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Gravi complicazioni della “normalità” psichica

8 Ott 12

Di nanni.sabino

I — Condizioni di "grave normalità"

Molti pazienti gravi, spesso candidati ad una morte precoce, presentano una particolare combinazione di fattori che rende, di regola, difficilmente curabile o incurabile ciò che sta alla radice del loro male. Si tratta di persone che il senso comune giudica mentalmente "normali" e che, in effetti, nelle manifestazioni esteriori del pensiero e dell'affettività, nelle relazioni interpersonali e nelle capacità di adattamento alle usuali situazioni, presentano una parvenza di perfetta "normalità". Eppure, non può che essere una sofferenza di carattere psichico a produrre quell'insieme di comportamenti abituali che pone costoro in condizione di grave rischio riguardo alla salute corporea: dipendenza da nicotina, abusi alcolici, disordini alimentari, ricerca attiva di situazioni stressanti (eccessi, a carattere compulsivo, di lavoro e/o di attività fisica o sessuale); comportamenti di regola accompagnati ed aggravati da una particolare facilità con cui si producono, in loro, scompensi somatici in rapporto a stressor emozionali. Ciò che maggiormente ostacola, in queste persone, il trattamento di una sofferenza mentale così grave nei suoi effetti, sono la repulsione e l'evitamento a carattere fobico di tutto ciò che implica, ai loro occhi, un allontanamento dalla condizione di "normalità" psichica: innanzi tutto l'avere a che fare con uno psichiatra. La presenza dei comportamenti abituali patogeni visti sopra (tutti con il carattere della "addiction"), la parvenza di "normalità" psichica ed il terrore di doversi riconoscere "anormale" appaiono legati tra loro da un nesso logico. È quanto sembrano suggerire alcuni casi, tra cui quello che sto per descrivere.

 

II — Il caso di Daniela

All'inizio di un trattamento reso disagevole dalla distanza della sua città, e tuttavia protrattosi nei successivi dieci anni, Daniela comunicò una strana impressione: le sembrava che il trovarsi nel mio studio in veste di paziente psichiatrica (si tratta di una Collega) fosse per lei penoso più dei disturbi che ce l'avevano portata. E questo nonostante il carattere particolarmente spiacevole del suo malessere: gli ultimi due anni, infatti, avevano trasformato una ragazza sino allora forte, sicura di sé e soprattutto "normale" (l'aggettivo più ricorrente nelle descrizioni di se stessa) in una persona "fuori di sé", incapace di vivere senza consumare quantità "inaudite" di sigarette e di cibo (soprattutto dolci) o senza impegnarsi in uno "jogging" frenetico, estenuante; e senza poter fare a meno di veder erompere, a tratti, la sua tensione in attacchi di panico per lei sconvolgenti.

La vita precedente di Daniela si era caratterizzata soprattutto per stabilità, anche riguardo al luogo di residenza: prima di trasferirsi in questa parte d'Italia, non si era mai allontanata dalla "terra natia" se non per diporto e per brevi periodi. Vivendo in una città universitaria, infatti, aveva potuto portare a compimento i suoi studi (laureandosi in Medicina e specializzandosi) senza separarsi dalla famiglia d'origine. Le sofferenze della paziente erano iniziate due anni prima d'incontrarmi, subito dopo aver trovato lavoro ed essere venuta ad abitare da queste parti. Eppure a Daniela non sembrava di avere un particolare rapporto di dipendenza dai familiari: la sorella maggiore, infatti, viveva fuori casa già da tempo e alla paziente non pareva di averne sentito la mancanza; quanto ai genitori, erano sempre stati entrambi fortemente impegnati nella loro attività di Medici Ospedalieri e Daniela, affidata fin dalla prima infanzia a persone di servizio e ad un'anziana parente (una prozia), aveva ben presto imparato ad essere "autonoma" (altro aggettivo spesso usato dalla malata nella descrizione di ciò che lei era nel passato). Ricordi penosi di solitudine e tormentosa mancanza dei genitori emersero solo più avanti nell'analisi; all'inizio Daniela poneva soprattutto in evidenza la sicurezza di sé e (appunto) la "autonomia" precocemente acquisite: adattatasi prontamente all'ambiente scolare, la paziente si era rifiutata fin dall'inizio di farsi accompagnare a scuola dagli adulti. Studiava, con eccellenti risultati, senza l'aiuto di nessuno; ricorda, in particolare, i pomeriggi passati a fare i compiti nell'ambulatorio, adiacente alla loro abitazione, dove i genitori lavoravano, dandosi il cambio l'un con l'altro, dopo aver terminato le loro ore in ospedale: la madre o il padre erano a pochi passi di distanza, ma Daniela non poteva rivolgere loro la parola e neppure vederli e così aveva imparato molto presto a non chiedere aiuto a nessuno nei suoi studi. Le persone che si trovavano in sala d'attesa la vedevano e tutti le facevano i complimenti per quanto diligente e giudiziosa si dimostrava passando così tante ore, pur così piccola, a scrivere ed a leggere senza mai muoversi né fare chiasso. Nella narrazione della paziente, non vi era stata soluzione di continuità nel passaggio dall'infanzia all'adolescenza e da questa all'età giovanile; colpiscono soprattutto, nel suo resoconto, l'assenza di trasgressività e di conflitti coi genitori, oltre che la superficialità dei rapporti sentimentali (Daniela mi aveva anche rivelato di non provare alcun piacere nel fare l'amore col fidanzato di allora, né con quelli che l'avevano preceduto). La sua vita era quasi interamente dedicata allo studio, già in preparazione di quella che si preannunciava come la sua unica grande passione: la Medicina. Un'esistenza, dunque, vissuta all'insegna della morigeratezza e della "normalità"; unici vizi: il consumo di una quantità allora modesta di sigarette e la tendenza, di tanto in tanto, ad esagerare col cibo, cosa che compensava con ragionevoli diete e con attività sportive.

Daniela, nei primi tempi del trattamento, parlava volentieri, e con sentimenti di viva nostalgia, del suo passato; ma appena pensò di aver esaurito la descrizione del suo modo d'essere precedente la malattia e passò a parlare di questa, si fecero evidenti grosse difficoltà di comunicazione. Innanzi tutto, non poteva fare a meno di usare termini tecnici, cosa che le impediva di entrare in contatto, in seduta, con l'esperienza vissuta e soprattutto con le proprie emozioni. Invitata, poi, ad associare liberamente in rapporto ai sogni o ai sintomi, esprimeva, ogni volta, perplessità riguardo alle sensazioni ed ai pensieri "assurdi" che attraversavano la sua coscienza; non riusciva ad avere pazienza nel lavoro che le chiedevo, in collaborazione con me, allo scopo di scoprire il senso di quanto diceva. Se poi, nonostante tutte le difficoltà, si arrivava a qualche parziale, provvisoria ipotesi interpretativa, immediata ed immancabile era la sua domanda: "E allora, cosa devo fare?" Quasi che lo scopo del lavoro analitico fosse la prescrizione, da parte mia, di comportamenti che avrebbero dovuto farla rientrare nella "normalità". Spesso le sue associazioni d'idee erano puramente cerebrali o riguardanti fatti concreti della vita quotidiana, senza alcun riferimento ai sentimenti che essi potevano averle suscitato; parlava svelta, senza pause, cercando d'evitare di "perdere quel tempo per cui mi stava pagando", come mi disse esplicitamente più di una volta, quasi che questo fosse il modo più vantaggioso d'utilizzare i 45 minuti che io mettevo a sua disposizione in cambio dell'onorario. Divenne chiaro che Daniela immaginava che la durata della sua malattia avrebbe coinciso perfettamente con quella della cura e che, simultaneamente alla fine di questa, si sarebbe verificata, come "di colpo", la sua guarigione. La sua fretta di rientrare nella "normalità" e nella "autonomia" era grande ed a nulla servivano i miei tentativi di spiegarle che, in quel modo, il tempo l'avrebbe perso e non risparmiato.

