Psichiatria inquieta e problematica
"La nostra impostazione scientifica fondamentale è di apertura verso tutte le possibilità dell’indagine empirica e di difesa dalla tentazione di porre, in certo senso, l’essere umano su un unico denominatore"
(K. Jaspers, Psicopatologia Generale)
"L’autentico movimento delle scienze ha luogo nella revisione, più o meno radicale e a se stessa trasparente, dei loro concetti fondamentali. Il livello di una scienza si misura dall’ampiezza entro cui è capace di ospitare la crisi dei suoi concetti fondamentali"
(M. Heidegger, Essere e Tempo)
Al di là dell’enfasi del sottotitolo, che tuttavia non è inutile in quanto consente perlomeno di chiarire la cornice "ideologica" (che ormai sembra essere diventata una bestemmia, ma senza ideologie, nel senso di teorie, non sono possibili le osservazioni) nella quale si muove chi scrive e quindi consente di meglio collocare le seguenti considerazioni, ovvero quella di una concezione ermeneutica, quindi, etimologicamente, inesauribilmente interpretativa della "verità" (e della ricerca di essa come circolo ermeneutico, in senso heideggeriano e gadameriano), ciò da cui muovono essenzialmente queste riflessioni è forse l’inquietudine epistemologica che mi sembra di cogliere nell’operare e teorizzare in psichiatria in questo nostro tempo. Un tempo che appare come tempo di "confine", in cui sentiamo tutta l’incertezza riguardo alla fondatezza e alle "fondazioni" della nostra disciplina, in cui sembra che si sia di fronte precisamente alla crisi tout court della sua fondazione come scienza dotata della sua specificità e particolarità e autonomia, come tempo in cui sembra riuscire a tenere solo la fondazione-unica delle neuroscienze e della cosiddetta psichiatria biologica (e questo è, a mio parere, il contrassegno non già di una propria forza placida e sicura di sé, ma di una crisi). Insomma partecipo pienamente di quello stato d’animo e di quella lettura storico-scientifica che ha fatto dire al Prof. Romolo Rossi che la psichiatria si avvia a confluire (o meglio a trasformarsi e quindi comunque a morire, perlomeno a una forma di se stessa) in una "neurobiologia a sintomi psichiatrici".
In detta articolazione/trasformazione della psichiatria mi pare d’intravedere il prevalere di un’esigenza fondazionalista della psichiatria stessa (certo, già in altri tempi stata, ma oggi apparentemente avviata verso un pieno trionfo) che vorrebbe porla in linea con il resto della medicina. Parrebbe allora un ossimoro evocare la crisi proprio laddove prevale un pensiero fondazionalista, ma è precisamente questo il mio personale avviso: il fondazionalismo di oggi interpretato come segno di una crisi statutaria, magari ipercompensata nella petizione di principio di fondazioni "certe" e "inoppugnabili" alle quali "ancorare" una volta per tutte una disciplina massimamente e (secondo me)costitutivamente "debole", molteplice, non-fondazionalista.
In realtà tale esigenza è, come detto, in linea con il resto della medicina, ma in controtendenza rispetto alla declinazione, non direi anti-fondazionalista, ma perlomeno non-fondazionalista della fisica contemporanea, che, già dal 1927, con Heisenberg, ha incocciato la "indeterminazione" e che da quei decenni a oggi è rimasta pazientemente -una vera e propria "posizione-pazienza"- divisa nelle due grandi teorie della Relatività e della Meccanica Quantistica, a tutt’oggi inconciliate (e la ricerca di una Grande Teoria Unificata è a tutt’oggi fallimentare). Tale inconciliabilità ha mantenuto e mantiene attualmente la fisica, regina delle scienze, in uno statuto "debole" di verità, legato a doppio filo con pallide "onde di probabilità" ("la nuova filosofia della fisica è umile ed esitante, laddove la vecchia era superba e dittatoriale. […] la fisica, che è la scienza fondamentale, sta minando tutta la costruzione della ragione applicata, e ci sta dando un mondo di sogni irreali e fantastici al posto dell’ordine e della solidità newtoniani", ammette, pur forse con rammarico, Bertrand Russell ne "La visione scientifica del mondo", 1931). Addio dunque -o perlomeno un arrivederci che però dura quasi da un secolo- alla certezza granitica della piena e risolta ed esatta decifrazione di ciò che è in natura e della natura. Chissà perché, di contro, la petizione di una piena e risolta ed esatta decifrazione permane invece nella medicina e nella medicina della psiche; una posizione questa che, rispetto a quella della fisica contemporanea -"debole" poiché, a differenza della fisica newtoniana "forte", assume nel proprio orizzonte l’indeterminazione dell’osservazione, il relativismo dei sistemi di riferimento e le distribuzioni di probabilità- rappresenta una posizione di retroguardia, laddove viene invece fatta passare come una posizione "avanzata", che si libera di inutili "anacronismi".
