L’utopia delle passioni. Ordine della società e controllo degli affetti nell’Isola di Felsenburg (1731-1745) di Johann Gottfried Schnabel

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8 aprile, 2013 - 16:16
Autore: Merio Scattola
Editore:
Anno: 2002
Pagine: 249
Costo: €25.00

Per molti aspetti, la prima metà del Settecento fu, in tutta Europa, un’epoca di trionfo, ma anche di ripensamento, del genere romanzesco. Per quanto l’estetica ancora dovesse, ma non ci vorrà molto, divenire autonoma come subdisciplina filosofica (e non a caso questo avverrà proprio nella Germania, e proprio da un wolffiano della scuola di Halle come Baumgarten) il romanzo si trovava al centro di elaborazioni teoriche epocali.

Si pensi solo alla querelle des anciens et des modernes.

La produzione romanzesca vera e propria, soprattutto nell’Inghilterra di Richardson, e quindi nella Francia di Rousseau, si stava indirizzando verso quel romanzo psicologico, o "psicologistico", che fornirà poi la linea di sviluppo al romanzo moderno e contemporaneo, liberandolo dalle ipoteche di veridicità, o dalla natura di epopea in prosa, o di "historia literaria", o finalmente di strumento morale (moralistico) che ancora lo dominavano fino al primo Settecento, almeno in ambito linguistico germanico, come testimonia ampiamente questo volume.

Ora, le tendenze più innovative nell’ambito sia della teoria del romanzo, sia della sua pratica effettiva, non sono tedesche: la cultura dominante, nell’epoca di Luigi XIV e XV, è decisamente francese, con una partecipazione significativa della letteratura inglese; la Germania, ancora prostrata dalla Guerra dei Trent’Anni, giuoca per dir così in retroguardia, mentre si avverte, prima e dopo Wolff, una tendenza metafisica, e soprattutto sistematica, nel trattare di letteratura, che se da un lato produce opere teoretiche complesse ed esaustive, dall’altro lascia poco spazio all’elasticità, anche teorica, e all’innovazione stessa nella pratica letteraria vera e propria.

Come ben mostra Scattola qui, alla fine il punto di riferimento principale per l’elaborazione speculativa tedesca, assai ponderosa ma poco articolata, è la grande riflessione estetica sul romanzo fatta da Huet, cui si contrappone, in parziale adesione, la vasta teorica al riguardo del "padre dell’Illuminismo tedesco" Christian Thomasius (pp. 72-81). Il romanzo di Schnabel non è preso qui in esame, tuttavia, dal punto di vista della storia letteraria, o meglio, non solo da quella; se è vero che la sua monumentalità è tipica dei romanzi dell’epoca — e Richardson e Rousseau ben lo testimoniano — è altrettanto vero che se posto dinanzi ai contenuti letterariamente e moralmente innovativi di codesti due grandi, l’Isola di Felsenburg -- dove l’elemento psicologico non è primario, soverchiato com’è da un moralismo rigoroso e da un gusto per l’azione ancora in qualche modo da epopea, macchinosa e violenta, e piena di riferimenti meravigliosi -- (soprattutto nell’ultima, meno controllata parte, pubblicata negli anni Quaranta) perde di molto nel confronto.

La prospettiva da cui Scattola prende le mosse è primariamente quella della filosofia morale, e, all’interno di essa, soprattutto quella di storia del pensiero politico e di teoria della storiografia. In questo modo, se la modernità dal punto di vista estetico di un peso poco praticabile come il "romanzone" di Schnabel è assai dubbia, l’opera invece si presenta come uno splendido modello per un’analisi teorico-politico, e filosofico-morale, perfettamente rispecchiando, all’interno della sua complessa trama, sia istanze filosofico-religiose di carattere pietistico, e del pietismo di Halle in particolare, allora in piena fioritura, sia istanze teoriche e morali che sono da far risalire soprattutto all’influenza, allora panoramica, e ovunque avvertita, di Christian Thomasius.