Un altro modo di (non) chiedere aiuto, compariva nelle crisi di agitazione che presto presero il posto degli attacchi di panico. In queste circostanze, il cui fattore scatenante era di regola una mortificazione o una mancanza di riguardo subite, l'emotività di Daniela, di solito repressa o ignorata, diveniva esplosiva e, per fronteggiarla, mi chiedeva, di solito, una o più sedute supplementari. Chiamava questi miei interventi straordinari "sfoghi" che le concedevo, e ne aveva ben donde: commenti o riflessioni su quanto aveva detto (insomma, un mio intendere le parole da lei pronunciate come forma di comunicazione) venivano sistematicamente respinti, soprattutto se tentavo di riprendere con più calma ed a distanza di tempo l'argomento. Quanto faceva o diceva in quelle circostanze aveva, quindi, la pura funzione di "evacuare" i sentimenti spiacevoli; il suo pianto, ad esempio, pareva sempre esprimere rabbia in cerca di "sfogo", anziché dispiacere in cerca di consolazione.

A dispetto di tutte queste difficoltà, il trattamento di Daniela produsse presto miglioramenti sorprendenti: gli attacchi di panico scomparvero del tutto in poche settimane (anche in rapporto al SSRI che avevo integrato nella cura), dopo qualche mese le "addiction" e le attività "autocalmanti" [17] iniziarono a presentarsi meno virulente; infine, fatto particolarmente clamoroso, nel corso di un flirt durante le vacanze, Daniela ebbe il primo rapporto sessuale soddisfacente della sua vita. Eppure, di fronte a questi progressi, la paziente si comportava in modo paradossale: pur attribuendoli alla cura, non manifestava nei confronti del sottoscritto alcuna forma di riconoscenza; anzi, la sua fretta di rientrare nella "normalità" e, quindi liberarsi del terapeuta, non ne risultò minimamente diminuita: Daniela non perdeva occasione per esprimere "quanto le pesasse" venire da me e che il trattamento fosse così lungo.

Due interpretazioni, le prime che Daniela dimostrò chiaramente d'aver capito, diedero una svolta decisiva alla sua analisi. La prima riguardava il comportamento paradossale descritto poc'anzi. Le dissi che con me riproduceva la stessa situazione coi genitori quando faceva i suoi compiti nel loro ambulatorio: anch'io, come loro, mi trovavo a pochi passi da lei ed anche con me non c'era un vero incontro (delle sue emozioni con le mie, nel nostro caso), eppure la mia sola vicinanza materiale, come allora quella del padre o della madre, era sufficiente a darle la calma necessaria per poter organizzare e far progredire la sua vita; e questo in un modo pressochè autonomo, che quasi le dava la possibilità di dimenticare il mio apporto. Le aggiunsi che probabilmente il motivo per cui evitava un vero e proprio contatto con me, come allora coi genitori, era una sua grande paura d'essere respinta e non capita; paura che, sentendo il pericolo d'incomprensioni mai del tutto scongiurato, spiegava anche la sua fretta di ritornare completamente "autonoma" e liberarsi di me. Nella seduta seguente, Daniela ritornò su alcuni temi che aveva già toccato: innanzi tutto, il ricordo tormentoso di quando, molto piccola, veniva esiliata d'estate dai genitori in una loro casa di montagna isolata, in compagnia soltanto della vecchia zia. Ricorda che il padre e la madre l'accompagnavano in quel luogo in macchina e che spesso, approfittando di un suo momento di distrazione, se ne andavano furtivamente. In un'occasione aveva sentito che avviavano il motore, era corsa da loro chiamandoli disperata, ma aveva fatto in tempo solo a vedere il retro della macchina che s'allontanava, inesorabile. In quel periodo, c'erano stati incendi nei boschi vicini e Daniela, assillata dalla paura che le fiamme arrivassero alla casa, temeva che, lei così piccola e la zia così debole e lenta, non sarebbero riuscite a fuggire e a salvarsi. In secondo luogo, Daniela ritornò sul fastidio delle proprie spontanee sensazioni (sia quelle che le chiedevo di descrivere nelle libere associazioni, sia quelle che emergevano nelle crisi d'agitazione e che "evacuava" nei suoi sfoghi) e sulla "assurdità" della mia "pretesa" che lei si soffermasse o tornasse su tali "insensatezze". Menzionò, infine, una crisi di "voracità" di dolciumi in cui era ricaduta. Le dissi che aveva qualche ragione di criticare la mia "pretesa" che si occupasse delle proprie sensazioni: in realtà, prima ancora delle sensazioni di per sé, aveva bisogno che affrontassimo insieme il "fastidio" che esse le ispiravano; non farlo avrebbe significato lasciarla da sola in una situazione incontrollabile, quasi come rimetterla di nuovo nella casa isolata di montagna ad affrontare da sola, senza aiuto, le fiamme "voraci" del proprio bisogno frustrato e della rabbia verso i suoi genitori. Un silenzio insolitamente lungo mi parve sottolineare una vicinanza emotiva che si era chiaramente creata tra noi in quell'occasione.

Le interpretazioni appena esposte permisero di iniziare a ricostruire che cosa in Daniela aveva preparato la malattia e cosa aveva scatenato il suo esordio. Con il suo trasferimento fuori casa, per la prima volta nella sua vita Daniela era uscita da quella situazione familiare (riprodotta in parte nel rapporto transferale) che, nell'atto stesso in cui offriva un sostegno alla sua vita soggettiva (dandole la calma ed il senso di apparente autonomia e di sicurezza che le occorrevano per occuparsi delle sue cose), le imponeva un comportamento, in realtà, non spontaneo, inautentico: la bambina quieta e giudiziosa che diligentemente faceva i suoi compiti senza mai disturbare i genitori o i pazienti dell'ambulatorio. Daniela finì per convincersi di essere davvero quel tipo di bambina, ma i suoi bisogni di vicinanza emotiva (oltre che la rabbia per le frustrazioni subite) rimasero inespressi e inappagati. La sua appartenenza al gruppo familiare (il gruppo delle persone "normali", "autonome", che lavorano e non "disturbano", com'era negli ideali dei genitori) le offriva una potente rassicurazione dalla paura di essere un "nulla", di non avere posto al mondo. Si trattava, tuttavia, di una relazione "adesiva", vale a dire efficace solo per la presenza materiale dei familiari, ma priva di interazioni più vere e durevoli, ovverosia capaci di regolare le sue tensioni emotive in modo adeguato, senza reprimerle in modo massiccio e senza imporle una falsa natura; interazioni che avrebbe potuto gradualmente interiorizzare. Quella che Daniela riteneva fosse la sua perduta "autonomia" era in realtà, in ordine di tempo e d'importanza, la prima "addiction" da cui sarebbero derivate tutte le altre: l'appartenenza, a carattere "addictive", al "gregge" dei "familiari-persone-autonome-normali". Allontanatasi da casa, uscita dal gruppo originario (che ho definito "gregge" per sottolineare il carattere anonimo, poco definito sul piano umano, del modo con cui si presentavano coloro che vi appartenevano), di fronte al compito di padroneggiare le proprie emozioni la paziente si scoprì sprovvista delle risorse interiori che sarebbero potute derivarle da relazioni familiari più autentiche, oltre che incapace di nuove, valide relazioni di un genere che non aveva mai conosciuto. Il primo disagio della solitudine, incontrando l'ottusità e la freddezza dei familiari (ormai lontani da lei da tutti i punti di vista), scatenò una "crisi d'astinenza", dovuta alla brusca sottrazione di ciò che sinora l'aveva protetta dall'angoscia; Daniela, per fronteggiarla, non poté che spostare la sua "addiction" su altri oggetti e comportamenti: le circa cinquanta sigarette al giorno, le crisi di "voracità" (fino ad arrivare a veri e propri episodi di "binge eating") il "jogging" compulsivo, ecc. Tuttavia, come s'è detto, ciò non bastava a tamponare l'angoscia ed essa, talora, si manifestava acutamente in quella forma primitiva ed imperfettamente mentalizzata che è l'attacco di panico.

