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VOLER GUARIRE. COMBATTERE IL CANCRO: una recensione

4 Ago 23

Di Andrea Castiello D'Antonio
La nona edizione rivista e ampliata di un lavoro uscito in Francia nel 2009 rappresenta una testimonianza dell’opera di colta divulgazione portata avanti per decenni dalla psicologa, psicoterapeuta psicoanalitica, professoressa emerita all’Uuniversité Nice-Sophia-Antipolis e cofondatrice della IAGP – International Association of Group Psychotherapy, Anne Ancelin Schűtzenberger, nata a Mosca il 29 marzo 1919 e deceduta a Parigi il 23 marzo 2018, a quasi 99 anni di età.

In questo libro l’autrice affronta in modo molto serio il male del secolo, il cancro, offrendo una serie di spunti di riflessione e di suggerimenti nell’ottica di rendere quanto più forte e consapevole possibile la persona che è colpita da questo male, nel quadro delle necessarie cure mediche specialistiche. L’obiettivo è dunque quello di potenziare le risorse della persona, limitarne i contraccolpi che possano indebolire la sua voglia di combattere, la sua voglia di vivere e di proseguire nella vita con il senso della progettualità: tutti elementi, com’è noto, purtroppo, che non possono essere dati per scontati in coloro che si lasciano immediatamente sopraffare e annientare dal cancro.

Anne Ancelin Schűtzenberger ricorda di aver iniziato ad occuparsi dei malati di cancro nel 1978 supportandoli, sempre nel quadro generale delle cure mediche, con un approccio globale psico-somatico orientato a rinforzare la persona nella sua globalità esistenziale. Nel suo primo articolo sul tema di quegli anni, ricorda che “già ai tempi dei Greci, Galeno diceva: ‘Le donne allegre non hanno il cancro’, e ‘una donna allegra guarisce molto di più di una donna triste’” (p. 21). Partendo, dunque, dal considerare le domande di fondo che una persona ammalata di cancro spesso rivolge a sé stessa – perché? perché mi succede questo? perché proprio a me? – l’autrice prende in esame il potere negativo delle predizioni che si auto-avverano, ad esempio quelle legate al tasso statistico di mortalità in determinati casi di tumore, che possono incidere negativamente sulla capacità di resilienza del paziente. Paziente che dovrebbe essere consapevole ed informato – pur con le dovute e delicate accortezze – proprio perché soltanto una persona che sa può combattere contro il nemico che gli si pone davanti.

Quindi, partendo dal fatto che il malato deve essere seguito da un’équipe medica dedicata e competente, ecco una serie di suggerimenti che vanno dalle tecniche di rilassamento a quelle di contrasto dell’angoscia, dalle diverse forme di psicoterapia all’esprimere all’esterno i propri timori e terrori, dall’esercizio fisico al curare sé stessi attraverso abitudini di vita quotidiana che possano legare, per così dire, il soggetto alla vita e al vivere.

Le reti sociali, di affetto e di sostegno, sono sicuramente molto importanti, e l’autrice mette anche in guardia contro i cosiddetti benefici secondari della malattia – un concetto su cui Sigmund Freud attirò a suo tempo l’attenzione rispetto alla persona nevrotica che ottiene dei benefici essendo psicologicamente invalida. Ma anche i medici e gli operatori sanitari hanno necessità di essere sostenuti – come oggi si dovrebbe ben sapere! “E’ assolutamente importante che le équipe che lavorano con i malati di tumore, in particolare le équipe ospedaliere, abbiano dei ‘luoghi della parola’, dei Gruppi Balint dove parlare” (p. 49). Anche perché la motivazione a farcela, per il paziente, se accompagnata dalla motivazione a curare e guarire, e dalla fiducia nella guarigione da parte dei curanti, possono davvero costituire un fattore terapeutico (pur se aspecifico) di grande impatto. Naturalmente si tratta di motivazioni e credenze che devono essere autentiche, e non messe in atto per finta, per forma, o per far piacere: “si tratta di “credere che questo malato, questa persona unica, a cui si parla, può guarire” (p. 53).

