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SUI CONCORSI IN SANITA’ E IN SALUTE MENTALE, A PARTIRE DAI FATTI DI TRIESTE

13 Giu 21

A cura di Paolo F. Peloso

Mi pare difficile ignorare lo scontro cui ha dato la miccia in questi giorni il concorso appena concluso per la direzione del CSM di Barcola a Trieste – il primo a essere stato aperto, quello che ha avuto come primari in successione Rotelli, Dell’Acqua e Mezzina – e perciò, vorrei prendere spunto dal dibattito in atto per qualche considerazione non tanto nel merito (ho una mia lettura di quanto è successo, certo, come tutti, ma preferisco soffermarmi qui su considerazioni di ordine più generale) ma piuttosto sul meccanismo concorsuale e la sua applicazione in questo specifico caso.
La prima considerazione riguarda l’esigenza che avverto di interrogarci (laicamente) sul senso che hanno oggi i concorsi – mi riferisco soprattutto a quelli per le figure apicali –  nella sanità aziendalizzata, nella quale, se di vere aziende ancorché pubbliche deve trattarsi, mi chiedo (e spero di non scandalizzare nessuno) se il meccanismo concorsuale non rappresenti una vera incongruenza. E, infondo, non sarebbe invece meglio che le nomine avvenissero, come nel settore privato, in modo trasparente per cooptazione. Mi spiego meglio: se non sarebbe preferibile, cioè, che chi ha la responsabilità di dirigere queste aziende esponga chiaramente la sua idea di assistenza sanitaria (nel nostro caso di organizzazione per la salute mentale) e cerchi poi, in modo altrettanto trasparente, la persona meglio in grado di interpretarla. Mi pare invece un’ipocrisia tipicamente italiana quella di pretendere di selezionare un dirigente sulla base di un’astratta idea di “esperienza” o “capacità” (esperienza di cosa, capacità di fare cosa?), per cui tutti sono invitati a concorrere e una commissione tecnica di esperti (anch’essi esperti di cosa, cioè di quali aspetti di quella cosa tanto complessa che è la psichiatria?) è chiamata a valutare chi sia il “migliore”. Salvo però rischiare di doversi poi trovare a forzare, più o meno legittimamente, in qualcuno di questi passaggi il meccanismo (l’impressione a naso è che a volte la commissione, o l’esito del colloquio siano troppo quelli attesi, per attribuirne proprio alla sorte la responsabilità), per ottenere che a essere nominato non sia il concorrente astrattamente “più esperto”, “più bravo”, ma mettendo i piedi per terra quello ritenuto più adatto a interpretare un progetto di organizzazione le cui caratteristiche rimangono in larga parte (non del tutto oggi, certo, perché è prevista comunque la definizione del profilo) non esplicitate.
Già, il profilo. Che evidentemente rappresenta un correttivo utile a far sì che il concorso non riguardi un’astratta “superiorità” del vincitore sugli altri, ma il fatto che egli sia la persona più adatta a stare in quel posto lì, che l’azienda gli assegna; a fare quella cosa lì, che l’Azienda si aspetta da lui. Ho partecipato a molti concorsi, ormai, sia come commissario che come candidato. In uno, ad esempio, fummo costretti a non ammettere un candidato che aveva un punteggio molto alto nella ricerca, ma non aveva trascorso un solo giorno nei servizi che avrebbe dovuto dirigere. Non corrispondeva al profilo. In un altro caso, si trattava della direzione di un SPDC, il profilo descriveva in modo estremamente preciso il luogo per cui si era alla ricerca di un direttore, e l’obiettivo che ci si aspettava che raggiungesse: la contrazione progressiva delle contenzioni, per la loro eliminazione. Qualcuno potrebbe arricciare il naso per tanta chiarezza nel merito e nell’orientamento; perché è evidente che uno psichiatra che attribuisca scarsa importanza al tema della contenzione avrebbe in quel caso poche opportunità di vincere. Ma non si tratta di una lotteria, si tratta di un lavoro che è giusto che vada a fare chi è interessato a farlo e chi sa farlo. E almeno la commissione sa cosa cercare. Anche a Trieste, il profilo avrebbe potuto orientare in modo più