Approfondendosi e sviluppandosi il rapporto di traslazione, emersero in Daniela l'aggressività ed i bisogni narcisistici inappagati sino allora nascosti dalla maschera di "bambina quieta e giudiziosa" o soffocati dai vari tipi di "addiction". Questa svolta fu preannunciata dall'assegnazione a me, con gli "sfoghi", di una funzione di "tampone" sulle emozioni esasperate di umiliazione e rabbia quali risposte alle ferite narcisistiche che le capitava di subire; funzione che, divenuta in parte un'alternativa alle varie forme di "addiction", contribuì a ridurne l'intensità e la gravità. Più avanti i bisogni emotivi e la suscettibilità di Daniela si spostarono gradualmente e infine si polarizzarono sul sottoscritto: per periodi anche discretamente lunghi iniziò ad avanzare pretese a non finire (di spostamento d'orario delle sedute, di sedute da lei saltate che a suo avviso non avrebbe dovuto pagare, di sedute straordinarie che avrei dovuto concederle immediatamente, appena richieste, ecc.) con nessuna considerazione per la mia reale possibilità di soddisfarle (e neppure per le mie più ovvie esigenze personali) ed assoluta intolleranza per la benché minima frustrazione. Quando la situazione cominciava a divenire intollerabile, anche per l'irritazione di cui non le facevo mistero, quasi sempre, nella seduta successiva, interveniva in Daniela un disturbo fisico (più spesso un'emicrania molto dolorosa) a ripristinare tra noi un rapporto terapeutico: in queste circostanze le manifestazioni di sofferenza e l'umile richiesta d'aiuto prendevano il posto delle pretese arroganti e della rabbia delle sedute precedenti e la tensione si allentava per qualche tempo. Dopo numerosi "cicli" di questo tipo, e con non poca fatica da parte di entrambi, riuscimmo gradualmente ad isolare, nel mare delle pretese di Daniela, alcuni bisogni narcisistici più sani, a carattere maturativo: si trattava di una richiesta di confronto con il tipo di lavoro del sottoscritto e/o di "mirroring" (accettazione partecipe, conferma narcisistica) riguardo alle attitudini ed alle ambizioni connesse alla sua attività medica. In alcuni casi, ci rendemmo conto che le richieste intransigenti ed irragionevoli di Daniela rappresentavano, per lei, una sorta di reclamo di risarcimento per il mancato, pronto soddisfacimento dei bisogni più sani, analogamente a quanto accade in certi "capricci" dei bambini. Quegli stessi capricci, per inciso, che non aveva mai potuto permettersi quand'era piccola. Si era stabilita una traslazione narcisistica in cui in virtù di quella stessa idealizzazione che mi aveva reso, agli occhi di Daniela, personaggio oltremodo autorevole e "potente" — capace, quindi, di soddisfare del tutto il suo sano bisogno di crescere — per lo stesso motivo divenivo "colpevole" di un'insoddisfazione che, a suo modo di vedere, "se solo avessi voluto" avrei potuto risparmiarle. Solo portando a livelli e a contenuti più realistici l'idealizzazione del sottoscritto (attraverso una serie di graduali "disillusionment" o "frustrazioni ottimali"), i "capricci" si ridimensionarono (senza mai scomparire del tutto) e gli aspetti più sani e terapeuticamente utilizzabili della traslazione narcisistica comparvero con maggiore continuità. Gli atteggiamenti più positivi si presentavano spesso subito dopo che il rapporto terapeutico era stato ripristinato tramite le cure corporee che le somministravo periodicamente: interventi psicofarmacologici, ma anche prescrizioni di esami, richieste di consulenze, ecc. Su molte di queste cose, per inciso, Daniela ne sapeva più di me, tuttavia il mio avvallo le era sempre indispensabile. Partendo dal proprio corpo, spesso la paziente passava a parlare di quello dei suoi pazienti e degli interventi da lei attuati che amava illustrarmi anche nei minimi dettagli tecnici. Che non si trattasse più di un arido resoconto, come avveniva nelle fasi precedenti dell'analisi, era attestato da una maggior vivacità del tono della voce, della gestualità, della mimica, oltre che da un ritmo del discorso adeguato al contenuto: tutti aspetti del suo modo di esprimersi che testimoniavano una viva partecipazione emotiva. Divenne chiaro che, nei sentimenti di stima che era evidentemente capace d'ispirarmi, Daniela cercava una conferma affettiva del valore del suo lavoro con cui rafforzare la propria autostima. Inoltre, da un confronto tra il suo ed il mio lavoro, volto a comprendere le caratteristiche che accomunano le due diverse attività terapeutiche, Daniela traeva un rafforzamento della sicurezza nelle proprie attitudini. Soltanto poche, sintetiche osservazioni furono sufficienti a stabilire un nesso tra il lavoro clinico di cui mi stava parlando ed i vissuti antichi connessi con le cure materne. Si trattava delle esperienze affettive più intense ed autentiche che la paziente avesse mai conosciuto.

Nel corso di quasi tutto il trattamento, dopo aver superato un'apparente indifferenza affettiva verso l'altro sesso, Daniela attraversò molti, brevi rapporti sentimentali, quasi sempre burrascosi e spesso causa, in lei, di quelle agitazioni emotive che solo gli "sfoghi" con me riuscivano a calmare. Negli ultimi anni, parallelamente al concentrarsi nel rapporto transferale degli aspetti più difficili della sua vita affettiva e, verso la fine, al parziale soddisfacimento dei suoi bisogni narcisistici più sani, i rapporti sentimentali divennero un po' più calmi e si arricchirono di una componente di piacere, anche attraverso l'integrazione della sessualità. Attraverso il lavoro analitico, l'investimento affettivo nell'attività medica, la parte più importante della sua vita, s'intensificò; ciò la rese più serena, più disponibile alla pazienza anche con conoscenti e fidanzato (con i malati ne aveva sempre avuta). Nell'ultimo anno, una durata relativamente lunga per lei, Daniela s'impegnò in un rapporto affettuoso e stabile con un Medico del suo luogo d'origine; rapporto culminato, poco prima del termine dell'analisi, in un progetto di matrimonio.

 

III — Uno sguardo ai casi più gravi

1 – Addiction to "normality" — Che l'appartenenza ad un ambito di persone "normali" possa essere oggetto di una addiction era stato compreso da Kohut, benché in un contesto del tutto particolare (quello dell'istituzione psicoanalitica): "Il termine ‘addiction' … indica la presenza della paura di ritornare alle antiche insicurezze e squilibri se l'attività di protezione [della ‘normalità'] viene abbandonata, o anche solamente allentata. E indica anche che alcune attività che sembrano chiare manifestazioni di salute — realistiche, adattative e socialmente utili — possono essere svolte in modo troppo zelante e mancare di quel misto di tolleranza e saggezza che [altrove] ho definito una delle più significative trasformazioni del narcisismo" [6, 8, pag. 208 e seg.]. L'esistenza, tra molti "normali", di una rigida maniera di vivere a carattere "addictive", possibile matrice di numerose e gravi patologie, suggerisce l'utilità di distinguere, dal concetto di "normalità", quello di "salute" mentale. Quest'ultimo, nel pensiero di Kohut e di Winnicott, privilegia il punto di vista dell'esistenza soggettiva individuale (anziché quello dell'indagine statistica), considerandola globalmente nella sua integrità strutturale e non solo nelle singole attitudini. Esso si caratterizza per la qualità affettivamente significativa dell'esperienza (vissuta come "piena" e "reale" [20]), per la capacità di provare gioia (espressione complessiva della personalità) e non solo singoli piaceri [7, 8 pag. 26, 269 in nota], per il contatto con la parte più autentica e profonda di sé e per la "capacità di introdurre nella propria vita il particolare progetto fissato nel centro del sé" anche se esso viene a trovarsi in contrasto con le esigenze dell'ambiente [7, 8 pag. 266]. Questa concezione esclude, quali caratteristiche essenziali della salute, la capacità di adattamento o l'assenza di sintomi psichiatrici; vale a dire le qualità che principalmente caratterizzano la condizione di "normalità" mentale qual è generalmente intesa.

