal “modem”, è fondamentale per uno come me della tribù degli immigrati digitali, sempre più esigua, diffidente e malmostosa. Non rispondere ad alcun segnale sonoro, né luminoso. Sia il portiere, il vicino di casa, il fattorino delle raccomandate. Come prima difesa dalla confusione può bastare. Poi scegliere una poltrona comoda della biblioteca e raccogliersi coi propri pensieri. Tutti! Magari iniziando a scacciare dalla mente proprio le feste canoniche, le ricorrenze cui vieni obbligato alla celebrazione per consuetudine (fastidiosa e inautentica). Per esempio, giornate come queste di fine d’anno 2021-22, con una pandemia virale, ferocemente attiva, cangiante e incombente, quella del Covid-19, giunge notizia dal Sudafrica – che fu di Nelson Mandela e Desmond Tutu, ma prima dei Boeri e anche di Churchill – di un nuovo mutamento virale in una variante chiamata “omicron”, contagiosissima, come mai è successo prima. Procede ad ondate sempre più alte, sempre più frequenti, superando il record del giorno precedente. Già ti viene il mal di mare prima ancora di causarti il panico del contagio e la confusione. “Calma e gesso”, mi viene subito in mente, come quando giocavo a biliardo con l’infermiere della “Neuro” Spartaco Mazzanti, per prender tempo e non andare in confusione, perchè il gioco si era complicato! Calma sì, ma un gesto di stizza e subito un morso alla lingua. Il “gessetto” era rimasto (come sempre) nel taschino del camice insieme alla “lucciola” per il fotomotore, che suor Domenica aveva provveduto a mandare in lavanderia.
Spiego meglio, perché ormai le associazioni scattano fulminee, precedendo la formulazione ordinata del pensiero: come, dove, quando, perché e a che proposito. Dunque, alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali della “Sapienza” in Viale dell’Università, dove giunsi dopo un’avventurosa maturità, Spartaco era un personaggio famoso [01], perché aveva retto la “mordacchia” (il tubo di gomma) fra i denti del primo paziente sottoposto all’elettroshock da Cerletti e Bini [02]. I locali – il Circolo dopolavoristico del “Teatro Ateneo” – lo erano ancor di più, perchè nel 1935, era stata la prima e unica volta, che nel comprensorio di una moderna “Città Universitaria” progettata da Marcello Piacentini, veniva costruito un Teatro. Dovevo guardarmi d’intorno perché negli anni Cinquanta del secolo passato farci sorprendere in camice e in divisa, due della “Neuro”, certamente in pausa, ma al biliardo dell’Ateneo, non era certo il massimo degli ippocratici e, confesso, neppure elegante. Non temevo il “Direttore”, perché Mario Gozzano, quello che ti sgridava se ti tanava a prendere l’ascensore dell’Istituto («chè serve ai malati») non beveva caffé, non andava mai al Bar dell’Ateneo e raramente varcava i confini del giardinetto della “Neuro”, che la tengono separata dagli edifici delle altre Facoltà della città universitaria stile littorio. C’era nondimeno il rischio d’incontrare un altro maestro, Pietro Sharoff, celebrità del teatro d’arte di Mosca, ormai naturalizzato italiano che a quel tempo faceva cartellone al Teatro Ateneo con “L’albergo dei poveri” di Maksim Gorkij. La mattina si tenevano regolarmente le prove e il mio problema urgente era quello di guadagnare con disinvoltura, rapidità e l’ultima buca a destra del biliardo, lato Buvette, dove tenevo infrattato un mozzicone di gessetto da biliardo.