Cosa intendo perciò dire quando propongo che lo scontro — peraltro al momento assolutamente impari per forze in campo — tra psichiatria biologica e un’altra psichiatria che chiamerò "non-meramente-biologica" e che evidentemente si presenta come assai composita, non sia che il rivestimento dello scontro tra diversi statuti della "verità", scontro che sicuramente si colloca su un più ampio sfondo di passaggio di età o epoche, ma che si può incontrare in generale nella lunga storia dello stesso concetto di "verità"?
Cercherò di rispondere ponendo innanzitutto in chiaro ciò che voglio intendere connotando la psichiatria biologica e il paradigma neuroscientifico come espressione di una "concezione forte" di "verità psichica e psichiatrica" e la psichiatria non-meramente-biologica come incarnazione "debole" o "debolista" di una scienza della psiche.
Il carattere "forte" di un progetto di risoluzione (e dissoluzione, forse) della psichiatria unicamente nel suo côté medico-biologico e neuroscientifico viene qui indicato come "forte" proprio perché, a mio parere, rimanda, per vie traverse, alle concezioni cosiddette "forti" della verità, a quel filone del pensiero occidentale che identifica la verità sia con l’intrinseca luminosità e intelligibilità dell’essere ("verum est quod est"), sia con la corrispondenza della mente conoscente alle cose ("adaequatio rei et intellectus"), pervenendo così ad affermare la plausibilità, o meglio la necessità, di una scienza della verità (anche se si tratta di una "verità" che si vorrebbe in origine empirica). Com’è possibile, si obietterà, che ciò che nasce da una concezione della conoscenza valida come esperienza sottoponibile sperimentalmente a verifica (verificazionismo) o a smentita (falsificazionismo) venga qui identificato col suo esatto opposto, ovvero con uno statuto forte di verità e con una petitio principii di verità? Qualsiasi paradigma che intenda porsi come "unico" fa implicitamente ma ineludibilmente riferimento a una scienza della verità, in cui tale verità è intesa come ciò che non può che avere una forma unica e universale, attingibile attraverso una tecnica valida, che se è valida esclude la validità di altre che non conducano a quella verità così intesa. E’ vero che un’acquisizione di questo tipo può essere sostituita da un’altra più valida, ma ciò sempre all’interno del suo "paradigma", della sua antepredicativa e pre-giudizialeattribuzione di significatività e validità. Come a dire che un fatto neurochimico può essere sostituito solo da un altro fatto neurochimico.