L'esistenza, in pazienti quali era stata Daniela per un certo periodo, di una "normalità" come condizione obbligatoria per sentire di esistere, rende comprensibile il loro terrore dell'anormalità psichica. Inoltre, la stessa qualità "addictive" del loro modo d'essere "normale", implicando un adattamento alla realtà affettivamente rigido e imperfetto, spiega come, per sedare le tensioni emotive che ne derivano, queste persone debbano frequentemente ripiegare su addiction supplementari. Il carattere spesso fisicamente dannoso di queste ultime, unitamente alla fragilità somatica dovuta ad una reazione di stress "sbilanciata", chiarisce come il malessere di costoro tenda a spostarsi e ad esprimersi nella sfera corporea. Quello di Daniela, tuttavia, non fa parte dei casi incurabili con mezzi psichiatrici. Infatti l'alexitimia "psicofoba", che pure le appartiene, non è in lei così tenace da impedirle d'esprimere la sua sofferenza anche con attacchi di panico. Vale a dire con una sintomatologia al confine tra il somatico ed il mentale che, dopo due anni di peregrinazioni da cardiologi e neurologi, la convince infine ad approdare nel mio studio. Fino a che punto le sue vicende possono farci capire qualcosa dei pazienti più gravi? Di quelli, cioè, in cui la "psicofobia" e la schiavitù verso la "normalità" sono talmente tenaci da spingersi fino alle estreme, tragiche conseguenze; e questo senza che uno psichiatra, o talora un qualsiasi curante, sia da loro mai consultato? Come sempre, è con i suggerimenti che ci offre un grande Artista che possiamo cercare una risposta a quesiti di questo genere.

2 – "La morte di Ivan Ilijc" — "La morte di Ivan Ilijc" di Tolstoj [18] rappresenta la migliore illustrazione letteraria che io conosca dell'argomento che stiamo trattando. Si presenta, all'inizio, come la storia di un uomo esemplare nella sua "normalità", soprattutto riguardo alle capacità d'adattamento all'ambiente borghese cui appartiene: incline ad assecondare le persone altolocate, a vivere secondo i loro principi, al rispetto scrupoloso delle formalità che il suo lavoro di magistrato richiede, Ivan Ilijc, com'è ovvio, percorre facilmente le tappe di una rapida carriera. Il suo modo conformista d'intendere l'esistenza, il concetto di decoro, tutt'uno con quello delle persone che contano, ispirano anche la scelta della donna che Ivan decide di sposare e lo stile di vita che egli introduce nella famiglia. Trovando troppo complicati i problemi emotivi posti dalla moglie in situazioni delicate come la gravidanza e il puerperio, Ivan, imponendo ai familiari un rigoroso rispetto delle forme esteriori, ne irrigidisce i rapporti e, nello stesso tempo si allontana da casa rifugiandosi nel lavoro. Ma anche la sua occupazione finisce per creargli grosse difficoltà: ritenendo d'essere stato ingiustamente escluso da una promozione cui ambiva, Ivan, forse per la prima volta nella sua vita, viene a lite con un superiore. Ne segue una situazione di generale freddezza nei suoi confronti e persino il padre non si ritiene in obbligo d'aiutarlo. Quest'episodio, sebbene Ivan riesca in seguito a recuperare il terreno perduto riguardo alla carriera, crea una frattura nella continuità della sua esistenza. Poco tempo dopo si manifestano i primi segni della malattia che lo condurrà alla morte. Man mano che se ne avvicina la fine, Ivan si rende conto di tutta la falsità e l'insensatezza della sua esistenza, come se scoprisse, nella morte, l'unica realtà per lui autentica. Si accorge soprattutto dell'inconsistenza dei suoi rapporti: è evidente che i familiari conoscono la gravità del suo male ed intuiscono che lui stesso lo ha capito, ma, ignorando le sue sofferenze morali, fanno finta di nulla; come se un evento tragico e solenne, come la morte, potesse esser ridotto ad un fatto sconveniente qualsiasi, che bisogna tacere. Nell'atteggiamento dei parenti, Ivan vede riflessi la menzogna, l'inganno, il vuoto rispetto delle forme esteriori, che avevano caratterizzato il suo stesso stile di vita. Ora scopre in se stesso un autentico bisogno di "carezze e lacrime" da parte d'una persona che lo ami, ma non ha il coraggio di confidarlo, né di opporsi alle ciniche menzogne dei familiari, per paura di restare completamente isolato. Tuttavia la solitudine, alla fine, non può essere negata: Ivan, che aveva dedicato gran parte della sua vita allo scopo di guadagnarsi l'approvazione altrui, si accorge che ora, come "premio", si trova "…solo, sull'orlo del baratro, senza una creatura umana che lo capisca e lo compatisca". Soltanto poco prima della morte, Ivan riesce a trovare qualche frammento autentico di vita soggettiva e di rapporto con le persone a lui vicine.

3 — La situazione traumatica precoce — Le stesse parole con cui Tolstoj descrive il momento della rottura dell'equilibrio narcisistico di Ivan Ilijc (quello della mancata promozione, della prima lite della sua vita con un superiore e della generale freddezza intorno a lui) potrebbero servire ad illustrare ciò che provò Daniela quando il suo modo d'essere "normale" entrò in crisi: "…tutti lo dimenticarono e ciò che a lui pareva un'enorme, crudele ingiustizia, per gli altri era una cosa assolutamente regolare. Anche suo padre non si credette in obbligo d'aiutarlo. Egli sentiva che tutti lo abbandonavano…" [18, pag. 32].

Per la paziente il fattore scatenante non era stato una mancata promozione, ma un'accoglienza non amichevole da parte dell'ambiente di lavoro. Di fronte a questo disagio, concomitante con quello della nuova città, Daniela si sentì del tutto ignorata ed abbandonata dai familiari: le sue telefonate a casa, sempre più concitate, non sembravano incontrare il minimo segno d'interesse. Non era la prima volta che le capitava: ho menzionato più sopra i ricordi dell'esilio nella casa isolata di montagna ed il loro essere significativi della costante solitudine di Daniela bambina, dell'impossibilità di poter contare sulla comprensione empatica dei genitori anche di fronte ai propri bisogni più intensi ed alle emozioni più violente. Questi ricordi, emersi solo gradualmente in analisi, si riferiscono ad una fase precoce della vita della paziente e riflettono un'esperienza d'abbandono resa particolarmente traumatizzante dallo sviluppo ancora imperfetto della capacità di simbolizzare e tradurre in parole [3, pag. 1093]: essa è rappresentata in termini piuttosto concreti (come abbandono materiale) e solo vagamente metaforici. Dobbiamo, inoltre, supporre che questa stessa rappresentazione sia frutto di una ricostruzione posteriore: all'epoca del trauma è presumibile che Daniela abbia avvertito, quale riflesso dell'abbandono, quella stessa tensione emotiva indifferenziata e violenta con cui era esordita la sua malattia recente; vale a dire quello sconvolgimento indefinibile della sua coscienza per scacciare il quale era ricorsa per due anni alle addiction sostitutive di quella alla "normalità".

In Ivan non c'è neppure questo: ad avvertire il (rinnovato) malessere dell'abbandono traumatico è il corpo, molto più della coscienza. In lui, al di fuori di ogni elaborazione mentale consapevole, si riattiva una tendenza autodistruttiva somatica simile a quella della depressione anaclitica dei bambini abbandonati [12 pag. 6].

In entrambi, l'addiction all'ambito dei "normali" può essere ricondotta alle presumibili conseguenze traumatiche della precoce deprivazione affettivo-empatica: un crollo nell'edificazione del sé immaturo, una "agonia primitiva" avvertita come vuoto intollerabile [21] allontanò violentemente queste persone dal loro mondo interiore, portandole a "consegnare" se stesse, e le proprie possibilità di sopravvivenza, all'ambiente esterno delle persone adulte e "normali". Con esso si creò una simbiosi regressiva che sopperì alla carenza di strutture interne capaci di contenere gli affetti più intensi e spiacevoli; o alla mancanza di relazioni interpersonali atte a svolgere analoghe funzioni [12, pag. 62]. Ecco perché quando, in Ivan ed in Daniela, venne a mancare la protezione della "normalità", si verificarono in loro gli stessi scompensi, a carattere traumatico, che l'avevano preceduta.