Ecco dunque il desiderio di riprendere in mano il “gessetto” da biliardo e rotolarlo tra le dita per mettere ordine al pensiero, ai fatti accaduti, quelli dimostrati (autorevolezza delle fonti, bibliografia ecc), quelli verosimili, quelli inverosimili o, notoriamente falsi e incredibili perché totalmente fuori contesto (come Karima el Marough – in arte Ruby Rubacuori – nipote di Mubarak), eppure votati a maggioranza in una stupefacente seduta parlamentare contro la magistratura su un cavilloso “conflitto di attribuzione” tanto vergognoso quanto indelebile [03]. No! Ragionare pacatamente sulle cose, è il primo atteggiamento mentale da assumere, senza farsi travolgere dalle emozioni. Fare chiarezza. Mettere ordine cronologico ai fatti. Tanto più se si vuole tentare un minimo bilancio di fine d’anno, in questo clima soffocante di pandemia interminabile e ricorrente, che ha ripristinato lo sfondo torbido delle pagine manzoniane sulla peste del Seicento, che il nostro ci ha descritto nell’Ottocento e noi riviviamo, vichianamente, nel Duemilaventi. Untori, monatti, timori, sospetti, credenze, congiunzioni astrali, tal quali quelle credute da Don Ferrante.
Che la paura, compagna della fretta,. fossero cattive consigliere e, la filosofia dell’emergenza, non fosse d’oro ma di princisbecco, i latini lo sapevano benissimo fin da quando Tacito li aveva ammoniti. «Veritas visu et mora, falsa festinatione et incerti valescunt», vale a dire che “il vero s'impone alla vista e col tempo, il falso allorché prevalgono la fretta e l' incertezza”. Adagio antichissimo, che ci ha sempre detto come il “presto sia nemico del bene” ma vitale in circostanze necessitative disperate. Allarme, emergenza, fretta, paura, hanno sempre dato suggerimenti estremi, diciamo “salvavita”. Lo sanno i neurofisiologi da quando nel 1920 Walter Cannon dimostrò i meccanismi automatici primordiali di “attacco o fuga” (“fight or flight reponse”), validi anche nei grandi mammiferi, uomo compreso. Lo sanno anche i clinici che lavorano con gli “ossessivi-compulsivi”, le popolazioni dei “nevrotici freudiani”, gli “scrupolosi” dei confessionali che non mollano il malcapitato confessore, appena addentato, senza negoziazioni estenuanti e impossibili. Ma quando l’allerta è costante, l’arco riflesso va in pausa e il segnale si spegne per cui si attenua anche il valore dell’informazione e l’autorevolezza dell’autorità che la diffonde. Si possono sospettare torbidi e cospicui interessi altrui, immaginare turbe di incalliti sfruttatori dell'attimo propizio, scippatori delle necessità collettive, pronti “all’assalto dei poveri ingenui creduloni che ignorano la verità”. Allora siamo più prossimi al delirio di rapporto sensitivo della psicosi collettiva che alla notizia mediatica, per usare il linguaggio kretschmeriano studiato e spiegatoci da Callieri.
In un 31 dicembre del 2019 – che sembra ormai lontanissimo – le autorità cinesi comunicarono ufficialmente all’Organizzazione mondiale della Sanità, che nella metropoli di Wuhan – capoluogo della provincia di Hubei – si era verificata una serie di casi di polmonite atipica, di cui si ignorava l’eziologia. Non si trattava certamente di un semplice batterio ma di un virus. Quello che era stato isolato nella regione, però, pur facendo parte della classe dei “Coronavirus” non corrispondeva ad alcuno di quelli fino ad allora identificati. Gli fu attribuita la sigla “Covid 19”. I Cinesi non vennero creduti, perché qualcuno, per ovvie ragioni geopolitiche, oltre-Pacifico e in Europa, non ha mai smesso di rammentare, periodicamente, “al colto e l’inclita”, che i cinesi sono tanti. Quasi un miliardo e mezzo, sono comunisti, fanno lunghe marce dietro un uomo chiamato Mao, che ha capeggiato la “banda dei quattro”. Ha scritto un “libretto rosso” stimato il “vangelo” di quelle popolazioni “a noi” remote, ma con una caratteristica tremenda, di “mangiare i bambini”, imparata da Stalin, suo compare e grande sostenitore.