Il tentativo, pienamente riuscito a Scattola, è di interpretare il romanzo come prodotto della filosofia morale corrente nella Germania del tardo Seicento e primo Settecento, dove il primo illuminismo ancora stentava ad imporsi, e comunque, nel momento in cui si imponeva, mostrava caratteri filosofico-morali di forte impronta pietistico-luterana, che ponevano limiti ben precisi all’agire filosofico degli illuministi e anche e soprattutto all’azione individuale e collettiva dei personaggi di un romanzo moralmente edificante ed istruttivo come la grande epopea utopistica di Schnabel.

Si tratta di un tipico prodotto, peraltro, di un’utopia ancora pre-moderna, in cui viene data per scontata la natura malvagia dell’uomo, e soprattutto la sua immodificabilità, di contro alla modificabilità, anche radicale, delle istituzioni preposte a regolarlo e governarlo (pp. 161-176). Il romanzo di Schnabel si pone dunque nella tradizione della letteratura utopistica, e, all’interno di essa, in quella letteratura "del naufragio", l’esempio tipico ai tempi di Schnabel è il Robinson Crusoe, e del viaggio immaginario (il danese Holberg è un altro autore che potrebbe essere proficuamente messo a confronto con Schnabel) che si rileva foriera di una metafora euristicamente splendida (come ci insegna Blumenberg): la creazione di una mondo alternativo con i relitti, umani e non, del naufragio, in luoghi aspri e non civilizzati, preda di forze naturali ostili, e di compagni di naufragio moralmente mostruosi, come il francese Lemelie in questo romanzo.

In questo caso nell’isola abitano solo scimmie, che uno dei due protagonisti combatte addirittura a colpi di cannone, immagini quali sono incarnate dell’uomo pre-umano, preda dell’istinto ferino, brutale eppur non del tutto bruto, per la sua somiglianza davvero unheimlich con l’uomo, mentre il bieco francese, un personaggio che Sade avrebbe trasformato in eroe, un vero genio del male, qui viene invece terribilmente punito.

Il tema del naufragio, cui venne dedicato diversi anni fa un ricchissimo convegno a Cagliari, i cui atti, sotto il titolo Naufragio, vennero pubblicati nel 1993 da Bulzoni a cura di Laura Sannia e Maurizio Virdis, è quantomai stimolante, dal punto di vista della letteratura, e continua ad essere utilizzato: come esempio si potrebbe portare un romanzo per molti aspetti affine a questo di Schnabel, sebbene in esso il vero protagonista sia, al contrario del presente testo, il malvagio, che guida la scena fino all’ultimo: The Company, di Arabella Edge, giovane scrittrice australiana, pubblicato da Picador a Sydney nel 2000.

Dunque, il naufragio, "situazione-limite", per dirla con Jaspers: che pone in questo caso quattro naufragi, di diversa nazionalità, su un’isola remota: solo coloro che formeranno il primo nucleo familiare dell’isola, non senza strazianti difficoltà e conflitti morali, sopravviveranno: il turpe Lemelie prima uccide il quarto sventurato, di cui non sopporta l’autorità morale, poi cerca di violentare Concordia, l’unica donna del gruppo, che viene difesa da Albert; Lemelie muore mentre cerca di attaccare quest’ultimo, gettandosi a capo basso contro di lui ed andando a conficcarsi nella baionetta che il giovane teneva spianata davanti a sé per difendersi. A questo punto, rimasti provvisoriamente i soli abitanti dell’isola, Concordia e Albert cominciano a pensare alla cosa più ovvia, ovvero alla loro unione. Singolare la situazione in cui il naufragio e l’isola deserta favoriscono l’emergere dei sentimenti peggiori, in coloro che già ampiamente li coltivavano, ma all’insaputa degli altri, e che, come Lemelie, avevano alle spalle un bel curriculum di crimini e orrori vari, tra cui lo stupro, l’incesto, il parricidio e l’infanticidio. Questa situazione, così tipicamente romanzesca, viene sfruttata ampiamente, in ambito contemporaneo, dalla Edge con molta eleganza, ma il capolavoro del genere è The Lord of the Flies di William Golding, premio Nobel, che divenne poi un celebre film.