4 — L'addiction al "gregge" — Fin dalle prime pagine, Tolstoj illustra vivacemente l'indole conformista di Ivan Ilijc. Egli è definito come "…severamente attaccato a ciò che credeva il suo dovere: e il dovere per lui era quel che si riteneva tale dai suoi superiori. Non era stato strisciante… ma fino dagli anni della prima gioventù aveva avuto quel tale istinto che spinge la mosca verso la luce e spingeva lui verso gli uomini che hanno un'alta situazione nel mondo, facendogli assimilare i loro modi, le loro vedute, e stabilire con loro rapporti d'amicizia (…) aveva commesso alcune azioni che allora gli erano parse indecorose…ma, in seguito, vedendo che queste medesime azioni erano compiute anche da uomini che stavano in alto e non le consideravano peccaminose, egli non le riguardò come buone ma le dimenticò completamente" [18, pag. 23 e seg.]

Notiamo, innanzi tutto, il carattere aspecifico, "anonimo" di questi superiori così affettivamente importanti nella vita di Ivan; egli non ha preferenze, non fa scelte: adotta i "modi e le vedute" (in particolare il concetto di "dovere") di chi lo comanda, chiunque questi sia, senza che la propria indole lo porti a prediligere, come modello, un superiore piuttosto che un altro. Il suo adeguarsi all'esempio di coloro che "stanno in alto" è, quindi, fine a se stesso e non frutto di un'inclinazione verso particolari opinioni o comportamenti. Ciò che lo spinge verso "gli uomini che hanno un'alta situazione nel mondo" non è il calcolo dell'adulatore (egli "non era mai stato strisciante"), ma un "istinto", un comportamento del tutto spontaneo e non premeditato. Manca, inoltre, in Ivan una vera e propria istanza morale autonoma: egli riesce a dimenticare le proprie azioni da lui stesso giudicate "indecorose", se solo sono state commesse anche da coloro che stanno in alto. È il superiore del momento a porsi, nel mondo interno di questo personaggio, come ideale dell'io ed a svolgere la funzione del superio, esattamente come in coloro che fanno parte delle folle primitive [5]. Tuttavia, mentre persone più sane perdono solo temporaneamente, quando "catturate" dalla folla, la loro specificità individuale, per Ivan ciò costituisce un modo d'essere costante.

Su Daniela una simile influenza non è esercitata da qualsiasi superiore, ma dai soli genitori. Finchè non s'allontanò da casa, tuttavia, anche lei s'adeguò ad un "ideale" di vita impostole dall'esterno: quello della persona "normale", impegnata pienamente ed in modo "autonomo" nel lavoro, che non "disturba" se stessa e gli altri con le "insensatezze" del proprio mondo interno. La "sottomissione all'ordine della psicologia collettiva" (completa e permanente nel personaggio tolstojano, parziale e limitata nel tempo nella paziente) tende a privare il pensiero di ogni traccia di qualità soggettive individuali (come avviene tipicamente nel paziente "opératoire" [15, pag. 1413, 1419]): il "gregge" cui queste persone appartengono non ammette l'esistenza d'individui separati ed indipendenti ed ogni indizio d'individualità dev'essere rigorosamente censurato. Ecco perché l'addiction tenta d'eliminare rapidamente non solo i sentimenti spiacevoli, ma anche molti fra quelli piacevoli [10, pag. 514]. In costoro, infatti, qualsiasi sentimento spontaneo, in quanto espressione di una vita soggettiva autonoma, è tendenzialmente pericoloso, può comportare l'improvvisa espulsione dal "gregge": l'ostracismo nei confronti di Ivan, quando emerge in lui il ribelle, è pronto e totale, come pure la freddezza dei familiari quando, in Daniela in crisi, emerge la persona fragile. L'espulsione dal gruppo d'appartenenza rappresenta spesso, per queste persone, l'eventualità più temuta al mondo: per loro essa significa annientamento soggettivo e talora, come succede ad Ivan, fine anche dell'esistenza corporea.

5 — "Illusion" e "delusion" — L'espulsione dal "gregge" comportò, per Daniela, una crisi lunga e tormentosa, ma non un crollo totale, come accadde ad Ivan Ilijc. Ad esempio, il lavoro e gli aggiornamenti professionali, entrambi per lei affettivamente molto importanti, non ne subirono danni o interruzioni. Si è vista più sopra, come una delle possibili cause di questa differenza, un coinvolgimento nel gruppo patologico non così totale nella paziente come nel personaggio tolstojano. Correlata a ciò è anche una diversa qualità dell'idealizzazione dei leader del "gregge": quella che ne fa Ivan è indiscriminata (riguarda tutti i superiori), assolve un'unica funzione (quella di cementare la sua appartenenza al gruppo), non subisce cambiamenti ma, ad un certo punto, crolla del tutto cedendo il posto a rancore verso quegli stessi personaggi. Viceversa l'idealizzazione da parte di Daniela, come si è visto nel rapporto transferale, è capace di evoluzione: impegnata all'inizio a ricostruire, in me, il leader di un "gregge" simile a quello della sua famiglia (benché vissuto, stavolta, con fastidio e fretta di sbarazzarsene), in seguito viene da lei impiegata allo scopo di ritrovare dapprima un genitore su cui riversare i propri "capricci" e poi, evolvendosi verso la costruzione di un'immagine di me più ridimensionata e realistica, un sostituto genitoriale capace d'aiutarla a riprendere il cammino evolutivo interrotto nell'infanzia.

Quella propria di Ivan assomiglia alla tenace idealizzazione del genitore (e dei suoi sostituti) caratteristica del bambino che ha (o del paziente che da bambino ha) subito un abuso [12, 13]: essendo intollerabili gli aspetti persecutori del genitore reale e non disponendo di alternative, questo malato è costretto ad aggrapparsi ad un'immagine falsa ed idealizzata di chi lo accudisce. Non si tratta della idealizzazione sana, che consiste nell'accentuazione e nell'isolamento, dalle altre qualità del genitore, d'aspetti realmente favorevoli al figlio: una "illusion", nel senso winnicottiano, necessaria come tale all'inizio della vita, ma in seguito capace di ridimensionarsi progressivamente ed evolversi [21]. Quella di queste persone è, piuttosto, una mistificazione a carattere delirante volta alla negazione del carattere persecutorio e ad un'esaltazione, priva di basi reali, di chi ha dato loro la vita: un delirio — "delusion" — come tale impermeabile a qualsiasi influenza esterna. Come ogni delirio, anche questo tipo d'idealizzazione, urtando con la realtà, può crollare, ma non modificarsi; questo anche in coerenza con il sistema di valori narcisistico del "tutto o nulla": la persona idealizzata o è "perfetta" (e quindi al di fuori d'ogni eventualità d'evoluzione) o è "completamente spregevole", senza alcuna possibilità di riscatto. Come conseguenza, questi pazienti possono anche trovare sostegno in genitori o sostituti genitoriali "perfetti", ma mai rapporti capaci di evolversi ed aiutare ad evolvere. Le persone reali, imperfette ma dotate di pregi veri, di una loro specifica individualità e di capacità di progredire (quindi le uniche in grado di aiutarli), restano al di fuori del mondo affettivo di questi pazienti, popolato solo di esseri immutabilmente "perfetti" ma non "veri", come pure da anonimi "greggi" indifferenziati, ma non da gruppi evoluti di individui tra loro distinti, capaci di reale collaborazione e cambiamento.