Dopo l’annuncio, tutti a chiedersi cosa ci fosse dietro (o davanti). Passò un mese prima che l’OMS, il 30 gennaio 2020, dichiarasse l'emergenza globale e ancora un paio (11 marzo 2020) la pandemia. Il pianeta Terra fu sigillato per lockdown e sanificazioni. Ma in Occidente – guidato da Trunp, un presidente USA indeciso tra la varechina e l’acido muriatico – ci si preoccupava molto più del salto di specie coi pipistrelli cinesi che della salute degli individui. Fortunatamente a fine 2020 vennero i vaccini, di quelle che, spregiativamente, sono chiamate "Big Pharma", perché talora intervengono come gli avvoltoi dopo la pugna sui campi di battaglia. Ma tutti sanno che le grandi imprese farmaceutiche non sono chiamate a pettinare le bambole. Venne anche il variopinto caravanserraglio di annessi e connessi legati alla pratica del vaccino, al rifiuto del medesimo, alla contestazione, alla protesta violenta fino all’assalto e alla devastazione della storica sede della CGIL romana. a Corso d'Italia, 25. Per quanto il fatto non avesse nulla a che vedere col Covid, gli scalmanati, senza mascherina, lanciavano urla di “libertà”, impugnavano tricolori, gagliardetti e bastoni, salutavano romanamente e distruggevano gli uffici. Si sa a quale formazione politica appartengano ma si stenta a prendere i promessi provvedimenti perchè non si riesce ancora a trovare la “Legge Scelba” che è del 1952. Certamente gli episodi più stupefacenti sono stati quelli del dentista di Biella che si è presentato al centro vaccinazioni esibendo una protesi deltoidea in silicone preparata minuziosamente tanto per passare il tempo tra una dentiera e l’altra. Voleva vedere l’effetto sul medico vaccinatore, che poi era una infermiera. Venale, più che stupido, quello che ci giunge dalla Nuova Zelanda dove non è richiesta la tessera sanitaria, del tizio che si è fatto vaccinare 10 volte in un giorno prendendo ogni volta il posto di un no-vax per denaro.
L’anno si è chiuso con presagi sinistri. I tappi dello champagne millesmé non sono saltati, la spuma era di un rosso tra il pompeiano e il bordeaux, il perlage spento. L’orchestrina come quella sul ponte del "Titanic" di una volta – spaventosamente inclinato come si faceva un tempo per aver sbattuto contro un iceberg – strimpellava per quei pochi che avevano accettato d’immolarsi in uniforme di gala rigorosamente anni venti: “petit noir” per lei (il castigato tubino Chanel di chiffon nero), “smoking” per lui. Tutto lucido, molta brillantina, nero comunque! Sono passati due anni completi, stiamo iniziando il terzo e l’incubo non cessa. La tragedia continua tra la più grande delle confusioni, la più scellerata delle negazioni, la più stolida delle rivolte.
Non ci lascerà facilmente questo coronavirus Sars-CoV-2. Oltre agli aspetti etiopatogenetici, fisiopatologici, clinici, di isolamento, educazione sanitaria, cura e vaccinazione, già piuttosto complicati su larga scala e, sul piano organizzativo. Vi sono anche quelli, socioculturali e igienico-sanitari, relativi alle condizioni di vita e di accesso al cibo, che sono strettamente collegate alla circolazione dell’infezione. Anzi sono in una stretta relazione sinergica, come, in passato, mi ha sempre rammentato il mio grande amico Tullio Seppilli [04] un grande studioso e Maestro di Antropologia Medica. Fattori entrambi collegati, d’importanza determinante, tanto che si è voluto parlare anche e giustamente di sindemia. Sarà meglio smettere di smaniare e fare sciocchezze, ma prendere piuttosto le misure per una lunga guerra di posizione, lavorare sui vaccini, essere cauti sulle facili diffusioni, mascherandosi e sanificando. Buon anno 2022
Note.
01. In proposito si veda Ricordanze 04. PARTE QUARTA. SDSM Progetto impossibile but “Yes we came”. Intanto poche scelte utili e fattibili di Sergio Mellina. Pol.it psychiatry on line Italia, 22 ottobre, 2018.
02. Cfr. L’elettroshock. Una “terapia” empirica, inefficace e anche “pestifera”. di Sergio Mellina. Pol.it psychiatry on line Italia, 25 febbraio, 2019.
03. “XVI LEGISLATURA. Resoconto stenografico dell'Assemblea della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana. Seduta n. 458 di martedì 5 aprile 2011”, pp.18-29.
04. Cfr. Curanderos made in italy? i guaritori popolari in Italia di Sergio Mellina Pol.it psychiatry on line Italia, 3 gennaio, 2019.
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