In questo caso i sentimenti più bestiali, ed è qui lo choc del libro, e del film, sono coltivati da fanciulli prima innocenti, almeno nelle azioni, se non nei pensieri, o quantomeno, tragicamente, solo nella visione che di essi avevano gli adulti. Per fortuna, qui, tutti gli altri naufraghi che approderanno all’isola saranno persone pie e devote, pietisti modello che sembrano giunti direttamente dall’assai poco marina Halle e dalle terragne Frankeschen Stiftungen su quest’isola tropicale (ci pare) dove si formerà una comunità pietistica quasi perfetta, come venne già notato dal primo commentatore novecentesco del lunghissimo romanzo: Fritz Brueggemann, il cui volume del 1914 è punto di riferimento costante, anche in chiave critica, per tutta la letteratura su Schnabel, compreso Scattola. Il quale offre per la prima volta una lettura comprensiva in italiano della ponderosa opera, e che, come vedremo, ha molti tratti originali anche riguardo alla preponderante, anche se non numericamente esorbitante, letteratura in tedesco sul tema.

Il romanzo dunque si sviluppa in maniera duplice: da un lato il continuo arrivo di naufraghi sull’isola incrementa e costituisce una comunità, di cui la famiglia formata da Albert e Concordia costituisce il nucleo portante e primo, ed il modello per ulteriori sviluppi. Dall’altro, vi vengono narrati, giusto il sottotitolo del romanzo, i "fata" straordinari di tali personaggi, in pratica la loro vita fino al punto di svolta del naufragio, una sorta di "morte per il mondo", che non può che aprire, fuori e dentro la metafora, ad una seconda vita, auspicabilmente migliore: una morte del peccato, ed uno spiaggiamento sui lidi della salvezza.

Ora, il complesso volume di Scattola non prende subito in esame lo sviluppo delle vicende del romanzo, come abbiamo riassunto qui, ed anzi riserva tale analisi, che egli vede soprattutto dal punto di vista del modello societario, o forse statuale, che la comunità di Felsenburg rispecchia e veicola, all’ultima sezione del libro, la quarta: "Gli affetti e la costruzione dell’ordine sociale" (pp.157-224), che risulta anche quella dove la vastissima dottrina dell’autore nell’ambito della storia del pensiero politico produce la lettura maggiormente innovativa, finora, del romanzo di Schnabel: ne mostra infatti bene i limiti teorici, ovvero il suo appartenere ad un universo teorico-politico ancora sostanzialmente dominato da una visione politico-statuale propria del patriarcalismo biblico, secondo cui la famiglia poteva essere il modello fondante, e non semplicemente l’origine poi qualitativamente e quantitativamente adattata dello stato. Tale era il modello aristotelico al centro delle elaborazioni speculative, e dei superamenti, dei "politici" tedeschi del tempo, prima fra tutti Thomasius, processi teorici che Schnabel, in retroguardia, sembra ignorare.

Scattola mostra bene come la teoria politica più avanzata del tempo attaccasse l’idea di famiglia come modello politico identificando la società politica, rappresentata dalla stato, come una società tra liberi, mentre non lo è, evidentemente, la famiglia, almeno nel suo modello patriarcalistico (non per nulla qui Scattola mostra come tale modello politico appartenesse a Lutero soprattutto, non un caso, se si pensa che i pietisti intendevano soprattutto riportarsi al primo Lutero e alle dottrine originarie della sua riforma) (pp. 214-222).

