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Il pensiero libero e cangiante di Nanni Moretti

8 Mag 23

A cura di matteo.balestrieri

Moretti lo si ama o lo si odia. “Il sol dell’avvenire” è in effetti quanto di più morettiano non ci potrebbe essere. Ci sono tutte le idiosincrasie del protagonista Giovanni (Nanni Moretti stesso) come ad esempio l’insopportazione per la rappresentazione banale della violenza nei film o anche che una donna indossi dei sabot, tutte le sue stereotipie come il modo scandito e declamato di parlare, la necessità autistica di esprimere il proprio pensiero ad alta voce indipendentemente dal contesto, cancellare con la musica ad alto volume i discorsi spiacevoli, nonché infine tutti i suoi rituali come ad esempio rivedere il film “Lola” di Jacques Demy sul divano di casa insieme a moglie e figlia prima di iniziare la regia di un film. In tutto questo ritroviamo il Moretti vecchia maniera degli esordi di "Caro Diario", "Palombella rossa", "Ecce bombo". Con in più il piacere dell’autocitazione, quando lui va in giro per Roma su un monopattino elettrico, in una parodia di quando in “Caro Diario” girava in vespa nelle vie deserte di una Roma estiva.
Sul perché di questo ritorno ad un Moretti standard ci può stare un ripensamento del regista dopo lo sfortunato (al botteghino) e drammatico "Tre piani" (2021) – peraltro film che a me è piaciuto – quando il regista ha girato un opera tratta da un testo non personale, affrontando una recitazione molto più realistica rispetto a quella straniata che gli è solita.
Lo stesso Moretti nega però che ci sia stato un ripensamento, almeno cosciente, del genere cinematografico, aggiungendo che lui si sente libero di dirigere film in base a quello che si sente al momento di fare, soggetti comici, drammatici o altro che siano. In effetti, la sua consolidata fama gli dà questa grande possibilità, offrendogli anche lo spunto per prendere in giro in questo film la multinazionale Netflix che gli rifiuta una sceneggiatura.
La mia visione personale su questa opera e sul Moretti attuale è in effetti che Nanni si ponga – per me piacevolmente – al di là del bene e del male, libero di seguire flussi di pensiero interessanti ma anche in contraddizione tra loro. In più, ammettendo tranquillamente di essere nella condizione di poter cambiare idea in ogni momento e di poterlo rappresentare nella sceneggiatura. Una libertà assoluta, il che significa per lo spettatore prendere o lasciare.
L’esempio palese di questa libertà è nello svolgimento di questo film. Il tema principale, che si perde comunque in tanti rivoli tra passato e presente, tra recitato e vita reale dei protagonisti, vorrebbe inizialmente essere politico. Si tratta del film sulla reazione di una piccola sezione del PCI nella periferia romana alla rivolta ungherese del 1956, stroncata dalle truppe dell’Unione Sovietica. Ricordare questo momento storico della sinistra italiana e mondiale è indubbiamente un grande merito. Giovanni è convinto di dirigere un film politico, tuttavia la gioiosa e impenitente Vera (Barbora Bobulova) – che nel suo film recita la parte di un’attivista comunista ribelle ai diktat del partito – non segue neanche le sue indicazioni registiche e gli fa pure presente che quello che sta girando è in realtà un film d’amore.
Inizialmente arrabbiato, Giovanni entra progressivamente in quest’ottica e si indirizza verso una direzione registica diversa, cambiando anche il previsto finale tragico (Silvio Orlando che dice “ho sempre sognato fare un personaggio che alla fine si impicca… finalmente!”) in uno più aperto e gioioso. L’elemento che veicola questo cambiamento di prospettiva è il genere femminile, da Vera nella parte dell’attivista, alla figlia reale di Giovanni che si mette con un diplomatico anziano e alla moglie Paola (Margherita Buy) che si decide infine dopo anni di analisi a dirgli che si vuole separare. Tutto questo costringe Giovanni a perdere le sue certezze e rivedere completamente il suo percorso registico ed esistenziale.
Se Nanni Moretti mette in scena questa storia è quindi perché alcune cose personali ce le vuole comunicare: ad esempio, che lui non è più assolutista e intransigente come era da giovane, e che è anche disposto a pensare che la cifra politica può essere superata da cose più importanti come i legami di coppia o semplicemente l’amore, oppure infine che le donne hanno un ruolo fondamentale nel far vedere come è la vita reale e non quella idealizzata. Insomma, all’interno dei cliché personali utilizzati, che sottolineano il fatto che è di lui stesso che si sta parlando, il meta-messaggio che ci arriva è che Nanni continua a riflettere su tutto ciò che è accaduto nel passato e continuamente accade, ma che in fondo non ha certezze assolute ed è perciò possibile generare continuamente una nuova visione del tutto. Un’etica della relatività e un inno alla propria libertà di creare cinema. Magari il messaggio è confuso, ma sullo schermo il sol dell’avvenire riesce a splendere sullo spettatore.

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