La "verità" biochimica e neuroanatomica è, a mio avviso, fondamentalmente una verità aristotelica, vale a dire una verità che sta finendo per porsi come assoluta e indivisibile, una verità che vale per tutte le longitudini e latitudini (non esisterebbe autenticamente alcuna etnopsichiatria per questa impostazione, se non per curiosità folkloristica), perché pretende di scoprire la "essenza necessaria" e quindi la "sostanza" vera di ciò a cui ci riferiamo quando nominiamo lo "psichico" e le sue articolazioni distorsive, le sue "malattie" o i suoi "disturbi". Insomma c’è alla base di un modello esclusivamente biologico una sorta di fede nel proprio principio che, in quanto si pone, al di là delle cautele apparenti e "pubbliche", come l’unica davvero valida (vera), si propone per l’appunto come fede, e dall’aristotelismo, invece che verso un empirismo autentico, muove verso un platonismo mascherato, nel quale vuole tornare a dispiegare, senza esserne del tutto o senza esserne affatto consapevole, pienamente e nuovamente la categoria metafisica della Verità (con la V maiuscola) attraverso il rinvenimento della "forma" essenziale —quella presuntamente "autentica" che non rincorre "fantasmi" o "fantasticherie" soggettivistiche- dell’accadere psichico e psicopatologico. Cos’è tuttavia se non un passare dal dato di fatto alla sua ipostatizzazione quello per cui da un rilevo neurochimico come il deficit di alcuni sistemi neurotrasmettitoriali o la up/down regulation di alcune popolazioni recettoriali si "risale" al suo tout court "esserela" condizione patologica associata (una sorta di implicita, usando il linguaggio della semiologia, identificazione fra il segno e il suo oggetto, tralasciando a bella posta gli altri due termini semiologici essenziali, l’interpretante e l’interprete, e la loro conseguente "semiosi illimitata"), credendo così di aver sbaragliato altri modelli esplicativi e comprensivi o considerandoli alla stregua di anacronistiche, magari aneddotiche, testimonianze di un ideale museo di chincaglierie della psichiatria? Non mi sto qui ovviamente riferendo alle esplicite dichiarazioni d’intenti di tale psichiatria, ma a ciò che trasluce attraverso un simile impianto (ricordiamo il Gestell heideggeriano, la Tecnica come "impianto" come "im-posizione") che ormai solitario e unico si avvia a essere il divide et impera della psichiatria.
Preciso che a mio modo di vedere in tali trappole cade o cadrebbe qualunque visione "monista" e "onniesplicativa", anche quelle che pretenderebbero -e che in passato hanno preteso- di concepire e decifrare in termini unicamente psicogeni (a esempio, quella psicoanalisi che si propone come impianto di lettura totale e unitaria dello "psichico") o unicamente "socio-iatrici" (l’antipsichiatria) l’universo psicopatologico.
La lettura unilaterale e monista dello psichico e delle sue variazioni considerate aberranti, proponendosi come unica "davvero" valida (e quindi vera, al di là delle cautele di facciata), rischia costantemente di scadere nell’ipostatizzazione del factum o dell’oggetto eletto a fatto significativo (nel caso della lettura neuroscientifica consistente nel fatto neurochimico ed eventualmente neuroanatomico, se e quando verrà rinvenuto, cioè nelle "condizioni di stato" associate a un determinato stato mentale) e quindi di tralignare nella mitologia e nel mitologema. E questo non è empirismo, come vorrebbe quello statuto, ma misticismo ed essenzialismo travestiti.
Certo Quine, nell’ambito di una concezione della verità intesa unicamente come utilità, ci ha detto che per lui, "fisico laico", sia gli oggetti fisici che gli déi di Omero sonoegualmente oggetti "mitici", "intermediari convenienti" introdotti unicamente per prevedere l’esperienza futura alla luce di quella passata; ma "il mito degli oggetti fisici" è pur sempre, a suo avviso, "epistemologicamente superiore a tutti, in quanto si è dimostrato più efficace di altri miti come espediente per erigere una struttura di cui fare uso nel flusso dell’esperienza" ("Two Dogmas Of Empiricism", 1951). Insomma ciò che unicamente si può dire intorno a questi oggetti consiste, per Quine, nel discutere intorno a quali possano risultare più utili in una visione "laicamente" strumentale delle visioni del mondo. Al di là di questa impostazione radicalmente "funzionalista" (ponendo qui invece come fari della riflessione Heidegger e i pensatori da lui derivati), essa è stata qui riportata a mo’ di esempio di quello che altro non è se non un altro modo "debole" d’intendere la verità, ma che l’attuale "fede" neuroscientifica in psichiatria fondamentalmente, a mio parere, tradisce. Infatti, nel suo proporsi attuale e futuro prossimo come orizzonte unicamente valido, essa disconosce fondamentalmente il carattere critico dell’empirismo, il quale è tradizionalmente collegato con il riconoscimento della limitazione dell’indagine, della sua parzialità e imperfezione costitutive ed è, infine, sostanzialmente, un’istanza scettica, per cui, portato alle sue estreme conseguenze, un autentico empirismo dovrebbe poter essere anche critico a se stesso, non solo, che è ovvio, ai suoi risultati, ma anche alle proprie fondazioni epistemologiche (che è proprio il tentativo del neo-empirismo criticamente orientato, contingente e costruttivo della Hesse, di Shapere e di van Frassen). E’ tale è nelle scienze autenticamente avanzate, prima fra tutte la già citata fisica contemporanea; ma non mi pare sia così nella medicina e nell’attuale "petizione di scientificità assoluta" della psichiatria, in quanto, almeno nella maggior parte dei suoi protagonisti (non abbiamo purtroppo ancora avuto, in medicina e nella psichiatria biologista, i nostri Einstein o i nostri Heisenberg), si riferisce a una scientificità epistemologicamente sorpassata, attardata su posizioni vetero-positivistiche, su un ideale "ragionieristico" di scienza. L’empirismo come pura fedeltà ai solifatti neuroscientifici nell’attuale psichiatria finisce per convertirsi in un nuovo razionalismo di stampo leibniziano, in un massimo sistema, con la sua esclusione, implicita o di fatto, dall’orizzonte psichiatrico di altre letture e di altri "modi" di linguaggio. Del resto abbiamo presente la pungente ma efficace affermazione di Feyerabend "la richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivano dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria" ("Contro il metodo", 1975).