6 — Impossibilità di dipendenze sane — I pazienti simili a Daniela e ad Ivan Ilijc, così preoccupati per una (perduta) "autonomia" che si rivela del tutto ingannevole, debbono, in realtà, ancora "imparare" a dipendere in modo sano da chi può aiutarli nell'affrontare le proprie tensioni emotive, quanto in tutto il resto. Vediamo, ad esempio, Ivan a contatto con uno dei medici cui ha chiesto aiuto per la sua grave malattia. Il suo occhio disincantato vede, nel rituale della visita medica, solo più un cumulo di"sciocchezze e vuoti inganni" . Eppure, in un momento di disperazione, egli finisce per aggrapparsi al messaggio di speranza del curante "come si lasciava prendere dalle arringhe degli avvocati quando egli già sapeva benissimo che essi mentivano e perché mentivano" [18, pag. 68]. Convivono in Ivan una credulità infantile sempre più delusa e la più completa diffidenza; quest'ultima, tuttavia prevale fin dalla prima visita:

"…Tutto fu com'egli s'aspettava, tutto come avviene sempre. E l'attesa, e la gravità del medico (…), quella gravità a lui ben nota, la medesima che egli riconosceva in se stesso quando era al tribunale (…) e le domande che richiedevano risposte già previste ed evidentemente inutili, e quell'aspetto imponente che sembra dire: ‘Voi dovete soltanto fidarvi di noi, e noi accomoderemo tutto — noi sappiamo come si fa ad accomodare tutto, sempre allo stesso modo, per qualsiasi persona'. Tutto fu proprio come al tribunale. Il contegno che egli teneva in tribunale verso gli accusati, lo stesso contegno lo teneva verso di lui il celebre medico…". [18, pag. 43]

E' possibile che Ivan, qui, sappia vedere selettivamente solo gli aspetti negativi del curante, o ne distorca proiettivamente l'immagine, oppure che egli abbia scelto davvero la persona sbagliata cui affidarsi, ma nella convinzione che non esista di meglio: tutto, infatti, si svolge "com'egli s'aspettava" e come, nella sua opinione, "avviene sempre". In ogni caso, è evidente che Ivan sa vedere, nella cura, solo quel rapporto di reciproco inganno che ha sempre caratterizzato le sue stesse relazioni: quelle presenti con i familiari ed anche, probabilmente, le più antiche.

Credulità, "fede", delusione, (e mai "fiducia") dominano, per un lungo periodo, anche le tempestose relazioni sentimentali di Daniela. In una certa fase, come abbiamo visto, lo stesso rapporto transferale ne fu interessato. A differenza del personaggio tolstojano, tuttavia, la mia paziente aveva la capacità di ripiegare, di tanto in tanto, su un rapporto basato su cure corporee; rapporto che si rivelò particolarmente solido: con esso veniva puntualmente ristabilita, tra noi, una relazione terapeutica. Inoltre, sempre "appoggiandoci" alla relazione con il corpo (quello di Daniela stessa e quello dei suoi malati), fu possibile rafforzare l'investimento affettivo su (e la fiducia della paziente in) se stessa come curante (ad un livello più profondo, sulla sua identificazione con la madre arcaica e sulla propria femminilità); fatto, questo, che rappresenta, a mio avviso, l'elemento cardine dell'analisi di questa persona. Cure materne precoci affettivamente valide, avevano prodotto in Daniela, attraverso l'interiorizzazione, "strutture" del sé psicocorporeo che, a dispetto della labilità di tutto il resto della sua personalità, si mantenevano solide. Esse, nel rapporto transferale, conferivano alla paziente la fiducia di poter trovare nel sottoscritto "l'eco confortante della risonanza empatica" [8, pag. 109] sia pure limitatamente alla sfera corporea. Tutto questo costituì in Daniela una solida base ed un punto di partenza per il processo terapeutico: ciò che manca, purtroppo del tutto, ai pazienti più simili ad Ivan Ilijc. Qui sia l'impostazione prevalente nel loro mondo interno, sia il tipo di persone o di attività che essi percepiscono o scelgono, li conducono unicamente verso rapporti di addiction e mai di vero e proprio aiuto o cura.

7 — Incapacità di "impazzire" — La mancanza di valide strutture interne con cui contenere l'intensità delle emozioni e l'assenza di relazioni interpersonali atte ad ottenere lo stesso scopo, pongono i pazienti simili ad Ivan Ilijc (ed, in minor misura, a Daniela) in condizioni di grave vulnerabilità di fronte ad eventi esterni sfavorevoli. Esiste in loro anche un terzo fattore di debolezza, direttamente legato alla "normalità" addictive: essi sono del tutto incapaci di "impazzire"; vale a dire: di fronte a mali estremi, non sanno ricorrere all'estremo rimedio della "pazzia" quando questo rimane l'unico modo per preservare il nucleo più autentico e specifico della propria vita interiore. Ciò è particolarmente evidente in situazioni che minacciano interessi oggettivamente o soggettivamente vitali: esempi ne sono la mancata promozione e poi la grave malattia fisica per Ivan, oppure l'ostilità (invidiosa) dell'ambiente di lavoro per Daniela. Si tratta di circostanze che pongono a lungo in uno stato d'impotenza e d'incertezza circa il futuro, senza il sostegno empatico di un proprio simile su cui poter contare. Qui un crollo o una resa alle circostanze esterne (che significherebbero il sacrificio di esigenze interiori fondamentali) possono essere evitati solo scostandosi dallo specifico settore minaccioso della realtà o alterandone la percezione soggettiva; e ciò attraverso quei particolari quadri psichiatrici che, per Kohut, sono compatibili con una diagnosi di salute psichica costituendone, addirittura, un elemento essenziale. È quanto amo definire la capacità di "impazzire un po' per non impazzire del tutto" e soprattutto per non andare incontro ad un completo crollo psico-fisico. Il fallimento di questa lotta difensiva, infatti, vale a dire la "resa" alla realtà ostile, può significare lo "acting in" somatico [11, 14] con cui Ivan Ilijc pone fine alla sua esistenza, oppure le pericolose addiction con cui Daniela cerca (per sua fortuna senza riuscirci) di soffocare completamente il suo disagio. Kohut si spinge fino a far rientrare, in queste situazioni di pazzia "sana", persino quadri psicotici; ad esempio: "…l'evocazione allucinatoria di un gruppo di oggetti-sé speculari creati talvolta in situazioni di segregazione, che protegge la personalità dal riportarne danni permanenti…"; oppure: "…l'evocazione allucinatoria di una Divinità idealizzata, che rende alcuni individui capaci di atti di coraggio supremo, non solo senza l'aiuto di un gruppo di sostegno ma anche di fronte alla quasi totale disapprovazione sociale (per esempio, i martiri isolati della resistenza ai nazisti, come Franz Jaegerstaetter…)" [8, pag. 107 e seg.]

Vediamo, invece, fino a che punto si spinge la "normalità" addictive di Ivan Ilijc in una fase già avanzata della sua malattia:

"…in alcuni momenti, dopo lunghe sofferenze, avrebbe voluto più d'ogni altra cosa, per quanto avesse vergogna di confessarlo, che qualcuno lo compatisse come un bambino malato. Avrebbe voluto che qualcuno lo accarezzasse, lo baciasse, piangesse su di lui (…) ed ecco giungere il suo amico, il magistrato Scebek e, invece di lacrime e carezze, Ivan Ilijc faceva un viso serio, severo, profondamente pensieroso e, per forza d'inerzia, diceva la sua opinione su d'un verdetto della Cassazione e ostinatamente lo difendeva. Questa menzogna intorno a sé e in se stesso avvelenava più di tutto gli ultimi giorni della vita d'Ivan Ilijc…" [18, pag. 64].

Giudicare un uomo sano, oltre che un coraggioso eroe, il "folle visionario" Franz Jaegerstaetter ed invece ritenere tragicamente malato (nella mente non meno che nel corpo) l'austero e serioso Ivan Ilijc; tutto ciò può apparire paradossale, ma diventa un'ovvia verità se prestiamo attenzione alle sensazioni che l'Autore ci suscita con la descrizione sopra riportata. Qui quella "ostinata difesa" del verdetto della Cassazione, lontana anni luce da ciò che veramente interessa Ivan in quel momento, quell'atteggiamento "serio, severo, profondamente pensieroso" da parte di chi avrebbe soltanto bisogno di piangere come un bambino e abbandonarsi alle carezze di qualcuno che lo compatisca e lo ami; tutto ciò ci suscita una grande pena per questo personaggio: avvertiamo, nel suo modo di essere, qualcosa di profondamente malato che lo porta ad aggiungere, alle sofferenze del corpo, altri e più gravi tormenti morali. Senza dubbio, avremmo visto come più naturale e "sano" un atteggiamento regressivo di ricerca d'attenzione ed aiuto; atteggiamento che, isolato dal suo contesto (e soprattutto non "filtrato", nella sua descrizione, dalla sensibilità dell'Artista) potrebbe essere qualificato come "teatrale" ed "isteriforme".