In proficuo confronto con le teorie sulla "borghesisazzione" come modernizzazione nell’arte (e nella società e nel pensiero politico non di meno) di un Arnold Hirsch o di un Leo Balet, pubblicate rispettivamente nel 1936 e nel 1934 e che ancora fanno parte del canone storico-letterario, Scattola qui conclude (p.222): "Se in questo quadro composito (…) la forma del romanzo sembra guardare più al passato che al futuro, ciò, più che trascinarci a condannare queste opere come ‘antiquate’, dovrebbe indurci a riflettere sui nostri strumenti interpretativi e a chiederci fino a che punto sia giustificata una stretta identificazione di ‘moderno’ e ‘borghese’, dal momento che qui, nell’Isola di Felsenburg, abbiamo evidentemente a che vedere con un’epopea certamente ‘borghese’, ma in nessun modo ‘moderna’. "

Di estremo interesse anche la lettura, appena precedente, dello stato dei naufraghi come "stato di natura", e della nascita di una società civile, per quanto ristretta, sull’isola, a partire da una condizione di diritto naturale, dove tutti gli altri vincoli, di diritto positivo e di ius gentium, sono tramontati o sciolti (pp. 210-214). Il caso del naufragio e della ricostruzione sociale, sulle rovine superstiti, e in luogo del tutto preda della natura, costituisce un esempio di possibile ricostruzione in vitro di una situazione di diritto naturale, successiva, e non precedente, significativamente, alla situazione di predominio del diritto positivo.

D’altra parte, nella storia, affascinante, dello "Strandrecht", il diritto di spiaggiamento, che in Germania, pur relativamente povera di coste (e priva di colonie insulari e tropicali, significativamente, quando viene scritto il romanzo, e per più di un secolo dopo) ma non povera di grande tradizione marinara, purtroppo in età moderna quasi tramontata, con l’eccezione di Hamburg, (si pensi allo strapotere della lega anseatica in età medievale) il bene diveniva, naufragato, res nullius, e il naufrago perdeva i suoi diritti di uomo libero: potendo addirittura, secondo un’interpretazione del diritto romano assai corrente, essere fatto schiavo.

Tutto questo viene dunque trattato nella quarta, ed ultima parte del volume. La prima è dedicata a collocare il romanzo nella teoria letteraria, soprattutto tedesca, ma ampiamente debitrice di un Huet e del discorso francese, pietra di paragone costante del tempo: "Historia ficta, literaria e pragmatica: il romanzo come forma di conoscenza storica all’inizio del Settecento".Qui vengono toccati momenti fondamentali del discorso estetico-letterario tanto più interessanti, quanto più siamo ancora lontani dall’autonomizzazione della scienza estetica, da una parte, e dalla critica letteraria, dall’altra, che avverrà la prima in contesto illuministico maturo con Baumgarten, e la seconda quasi mezzo secolo dopo con i più tenaci oppositori dell’illuminismo letterario, i romantici e gli Schlegel soprattutto. Siamo ancora dunque in territorio barocco, qui, ma con poderose istanze razionalistiche e classificatorie, che Scattola analizza includendo letterati ma soprattutto filosofi tra i suoi autori: da Gundling a Heumann, da G. Heidegger ("reazionario" e quasi bacchettone fustigatore del romanzo come "immorale", in tutte le sue forme) a numerosi altri meno noti, ma altrettanto importanti, come C.F. Schmid e J. .E. Kapp, e D.H. Kemmerich (pp.34-41): figure del dibattito che ebbe luogo su quei temi nella Germania del tempo.

In questa prima parte del volume l’idea che il romanzo sia prima di tutto forma di conoscenza orientata a scopi edificatori viene chiaramente in luce: l’aspetto dilettevole in generale viene visto come funzionale rispetto a quello didattico-morale, con numerose variazioni. Certamente, la mancanza di un’autonomia della dimensione estetica deve per forza far ricadere il romanzo, nella sua verosimiglianza e medietà, nelle opere morali, ed il "conte morale" gioca in effetti un ruolo fondamentale per tutto il Settecento, e non solo in Germania (si pensi allo stesso Rousseau). Questo almeno fino allo "scandalo" Werther del 1774, in cui tutti i canoni moralistici e moraleggianti, appoggiati e riflettuti ad esempio nelle opere dei Popularphilosophen, quasi tutte dedicate all’etica, e più o meno libere da influenze pietistiche, o di altre religioni (Mendelssohn era ebreo) sono genialmente ribaltati dal giovane Goethe. Ma occorre ricordare che ancora in quegli anni un autore come Jacobi, nel suo Allwill (da noi curato in edizione italiana nel 1991, presso Guerini & Associati), la cui prima parte è del 1775, si poneva molti dei medesimi problemi qui tematizzati mezzo secolo e oltre prima del romanzo epistolare jacobiano: che cos’è la verosimiglianza, qual è il limite tra narrazione vera e verosimile, se sia lecito usare l’espediente del manoscritto ritrovato e/o delle lettere "vere", quale genere di morale deve ispirare i protagonisti, e come devono essere edificati/migliorati i lettori? E poi: come avviene la rappresentazione (Dar/Vor-Stellung) e secondi quali canoni estetico-morali deve essere condotta? Che cos’è il realismo?