Allora quali sono le concezioni autenticamente "deboli" in psichiatria? Dove si situa o vive un "pensiero debole" in psichiatria? In qualunque visione o concezione non-unica, in qualsiasi visione "spuria" della psiche e della sua scienza, in una psichiatria che si connota, mutuando un’immagine, riferita ad altro contesto, di Vattimo, teorico del pensiero debole, come una "biblioteca di Babele", volendo suggerire con tale immagine la scena di una psichiatria che si muova — e non possa che muoversi - , non in uno spazio naturale astratto, ma in un contesto o in una rete costituita dalla molteplicità delle voci della sua tradizione e della sua attualità.
Questa concezione "debolista" della psichiatria vorrebbe, sulla scia di Heidegger e Gadamer, che le sue "verità", intese come conformità, rimandassero piuttosto alla concezione della verità come "apertura", ossia a quella verità per la quale "le" verità hanno sempre bisogno di un orizzonte che le renda possibili; orizzonte che coincide col determinato universo storico-culturale che esprime quelle "verità" (una sorta di trasposizione e traduzione del Principio d’Indeterminazione dalle condizioni sperimentali dell’osservazione agli orizzonti storico-culturali in cui l’osservazione si rende possibile). Alla Verità come Assoluto, implicita e talvolta mascherata nelle concezioni "forti", si oppone la verità come "darsi" storico-epocale delle visioni "deboli", come heideggeriano donarsi e sottrarsi storico-epocale dell’essere/verità nella forma dell’ "evento" (Ereignis). Alla luce di quest’ultimo modo d’intendere la verità, anche il prevalere di un determinato paradigma in un certo momento storico altro non è se non il particolare modo di "darsi" (di "donarsi"), in quel momento e in quell’epoca, dell’apertura dell’essere che Heidegger identifica con la verità, l’essere non inteso come statica presenza (come semplice-presenza), ma, appunto, come storico accadere.
Viene in mente il memorabile confronto che ebbe luogo negli anni Cinquanta tra Junger e Heidegger nel dialogo "Oltre la linea" (1950, 1955) riguardo al nichilismo contemporaneo e alla possibilità di superarlo. Oggetto del contendere era la "linea" del nichilismo, cioè il limite cui la nostra epoca è giunta, il "meridiano zero" oltre il quale non valgono più i vecchi strumenti di navigazione e dove lo spirito del tempo è in affanno. Mentre per Junger le élites spirituali dovevano andare in avanscoperta e oltrepassare la linea, Heidegger riteneva che prima di voler superare il nichilismo fosse indispensabile coglierne l’essenza, comprendendo che esso non è semplicisticamente una "macchinazione" dell’uomo, ma un evento che appartiene alla storia dell’essere stesso, al suo donarsi e sottrarsi nelle diverse "aperture" storico-epocali. Ciò che si vuole proporre è un’analogia del momento attuale della psichiatria con quello discusso in "Oltre la linea", in base alla quale la psichiatria sarebbe oggi giunta a una sorta di "meridiano zero" rispetto alla propria costituzione specifica e autonoma, a una linea al di là della quale è possibile anche che vi sia il "nulla" (il nichilismo) della psichiatria, ovvero il suo diventare "altro". Ma il paradigma (in senso kuhniano) o, se si preferisce, l’episteme (in senso foucaultiano), neuroscientifico della psichiatria, attualmente prevalente, non è detto che sia una linea da oltrepassare come intende Junger, ma può piuttosto essere, come intende Heidegger a proposito del nichilismo, un evento storico-epocale della scienza della psiche al cospetto del quale stare, non obliando che esso è sì prevalente, ma non (ancora) unico, a testimonianza che un’epistemologia della complessità in psichiatria non può non essere anche un’epistemologia della pluralità. Se la "verità" della psichiatria, qui identificata heideggerianamente con l’accadere "eventuale", storico-epocale dell’essere-psichiatrico, si "dà" (si "dona") come "verità" neuroscientifica, ossia come progetto neuroscientifico della psichiatria, è vero anche che in altri momenti essa si è data (donata) altrimenti. Si dona e si sottrae come si è donata e sottratta, perché solo nel gioco di donazione e sottrazione -poiché è vero che, donandosi ora come "questo", si sottrae al tempo stesso come "quello"- essa si "impone" ("chi comprende è già sempre in un accadere in cui un determinato senso si fa valere" per Gadamer, "Verità e metodo", 1960).