La capacità di Daniela di "impazzire un po' per non impazzire del tutto" si presentava, all'inizio del trattamento, piuttosto modesta, limitandosi all'ansia che la paziente non poteva fare a meno di provare, nonostante l'enorme quantità di sigarette, cibo, corse e lavoro che s'imponeva per soffocarla. Questa capacità, tuttavia, sia per il carattere sconvolgente degli attacchi di panico, sia per la stessa misura eccessiva e chiaramente inaccettabile che, sotto l'incalzare dell'ansia, avevano assunto le addiction supplementari, ebbe un ruolo fondamentale nel consentire a Daniela d'avvertire un sentimento di crisi, di difficoltà insormontabile con le sue sole forze, e nell'indurla a chiedere aiuto. Tutto questo manca ad Ivan Ilijc esattamente come manca al tipo di paziente in cui il crollo di una addiction alla normalità determina una dipendenza da sostanze tossiche quale problema esclusivo o prevalente. Manca anche nel paziente, qual era Daniela finchè restò nella famiglia d'origine, in cui non si ha crollo dell'addiction alla "normalità", ma a questa se ne aggiungono altre supplementari allo scopo di "tamponare" il disagio dovuto alle imperfezioni della prima. Nel caso della nostra paziente, in quel periodo, si trattava del consumo abituale di una modesta quantità di sigarette, mentre i disordini alimentari, il jogging e, per un periodo limitato, il lavoro, assumeranno il carattere di addiction solo in conseguenza della crisi. In altri pazienti, addiction supplementari molto più gravi, a sostegno di quella alla "normalità", soffocano ogni forma di "pazzia" e creano una forma stabile d'equilibrio patologico che rende queste persone inaccessibili alle cure psichiatriche e, con esse, ad un vero e proprio trattamento causale.

 

IV — Considerazioni sul trattamento

Persone con un deficit strutturale, innato o acquisito, che si aggiunge alle carenze fisiologiche dell'infanzia, debbono necessariamente ricorrere ad un qualche "completamento" (più o meno adeguato a colmare la mancanza) che esse traggono dal mondo esterno, e ne divengono schiave. In questi casi, il trattamento ha due possibili scopi: quello di dare a questi "schiavi" nuovi "padroni" più clementi, oppure quello di liberarli. Il primo obbiettivo è di gran lunga il più facile da raggiungere e, per la maggior parte di questi pazienti, l'unico possibile. La addiction ad un fattore esterno, infatti, rappresenta sin dall'inizio della loro vita il più abituale modo d'essere, talora il solo di cui abbiano avuto esperienza: i pazienti di questo genere (quelli che ho conosciuto, almeno) nell'infanzia avevano con i genitori relazioni con caratteristiche del tutto simili a quelle del rapporto con i loro oggetti di dipendenza. Si trattava di relazioni sbilanciate, in cui le esigenze soggettive del paziente, soprattutto quelle a carattere maturativo, venivano sacrificate a vantaggio dei bisogni narcisistici dei genitori. Il risultato di queste situazioni familiari è nel malato una vita soggettiva "sequestrata", occupata dall'influenza del genitore non empatico, un vero e proprio "assassinio dell'anima" [12, 13]. Il paziente, dal rapporto col genitore, ha tratto solo o prevalentemente danno ed impoverimento nel suo mondo interiore e poco o nessun aiuto a crescere, tuttavia il genitore stesso resta necessario per sfuggire all'angoscia d'abbandono; e questo molto di più che nei rapporti sani perché qui si tratta di relazioni patologiche "adesive", che danno sostegno solo a condizione di una presenza materiale dell'altro. In altre parole: già quello originario è un rapporto di schiavitù, di "addiction" appunto. Le stesse caratteristiche vengono ereditate dal rapporto con oggetti transizionali (o oggetti-sé) anomali: delle due funzioni di cui sono ordinariamente dotati quelli sani (offrire protezione dall'angoscia di separazione e prefigurare gli oggetti sostitutivi, ad esempio gli oggetti culturali, dell'età adulta), essi conservano solo la prima, cioè vengono feticcizzati [3, pag. 1089, 1090]; quanto alla seconda, essi prefigurano soltanto gli oggetti di dipendenza o addiction degli anni a venire. Anche da questi ultimi è ereditata la capacità di saper produrre solo un sollievo effimero, in quanto legato strettamente alla loro presenza materiale o, se si tratta di sostanze, all'atto della loro assunzione. Essi, per questo sono definiti oggetti "transitori" in contrapposizione a quelli transizionali [10, pag. 519]. Inoltre, nella rappresentazione che il paziente se ne fa, gli oggetti di addiction ereditano quella stessa idealizzazione priva di reale fondamento (o idealizzazione di ciò che è nocivo) che aveva caratterizzato il rapporto coi genitori.

Le caratteristiche di offrire soprattutto protezione dall'angoscia di separazione e abbandono e di costituire oggetti "transitori" è inevitabile siano proprie anche delle dipendenze sostitutive che vengono proposte al paziente a scopo terapeutico. Quali requisiti, allora, possono renderle preferibili alle addiction originarie? Non solo, ovviamente, la capacità di non nuocere alla salute corporea, ma anche quella di lasciare più spazio alle componenti sane della personalità. Ritengo che, a quest'ultimo proposito, sia essenziale che ad un'idealizzazione priva di basi positive (dell'oggetto di addiction originario) ne subentri un'altra (del curante e/o della cura) fondata su una funzione realmente favorevole alla vita soggettiva del paziente. Me ne sono note due:

  1. Un'azione sul substrato biologico delle emozioni che, rendendone l'intensità più tollerabile e non soffocandone del tutto l'espressione, aumenti il margine di padronanza su se stesso e, quindi, di libertà dell'individuo; azione svolta in modo ottimale da una psicofarmacoterapia integrata in un rapporto terapeutico empatico.
  2. Un'azione protettiva sulle relazioni esterne del paziente che, esercitando la funzione di "io ausiliario" sugli aspetti più difficoltosi della sua vita [17, pag. 252], lasci il maggior spazio possibile agli aspetti produttivo-creativi specifici della sua personalità: una psicoterapia di sostegno (individuale o di gruppo), l'inserimento in una comunità terapeutica, gruppi di mutuo sostegno ed aiuto (tipo "alcoholic anonymous" o "overeaters anonymous"), ecc.

Viceversa, almeno per quanto riguarda pazienti di elevata intelligenza e cultura come Daniela, l'esperienza che ho avuto con loro mi porta a ritenere dannose le "terapie" fondate sulla suggestione "pura" (vale a dire su un'idealizzazione, priva di basi reali, del trattamento): alcune cure di tipo ipnotico o omeopatico, oppure la famigerata "graffetta" sull'orecchio. Queste offrono, per lo più, una protezione piuttosto debole da ricadute nell'addiction che vorrebbero combattere e soprattutto dal passaggio ad altre addiction anche più dannose; inoltre, fatto ancora più grave, finché dura l'influsso che esse producono sulla credulità infantile del paziente, egli risulta molto meno recettivo alle terapie che richiedono la collaborazione della sua parte più adulta e razionale.