vincolante la commissione, risolvendole a monte molti problemi. Avrebbe potuto specificare le peculiarità del modello triestino, che è davvero molto particolare rispetto a quelli delle altre regioni italiane (cfr. sul punto in questa rubrica il link; e il link). E avrebbe potuto chiarire se il professionista di cui si era alla ricerca era qualcuno che potesse implementare ulteriormente, corroborare, magari aggiornare quel modello; o qualcuno che potesse trasformarlo e ricondurlo a essere più omogeneo ai modelli organizzativi prevalenti nelle altre regioni. Non mi pare che in questo caso si sia scelta né l’una né l’altra strada.
Certo, una terza considerazione riguarda il fatto che l’aziendalizzazione dell’assistenza sanitaria non ne altera però la natura pubblica, e quindi il fatto che il Direttore generale di un’azienda debba rendere conto, a porteriori, delle scelte: a quale modello di organizzazione dell’assistenza sanitaria intende conformarsi, cioè, e – nel caso si andasse come personalmente auspico verso un meccanismo di cooptazione – quale persona ha scelto per interpretarlo al meglio. Nessuno scandalo, perciò, mi pare ci debba essere se esperti di salute mentale e cittadini interessati a vario titolo aprono un dibattito sulle scelte del Direttore generale quando non le condividono. Se i sostenitori di un modello che lo avvertono complessivamente sotto attacco da un punto di vista politico si impegnano nella sua difesa esponendo i loro argomenti. E se, d’altra parte, altri esponenti della psichiatria italiana e internazionale prendono posizione sull’uno o sull’altro versante. Né può non colpire che tutti e tre gli psichiatri che hanno fino a oggi diretto il CSM di Barcola, nonché il DSM triestino, esprimano perplessità sulla designazione del loro successore. E che tra i firmatari della lettera con la quale cinque ex direttori dei dipartimenti della regione contestano le politiche regionali in atto nonché gli esiti del concorso, figuri Angelo Cassin, che ha diretto per anni la sezione regionale FVG della Società Italiana di Psichiatria, quando io dirigevo quella ligure, che è la stessa società scientifica cui fanno capo i due psichiatri componenti la commissione e molti di coloro che sono intervenuti a sostegno dell’esito del concorso.
Proseguo cogliendo due passaggi di un’intervista sul quotidino “Il Piccolo” all’assessore alla sanità della regione Friuli Venezia Giulia, Riccardo Riccardi, che mi hanno colpito perché verrebbe a prima vista da considerarli quasi ovvi, e invece a ben pensarci toccano questioni davvero complesse. Il primo è quello in cui afferma «non penso faccia titolo l’essere seguaci di Basaglia». Il secondo è: «Penso che tutta la psichiatria si riferisca a Franco Basaglia, il padre di una nuova cultura. Attribuirsi la definizione di basagliano mi pare un atto di grande presunzione».
Partiamo dal secondo: apparentemente non si può non dare ragione all’assessore. Tutta la psichiatria italiana oggi può considerarsi basagliana se con ciò si intende il fatto di riconoscersi in quella che possiamo considerare l’idea base, l’idea guida del pensiero di Basaglia, il punto sul quale decisamente ha vinto: che l’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione dovesse essere distrutto, come affermò per primo nel 1964.
Mi sentirei di affermare con sufficiente sicurezza che nessuno psichiatra italiano oggi rimpianga il manicomio. Ma, naturalmente, questa non fu la sola idea di Basaglia. E bisognerebbe far presente all’assessore che altre idee che pure a Basaglia possono essere attribuite, con le relative conseguenze pratiche, non sono condivise in modo altrettanto generale tra gli psichiatri italiani. Non entrerò però qui nel campo delle idee di Basaglia, che è complesso, ma identificherò tre questioni pratiche rispetto alle quali mi pare possibile distinguere psichiatri “basagliani in senso stretto”, da psichiatri che potremmo chiamare “genericamente basagliani”, che di Basaglia apprezzano la chiusura dell’ospedale psichiatrico ma poco di più.