Ciò per dire, e ancora ci rifacciamo a Gadamer, che qualsiasi crociata a favore del pensiero unico e forte deve fare i conti con una concezione della "verità" — e del linguaggio in cui essa si manifesta —come "evento" di cui l’uomo non è il soggetto trascendentale, ma il tratto empirico e storico-finito.
Ma allora a quale psichiatria intendo riferirmi come contraltare "debole" di questo paradigma "forte" che è a mio parere annuncio e auspicio di trapasso della psichiatria? A una psichiatria che si ponga al cospetto e all’altezza della sua inesauribile problematicità, che resista alla tentazione di assolutizzarsi nell’asfittica struttura del paradigma unico; a una psichiatria che certo sappia riconoscere anche in quel prevalere del paradigma neuroscientifico l’accadere epocale, prima di tutto storico, di un "modo" della verità, ma che non esclude l’accadere, in altre epoche, di altri modi della verità. E il "passato" della psichiatria, in un’accezione heideggeriana di tempo autentico, non può avere solo il semplice senso di "ciò che è stato e ora non è più" adatto al mesto laudator temporis acti, ma di ciò che deve essere continuamente assunto e ri-assunto in un virtuoso circolo ermeneutico che si prospetta l’avvenire (l’ad-veniente) attraverso quel continuo ritornare-su che mette alla prova i propri pre-giudizi, non qui intesi nella loro accezione negativa ma in quanto pre-comprensione originaria, orizzonte aperto e disponibile da cui non ci si deve, né ci si può, liberare. Non si tratta quindi, di fronte alla predominanza neuroscientifica, di opporre un rifiuto o un arretramento nella difesa disperata di chissà quale ridotta teorica, ma di attingere a una consapevolezza di quel movimento inflazionistico-deflazionistico e virtuosamente circolare della verità/essere consistente heideggerianamente nel suo darsi epocale in forma di "evento", e nell’allocarsi in una heideggeriana posizione di "ascolto".
Mi preme di chiarire che non si vuole qui mettere semplicisticamente sotto qualsivoglia stato di accusa il paradigma neuroscientifico della psichiatria in quanto tale, poiché anch’esso, proprio in quanto vogliamo essere fedeli a un programma "debole" di verità, deve essere riconosciuto come utile e ineludibile testimonianza storico-epocale oltre che strumento euristico rimarchevole, ma piuttosto cercare di porre in luce, dis-velare (licht e Lichtung, luce e diradamento o radura, heideggeriano gioco di chiarore e di oscurità in cui sempre insieme si manifesta la verità, ovvero l’apertura dell’essere) l’esigenza in esso operante di una concezione forte della verità applicata al campo d’indagine della psiche e delle sue aberrazioni intese come patologia, all’insegna di uno scontro, contemporaneo ma di antiche radici, fra statuti antagonisti della "verità", e il suo attuale rischio di ipostatizzazione e quindi di capovolgimento delle sue premesse.