Anne Ancelin Schűtzenberger, nelle pagine di questo libro, torna poi su alcune situazioni psicologiche profonde che l’hanno impegnata a lungo nella vita come la sindrome da anniversario per la quale una persona può ammalarsi alla stessa età in cui si è ammalata una persona a lei cara, tipicamente un familiare. Al proposito si devono richiamare i seguenti testi: Anne Ancelin Schűtzenberger, Ghislain Devroede, Una malattia chiamata “genitori” (Di Renzo, Roma, 2006; ed. orig.: Ces enfants malades de leurs parents. Paris: Petit Bibliothèque Payot, 2005), e Anne Ancelin Schűtzenberger, La sindrome degli antenati. Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico (Di Renzo, Roma, 2005; ed. orig.: Aïe, mes aieux!: Liens transgénérationelles, secrets de famille, syndrome d’anniversaire et pratique du génosociogramme. Paris: Desclée De Brouwer / La Méridienne, 1993). Il tema comune di questi due volumi è la trasmissione intergenerazionale del disagio psichico e psicosomatico: problemi irrisolti, segreti di famiglia e non-detti, interdizioni a sapere e falsi romanzi, doppi legami, psicopatologie conclamate e traumi pesano di generazione in generazione e incidono sulla mente e sul corpo del bambino che, da adulto, li metterà in scena secondo modalità specifiche, come quelle racchiuse nella cosiddetta sindrome da anniversario.

Il testo si snoda in una sezione di domande & risposte, casi clinici, testimonianze, esperienze professionali e le molte forme di aiuto e auto-aiuto terapeutico che possono essere integrate nell’ambito delle terapie mediche, fino al prendere in esame i momenti limite, i passaggi che conducono alla morte, ma anche il ricordo della scomparsa dei propri cari e il modo con cui la persona, oggi ammalata di cancro, si è congedata dai propri cari. Infatti, sentimenti di colpa e antichi meccanismi centrati su una sorta di devozione verso il familiare deceduto possono complicare notevolmente il quadro del malato e spingerlo a lasciarsi andare. E casi ancor più complessi sono, ad esempio, quelli che coinvolgono il cosiddetto figlio di rimpiazzo, cioè un figlio voluto per rimpiazzare un primo figlio prematuramente deceduto la cui morte non è stata elaborata dai genitori.

Richiamando alcuni suggerimenti scaturiti nell’ambito del Movimento di Psicologia Positiva – ma non dimentichiamo che esiste, oggi, anche una psichiatria positiva, visualizzabile ad esempio nelle pagine di “Practicing Positive Psychiatry” di Fredrike Bannink e Frenk Peeters (vedi la recensione di questo testo qui:

http://www.psychiatryonline.it/node/9712) – diviene necessario occuparsi non solo del malato ma anche della sua famiglia e delle persone che ruotano intorno a lui. Se, da un lato, “l’idea che il malato si fa della propria malattia, del proprio futuro, delle proprie possibilità, della propria vita, si gioca lì, nello scambio di sguardi, e nel contatto vero (o falso, o a disagio) che si stabilisce là, tra il medico e il malato” (p. 115), dall’altro è necessario fare di tutto, alle prime avvisaglie della malattia, per far sì che il paziente riprenda fiato, esca dalla glaciazione o dalla disperazione che così spesso accompagnano queste situazioni (ed altre situazioni di malattia connaturate da estrema gravità e lesioni fisiche).

L’approccio della psicoterapeuta francese è infine riassunto in 24 punti essenziali che partono dalla fiducia che il malato dovrebbe avere nel trattamento medico al recupero della vitalità e della gioia di vivere il momento presente. Vi è soltanto un aspetto importante che, a me sembra, non sia adeguatamente trattato, e cioè l’attivarsi del meccanismo psicologico profondo della negazione a fronte del primo manifestarsi della malattia e/o dell’aggravamento.

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