Centralità del nodo della contenzione. Si potrebbe osservare che a nessuno psichiatra piace la contenzione; in realtà non è proprio così, perché mi è capitato ad esempio di imbattermi durante un convegno in un noto universitario toscano che, contestando una mia relazione sul tema, sosteneva che la contenzione può far bene al soggetto agitato, perché essere legato favorisce la liberazione di non so quali sostanze endogene che hanno l’effetto di tranquillizzarlo. O anche in uno psicoanalista genovese che sosteneva che sentirsi legate può fare stare meglio le persone similmente a quanto avviene con la tecnica del pack (ed è un pensiero, forse, non così distante da quello di Paolo Milone quando sembra sostenere che il corpo a corpo con il paziente corrobora la relazione). Ma ammettiamo pure che queste sono eccezioni, e alla maggioranza degli psichiatri l’”arte di legare le persone” non piace per niente. Diverso è però se uno psichiatra pensa che riuscire a fare una psichiatria che non lega sia un obiettivo centrale, fondamentale; o se pensa che certo se si riesce a non legare è meglio, ma se capita di doverlo fare, pazienza.

CSM h24, aperti 7 giorni. Mi pare che un’altra questione che caratterizza una psichiatria in senso stretto “basagliana” sia quello di avvertire l’esigenza di servizi forti in organici (e questo lo avvertono tutti) ma anche fortemente sbilanciati in favore della presenza sul territorio rispetto a quella in ospedale (che, pure, non è del tutto inesistente). Servizi robusti e fortemente calati nel vivo delle relazioni dei territori di vita, e irrigiditi il meno possibile dal carattere di artificialità e distanziamento dei rapporti proprio dell’istituzione ospedaliera.

Case, lavoro.  Una terza caratteristica mi pare quindi quella che in una prospettiva “basagliana” non è la malattia del soggetto a essere presa in carico, ma il soggetto stesso. E quindi curare significa certo prendere in carico, come sintetizzava Bruno Norcio, «la dimensione simbolica», ma anche «la materialità dell’esistenza». E quindi offrire anche risposta alle esigenze che il soggetto ha rispetto all’abitare, non luoghi “terapeutici” ma semplicemente luoghi, al lavoro, al reddito, consapevoli che anche per l’utente dei servizi vale il motto calabrese citato da Basaglia che «chi non ha, non è».

Si potrebbe certo scrivere molto di più sul pensiero di Basaglia, la sua complessità, la sua attualità e le conseguenze concrete che ne derivano per l’organizzazione dei servizi, e in parte abbiamo cominciato a farlo (vai al link); ma credo che già riferendosi a questi tre semplici parametri, facili da rilevare, e girando l’Italia, l’assessore Riccardi potrebbe imbattersi in psichiatrie molto basagliane (Trieste senz’altro) e psichiatrie pochissimo basagliane, con la maggior parte delle nostre psichiatrie che si collocano più vicine all’uno e all’altro di questi poli.
Quanto alla prima affermazione, «non penso faccia titolo l’essere seguaci di Basaglia», anch’essa a prima vista parrebbe un’ovvietà. Non fa titolo essere seguaci di Basaglia, così come non fa titolo essere maschi o femmine, alti o bassi, bruni o biondi, seguaci di Cristo o di Maometto, di Letta o di Salvini (e quest’ultima condizione, non è detto che sempre non faccia titolo…). Ma invece a pensarci meglio, anche quest’affermazione merita di essere problematizzata. Perché, come abbiamo visto, esistono servizi più e servizi meno “basagliani” in Italia, e allora per dirigere i servizi più “basagliani” forse occorre proprio qualcuno che sia “seguace di Basaglia”, cioè conosca il suo pensiero e l’impatto che ha sull’organizzazione dei servizi, e forse anche ci creda e, azzarderei persino, ami quel pensiero. Certo, questo se si vuole che quei servizi continuino a funzionare, e magari in prospettiva funzionino sempre meglio. Se invece l’idea, assolutamente legittima in sé anch’essa, è quella di smantellarli e ricondurli a essere altro, allora essere “seguaci di Basaglia” non solo non farà titolo, ma anzi farà titolo esserlo il meno possibile.
In ogni caso, comunque, temo che essere o meno “seguaci di Basaglia” non sia una condizione che, per quanto una commissione si sforzi di essere “oggettiva”, può facilmente essere ignorata quando si cerca un direttore per un CSM organizzato, orientato in senso fortemente basagliano.