Tutti temi che tramontano, anche se non scompaiono mai del tutto, con Goethe e poi con i Romantici. Occorre peraltro incidentalmente ricordare che lo Jacobi dei due suoi romanzi, lo Allwill ed il Woldemar, è ancora, anche linguisticamente, come credo di aver dimostrato nei miei scritti sul tema, ampiamente nell’area pietistica, anche se legato all’ambiente basso-renano, aperto all’influenza olandese, e non ad Halle, allora, negli anni Settanta, in deciso declino.

La seconda parte del volume di Scattola tratta de "La dottrina del romanzo nel contesto della historia literaria". In questa parte ci sembra di particolare importanza l’opera di riscatto del valore morale, in quanto valore conoscitivo, del romanzo, che da Huet passa a Thomasius: anche il male è degno di essere rappresentato in quanto parte della natura umana, qualcosa che deve essere conosciuto, per essere (semplificando molto) evitato. La aristotelica "prudentia", virtù delle virtù, può essere insegnata a diversi livelli, ma il romanzo può parlare anche a coloro che non sono addentro alla filosofia pratica e al diritto, e svolge quindi, innanzi tutto, una funzione pedagogica (vv. pp. 73-82); in qualche modo esso compendia e sostituisce l’esperienza diretta, fornisce una visione realistica del mondo, mostra l’uomo qual è, essere misto dove bene e male si affiancano, spesso lottando l’uno contro l’altro.

La terza parte del volume tratta di "Sistema dei personaggi e teoria degli affetti nell’Isola di Felsenburg". Impressionante l’analogia non solo tra la teoria del romanzo di Thomasius, figura centrale per Schnabel, e quella di quest’ultimo, che filosofo non era, ma medico; ma anche il modo, che qui Scattola mette ampiamente in luce, in cui i personaggi di Schnabel riproducono il complesso sistema degli affetti e delle passioni messo a punto, servendosi di schemi complicati, da Thomasius nelle sue opere di teoria morale, in particolare, nella Ausuebung der SittenLehre: Un’ opera peraltro fondamentale, come venne dimostrato nel testo canonico di Werner Schneiders del 1971 sulla filosofia pratica tedesca del Settecento, per lo sviluppo dell’etica fino a Kant.

Se, secondo la teoria del romanzo di Thomasius, questo deve innanzi tutto elevare moralmente l’uomo ed essergli di insegnamento, ecco che è necessaria una rassegna casistico-fenomenologica dei caratteri umani per comprendere, secondo la precisione tipicamente barocca della classificazione (precisa ma spesso non chiara!) tutti i recessi e le sfumature dei due eterni nemici -- la coppia chiave dell’antropologia filosofica dei tempi -- il vizio e la virtù. Anche se Scattola è cauto nel non individuare una fonte univoca per la teoria applicata del romanzo di Schnabel (Thomasius, Budde, Trier, Gundling?) (p. 156), egli fa emergere chiaramente da un serrato confronto tra testo romanzesco e testo filosofico le derivazioni evidenti, il modo in cui la teoria, ancora rinascimentale, poi variamente complicata e sviluppata in età barocca, degli umori e dei relativi temperamenti, e la teoria dei sentimenti, delle affezioni e delle passioni, sviluppata ampiamente da Thomasius e ai tempi suoi, trovi il suo rispecchiamento per dir così, in carne ed ossa, all’interno del lungo e complesso tessuto narrativo di Schnabel (vd. in particolare il complesso sistema degli affetti in Thomasius, pp. 105-112, e il modo in cui Schnabel lo applica).