Al chiarimento appena esposto sulle dipendenze sostitutive, aggiungo che, anche in molti pazienti non del tutto "liberabili", è tuttavia possibile ed opportuno un compromesso che consente di affiancare, ad una nuova dipendenza meno nociva, anche l'affrancamento parziale di aspetti potenzialmente sani della personalità ed un sostegno al loro sviluppo. Ogni paziente ha le sue caratteristiche peculiari ed il trattamento più adatto a ciascuno può variare entro una gamma compresa tra l'estremo di una pura e semplice sostituzione di un'addiction con un'altra e quello opposto di una completa emancipazione. I parametri che suggeriscono l'opportunità di una cura più vicina a questo piuttosto che a quello, in base alla mia esperienza, sono:

1 — Richiesta di cura — Sono sempre più numerosi i pazienti che chiedono un aiuto a "smettere di fumare" o a contenersi nell'alimentazione. Se esiste una concomitante "addiction to normality", spesso si nota in tale richiesta un'ambiguità di fondo: il desiderio d'emanciparsi coesiste e si confonde con quello, opposto, di adeguarsi del tutto al comune modello di "normalità"; quello oggi dominante, infatti, proscrive fumo e sovrappeso. Zeno Cosini, il protagonista del romanzo autobiografico di Italo Svevo, è un antesignano di questo tipo di paziente. Fatto significativo è che egli, nel momento in cui chiede al medico un aiuto a farla finita con le sigarette, pone al sanitario anche un quesito circa la "normalità" di altri aspetti della sua vita che teme facciano parte di una "malattia"; tra questi il desiderio intenso ed il pensiero assillante delle donne. La figura paterna che Zeno pare cercare nel terapeuta è piuttosto ambigua: un padre che aiuta ad emanciparsi dalla sudditanza infantile alla madre arcaica coesiste con un genitore castrante che, "guarendo", annulla ogni spontaneo desiderio e sottomette. A ciò, naturalmente, corrisponde una grande ambivalenza dei sentimenti di Zeno-Svevo verso i terapeuti cui si rivolge, compreso lo psicoanalista che compare alla fine; ambivalenza di proporzioni tali da far fallire ogni tentativo di cura [16]. Una serie di colloqui preliminari, orientati a chiarire le motivazioni della richiesta di aiuto, potrebbe essere utile non solo ad orientare il trattamento dell'addiction, ma anche a facilitare nel paziente una presa di coscienza molto più ampia rispetto a questo specifico problema: a Zeno-Svevo avrebbe forse consentito di chiarire (molto in anticipo rispetto a quanto si verificherà spontaneamente nel corso della sua vita) la propria situazione di uomo con l'animo dell'artista costretto, dall'influenza della famiglia, ad occuparsi di commercio.

2 — Capacità di "impazzire" ed entrare in crisi — La concomitanza di un'accentuazione di addiction preesistenti con la comparsa di una sintomatologia ansiosa (come in Daniela) o di depressione, o di altri sintomi psichiatrici, può essere significativa di crisi di un'addiction alla "normalità" che spesso, come s'è visto, è la "madre" di tutte le altre addiction del paziente. Tale evenienza, pertanto, può costituire l'occasione per aiutarlo a cercare un'emancipazione il più possibile completa. Sarebbe stato un grave errore, ad esempio nel caso di Daniela, considerare separatamente l'ansia e le addiction e trattare l'una e le altre con cure puramente sintomatiche.

Esistono altri motivi per raccomandare una diagnosi accurata che consideri il paziente nella sua globalità e non si limiti all'individuazione di "sintomi bersaglio" per cure farmacologiche o altri interventi parziali. Si è visto più sopra, infatti, che alcune forme di "pazzia" debbono essere considerate "sane" perché consentono al malato di affrontare situazioni difficili, evitando i danni di una "resa": il crollo psico-fisico di Ivan Ilijc oppure le addiction di Daniela. Pazzie "sane", da un lato e, dall'altro, addiction e somatizzazioni costituiscono due serie complementari: quanto più si riduce l'una, tanto più si accentua l'altra e viceversa. Tutto questo, per inciso, era noto alla sensibilità di Artista e di Medico di Cechov: ne "Il Monaco nero" il protagonista, "curato" dalla psicosi allucinatoria in cui egli vede un essere sovrannaturale che lo sprona ad una missione grandiosa, cade rapidamente in un grave scompenso somatico che lo porta alla morte [4]. Naturalmente il riconoscimento del carattere "sano" di una forma di pazzia non significa astensione da ogni intervento terapeutico: è pur sempre necessario, quanto meno, aiutare il paziente ad addivenire ad un qualche compromesso con le richieste dell'ambiente sociale o con altre esigenze di lui stesso in contrasto con la propria "pazzia". Non è lecita in questi casi, tuttavia, una cura puramente sintomatica, anche se limitata alle rassicurazioni "alla cieca" allo scopo di sedare l'ansia ("non è nulla!"): essa, scoraggiando il paziente dall'esprimere il proprio disagio nella pazzia "sana", potrebbe indurlo a soffocare con un'addiction il suo malessere.

3 — Oggetti di addiction e oggetti-sé — La definizione di pazzia "sana" come estremo rimedio di fronte a mali estremi, caratterizzati anche dall'assenza del supporto empatico di un proprio simile, implica che un qualche sostegno esterno all'esistenza soggettiva è indispensabile al mantenimento di uno stato di piena salute mentale. Quando, più sopra, parlavo di "emancipazione" del paziente, non intendevo certo alludere all'acquisizione di una autonomia psicologica "assoluta": essa, in campo biologico, equivarrebbe alla situazione di un organismo capace di vivere senza ossigeno o sostanze nutritizie [7]. È, quindi, importante chiarire ciò che distingue gli oggetti di addiction dai fattori esterni necessari alla salvaguardia dell'integrità soggettiva (i kohutiani "oggetti-sé"). Non si tratta necessariamente di oggetti diversi: anche i più comuni oggetti-sé della persona adulta sana (risorse culturali, famiglia, amici, lavoro, ecc. [8]) possono costituire gli oggetti di comportamenti sicuramente patologici, con il carattere dell'addiction [1]. Quel che è più evidente è che il bisogno adulto sano è temperato dalla capacità di scegliere liberamente ed, all'occorrenza, sostituire gli oggetti-sé; la molteplicità di essi, la certezza di disporne e la presenza di strutture autonome di autoregolazione delle tensioni emotive, consentono di rimanere temporaneamente privi di tali sostegni senza subirne danni di alcun genere. Addiction, al contrario, significa, anche in età adulta, vera e propria schiavitù, vale a dire mancanza di libertà di scelta ed intollerabilità dell'assenza anche solo momentanea degli oggetti di bisogno, come accade ai bambini più piccoli nei rapporti coi genitori. Forse meno evidente, ma a mio avviso più importante, è un'altra differenza che riguarda gli effetti opposti che l'uno o l'altro gruppo di fattori produce sull'integrità, la forza e le possibilità di espressione del sé quale centro della vita soggettiva. Gli oggetti di addiction, al di là di un temporaneo sollievo, non apportano altri benefici soggettivi: il paziente grave che più ricorre ad essi, impegnato esclusivamente a sottrarsi al disagio, per il resto subisce passivamente la vita anziché condurla in funzione di proprie autentiche esigenze positive [2, 9, 15 pag. 1412]: desideri, ideali, ambizioni, attitudini, interessi, quali peculiari manifestazioni del sé. Esse vengono sacrificate nel rapporto con l'oggetto d'addiction; rapporto, quest'ultimo, sbilanciato: non un'interazione, ma un sequestro da parte dell'oggetto, il soggetto "si perde" in esso. Esattamente l'opposto accade nel "rapporto oggetto-sé", dove l'investimento affettivo e la fantasia arricchiscono la rappresentazione dell'oggetto e quest'ultimo, appagando importanti esigenze interiori, sostiene ed arricchisce il sé. Qui esiste un'autentica interazione tra soggetto ed oggetto, sebbene quest'ultimo venga percepito come estensione del primo.

L'esistenza di una capacità residua di utilizzare aspetti della realtà esterna come sostegni e fonti di arricchimento per la vita interiore (vale a dire come oggetti-sé), ritengo sia il fattore predittivo più importante riguardo alla riuscita del trattamento causale dei pazienti affetti da addiction. È quanto mi pare insegni la storia del trattamento di Daniela. Nel suo caso, l'aver riconosciuto e ritrovato le cure corporee (ricevute e praticate) quale oggetto-sé, ha permesso a questa persona di riprendere il cammino che l'antica sollecitudine materna aveva solo consentito di iniziare: quello che conduce dall'esperienza del corpo ad una vita soggettiva piena e consapevole.

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