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2 Commenti

  1. luigi.benevelli@libero.it

    Caro Paolo,

    Caro Paolo,
    la tua nota sulla triste vicenda in corso presso il DSM di Trieste mi ha sollecitato alcune riflessioni che ti propongo:
    1- Il governo del Servizio sanitario nazionale- l’Aziendalismo
    Il governo del Servizio sanitario nazionale è affidato alle Regioni ed è articolato in Aziende. Strutture e modalità organizzative sono diverse da Regione a Regione. Ovunque sono le Giunte dei governi regionali a nominare i manager (direttore generale, sanitario, sociale) che vanno a dirigere le Aziende sanitarie. I primari e i dirigenti dei servizi delle Aziende sanitarie sono nominati dai manager.
    Ero in Parlamento quando per la determinazione dell’allora ministro De Lorenzo fu approvata l’aziendalizzazione delle UUSSLL che aveva lo scopo dichiarato di tenere fuori la “politica dei partiti” (siamo in piena “Tangentopoli”) e i Comuni dalla gestione del Servizio sanitario nazionale. Ricordo un estremo tentativo di Lucio Strumendo, allora presidente di ANCI Sanità, di salvare la presenza e il protagonismo dei Comuni quando propose che le Aziende sanitarie diventassero delle “municipalizzate” gestite da Consorzi di Comuni. La proposta non passò (per poco) e fu adottato un modello di aziendalizzazione su cui la Bocconi (Confindustria) aveva lavorato intensamente. Non a caso, fatte le debite eccezioni, le Aziende sanitarie richiedono, pretendono dai professionisti che vi lavorano disciplina, rispetto scrupoloso delle indicazioni date dai manager. Pertanto, chi, fra i professionisti dipendenti, rendesse pubbliche critiche, opinioni in dissenso con le scelte aziendali, può essere sanzionato, punito.
    Dove vivo, a Mantova, ha fatto scandalo una lettera di protesta e denuncia sulla gestione della locale Azienda Ospedaliera, firmata da 90 professionisti, per lo più medici, ma anche infermieri, che però hanno preteso non si rendessero pubbliche le loro firme. Per evitare sanzioni.
    È qui la grande differenza “strutturale” con l’esperienza della mia generazione (quella che ha chiuso i manicomi dove lavorava e costruito i DSM) nella quale l’esercizio della critica, della denuncia anche pubbliche, non solo non era sanzionato, ma poteva essere titolo di apprezzamento dentro il luogo di lavoro, ma anche e soprattutto all’esterno, nei contesti della politica, delle amministrazioni locali, del sindacato.
    È l’aziendalismo a impedire, censurare le opinioni, le proposte in dissenso con le linee aziendali, obbligare alla cautela fino all’autocensura. All’aziendalismo è dovuto il silenzio degli operatori di oggi sulle questioni che li/ci appassionano e il fatto che siamo pressoché solo noi pensionati o vicini al pensionamento a parlare, discutere ad alta voce.
    Se a questo aggiungiamo gli scenari del possibile “regionalismo differenziato” preteso a gran voce dalla maggioranza delle Regioni, ci rendiamo conto dell’alto rischio della morte del Servizio sanitario nazionale come pensato nel 1978 e della sostituzione dello stesso con regimi aziendali attenti agli interessi delle assicurazioni di malattia e dell’ospedalità privata.

    2- La formazione dei professionisti e il governo dell’assistenza psichiatrica
    La formazione dei professionisti che andranno a operare nel Servizio sanitario nazionale (medici, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori professionali, tecnici della riabilitazione) avviene nell’Università.
    La libertà dell’insegnamento e della ricerca nelle Università sono garantite costituzionalmente. Ma i contesti in cui si svolgono gli apprendimenti dei corsi di laurea e di specializzazione sono quasi sempre “altri” rispetto a quelli in cui si svolge il lavoro nei Dipartimenti di salute mentale.
    Il Servizio sanitario nazionale non è autorizzato a rilasciare diplomi professionalizzanti; può e deve, invece, impegnarsi a organizzare, garantire la formazione continua “sul campo”. È questo un punto fondamentale che dovrebbe, secondo me, diventare oggetto di una severa contrattazione sindacale per arrivare a mettere nel contratto di lavoro il tempo, obbligatorio e remunerato, dell’aggiornamento professionale, della discussione del lavoro che si sta facendo, della verifica degli esiti dei trattamenti. Insomma, uno spazio di confronto, di libertà di espressione, di possibilità di cambiare idea, di critica e autocritica.
    Io, nel corso della mia vita professionale, dalla laurea, alla scuola di specializzazione, lavoro in manicomio, lavoro per uscirne insieme agli altri operatori ed alle persone che vi erano internate, ho cambiato opinioni, modi di guardare il mondo ed ho imparato ad ascoltare e apprezzare punti di vista altri rispetto ai miei. Penso che si debba avere fiducia che anche chi oggi è in formazione o al lavoro nei DSM sappia coltivare spirito critico, imparare anche a cambiare stile, modalità, finalità di lavoro in contesti diversi da quelli in cui è stato formato.
    Abbiamo bisogno, urgenza di una forte azione politica e sindacale per liberare il Servizio sanitario nazionale dalla cappa di un Aziendalismo che mortifica non solo la libertà di parola, ma anche quella di pensiero di chi ci lavora.
    Luigi Benevelli

    Mantova, 14 giugno 2021

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    • chiclana

      Carissimo Luigi, grazie per
      Carissimo Luigi, grazie per questo prezioso excursus storico, e questo quadro certo non esaltante ma purtroppo molto reale degli effetti dell’aziendalismo sui servizi. Si volevano immettere con questo innesto nel sistema imprenditorialità, coraggio, abitudine a rendere conto degli esiti. E forse si sono immessi soprattutto arroganza, opportunismo, servilismo. Ma, almeno, se aziende hanno da essere lo siano, e non si trascinino dietro oltre ai loro difetti anche quelli della situazione precedente, in particolare per ciò che riguarda i meccanismi di assunzione. Perché il gioco funzioni, hai ragione, sono indispensabili i contrappesi; nei Comuni come rappresentanti delle realtà locali, la società civile ecc. Credo che la discussione, quando è franca e trasparente, faccia sempre bene ai servizi pubblici, una discussione alla quale deve poter contribuire chi ne fruisce, come pure chi concretamente li eroga… Un abbraccio. Paolo

      Genova, 15 giugno 2021

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