Come la "verità" dei filosofi, a cominciare dal sogno platonico di un "mondo vero", antitetico al nostro mondo apparente e mutevole, è nient’altro che un tentativo di sfuggire agli aspetti caotici e medusei dell’esistenza ("logicizzazione, razionalizzazione, sistematizzazione come sussidi della vita", Nietzsche, Frammenti Postumi), così i tentativi di sincretismo teorico-pratico della psichiatria sotto le insegne trionfali di un paradigma unico appaiono come la ricerca tutta umana di una "verità" della psiche e dei suoi fenomeni che non si contraddica, che non illuda, che non cambi, che non ci metta in scacco con le sue eventuali irriducibilità. Ancora con Nietzsche si può dire allora che tale ricerca di unilateralità totalitaria risponde a una "volontà di verità" che è "desiderio di un mondo permanente", mondo permanente che il mondo dello "psichico" non può mai essere. Se qualcosa si può affermare intorno allo psichico è proprio che esso è il non-permanente.
La tesi intorno alla "verità" qui difesa non vuole neanche essere un auspicio di sbarazzamento nichilistico della verità. Il confronto fra concezioni forti e concezioni deboli testimonia piuttosto la continua problematicità ma anche la centralità di tale questione. La verità (e lo scontro di paradigmi, prima di essere meramente metodologico, non è altro che il mascherato scontrarsi di concezioni della "verità") continua infatti a inquietare le menti, senza contare, come scrive Giovanni Fornero ("Dizionario di filosofia", 1998), che "ogni teoria della (presunta) fine della verità tende pur sempre a configurarsi come un altro modo di dire la verità sulla verità (o sulle verità)".
La psichiatria, se vuole mantenere una propria specificità e dignità di scienza peculiare, al crocevia di diversi saperi e di scienze naturali e scienze storiche (o, come si diceva una volta, scienze dello spirito), non può a mio parere non essere anche una sorta di ermeneutica, intendendo con questo termine la lettura che la psichiatria deve dare della sua stessa storia come la storia di "verità" (e di schemi e di paradigmi di decifrazione dello specifico psichico) inseparabili dalla loro molteplicità storica e temporale, ovvero di verità inseparabile dalle sue diverse e multiple formulazioni storicamente date e dalle loro interpretazioni ("le osservazioni […] sono sempreinterpretazioni di fatti osservati; sono interpretazioni alla luce di teorie", Karl Popper, "Logica della scoperta scientifica", 1934, 1959). Se poi ciò rimandi comunque a una Verità ultra-temporale e ulteriore, di cui le varie formulazioni storiche e i diversi linguaggi storicamente determinati costituirebbero il successivo (secondario) "inverarsi", (come vorrebbe il Pareyson di "Verità e Interpretazione" e in genere quell’area chiamata "destra ermeneutica"), o, al contrario, escluda risolutamente la presenza di una Verità sostanziale, metafisica e meta-empirica, da cui discendano le verità storicamente date, (alla maniera di Rorty, di Derrida e della "sinistra ermeneutica"), questo lo deciderà ognuno per proprio conto a seconda di quanto abbia in simpatia o in uggia le coloriture metafisiche e a seconda di quanto ritenga tollerabile o intollerabile l’epoché della verità.
A mio modo di vedere è proprio l’indubbia sussistenza di un conflitto epistemologico fra concezioni "forti" e concezioni "deboli" della verità (e quindi, nel nostro caso, tra visioni monistiche e visioni integrazionistiche e sovradeterministiche della psichiatria) a deporre a favore di uno statuto debole, relativista (a dispetto degli anatemi tanto di moda oggi nei confronti dei relativismi), poiché proprio nel riconoscimento della plausibilità sia di concezioni e progetti forti della psichiatria che di attestazioni "deboli" delle limitazioni in cui si scontrano "in vivo" tali progetti, si annuncia il carattere indefettibilmente problematico e inquieto della psichiatria. E’ proprio la salvaguardia della possibilità di una concezione forte e del suo scontrarsi con l’altrettanto plausibile concezione "debolista" che fa il gioco di quest’ultima, in quanto riconosce come paritetiche e come esistenti diverse tensioni e nello scontro non fa che attestare l’attuale, indubbia sovradeterminazione dei paradigmi di cui la psichiatria ha da tener conto. Non di cui "può", ma di cui "ha" da tener conto, perché, parafrasando Heidegger, potremmo affermare che tale problematicità è quel "poter-essere" che la psichiatria "ha-da-essere". Vale a dire, che non può non essere.