Il quale Schnabel del resto, in quanto chirurgo

militare, doveva conoscere, se non altro per averla sentita a scuola, la teoria dei quattro umori, e altrettanti temperamenti fondamentali, che poi, con innesti e incroci assai originali, egli applica nel testo.

Un volume, dunque, questo di Scattola, di estrema ricchezza e di esemplare solidità scientifica, che si conclude con una bibliografia esaustiva divisa in "fonti" e "letteratura secondaria"; i testi in latino e tedesco sono tradotti dall’autore e riportati in nota nell’originale come dovrebbe farsi sempre (l’unico appunto: l’index nominum non c’è); un lavoro che affronta in maniera originale un testo oramai quasi dimenticato, cui viene riservato di solito poco spazio nelle storie della letteratura, ma che ebbe grande successo al tempo suo, attirando l’attenzione anche in anni più recenti di critici tedeschi del calibro di Hans Mayer (1954) e Wilhelm Vosskampf (1969; 1988).

Le questioni che apre sono fondamentali per la ricerca sul romanzo prima della svolta romantica: appare sempre più chiaro non solo che per comprendere un testo romanzesco barocco o settecentesco occorra un background filosofico se non addirittura giuspolitico assai solido (come nel caso di Scattola, storico delle dottrine politiche di provata eccellenza, autore di tre volumi in italiano ed uno in tedesco di storia delle dottrine in ambito germanico, e di storia del giusnaturalismo nel Cinquecento).

Correlativamente un romanzo barocco o settecentesco, soprattutto in ambito germanico (lo stesso discorso si potrebbe applicare tuttavia al grande Ludwig Holberg, il principale illuminista danese) è assai più di una narrazione di intrattenimento; come l’estetica non è ancora autonoma nell’ambito della filosofia, così il romanzo appartiene, come forma ibrida, alla storiografia da un lato, storiografia del verosimile, e dall’altro alla filosofia morale e parzialmente alla teologia: se ben si guarda, i personaggi dell’Isola di Felsenburg hanno qualcosa dell’Adamo e dell’Eva biblici, si comportano come loro (esemplare il modo dispotico in cui si servono degli animali, riducendoli al loro servizio dopo averli in parte sterminati, giusto il suggerimento assai poco ambientalistico-animalistico di Genesi, I) con l’eccezione non da poco che riescono a rovesciare la situazione adamitica liberandosi dal male (Lemelie) prima che possa loro nuocere.

Non solo l’estetica, ma il romanzo stesso non è affatto autonomo. Non lo si comprende senza la teologia, la dottrina degli affetti e dei temperamenti, quella delle passioni, la filosofia morale e forse neppure senza l’arte combinatoria classificatoria barocca. Insomma, il romanzo non solo, come voleva Thomasius, serve all’edificazione morale dell’individuo, ma in qualche modo riassume, e presenta in maniera accettabile e forse anche piacevole tutto un universo di dottrine che esso non altera, ma, in prosa attraente (per i tempi) riproduce, smussandone anzi i tratti impervi, forse illanguidendo il rigore della teoria, e, pur in un universo affatto borghese, facendone un’utopia conservatrice, ad uso e consumo dei sudditi fedeli e pii.

Questo volume dunque rende un grande servigio alla germanistica senz’altro, facendole peraltro comprendere come sempre più essa debba assumere prospettive storiografico-interpretative assai ampie, accostando ed elaborando modelli concettuali e strumenti, soprattutto, della storia della filosofia e di quella del pensiero politico. Ma rende un eguale servizio alla storia delle dottrine politiche, invitandola ad allargare panoramicamente il campo di indagine, oltre dunque ai testi utopici da sempre assai praticati dagli storici delle dottrine, da Platone a More, da Campanella a Mercier, per comprendere anche autori, almeno in Italia, quasi dimenticati, come appunto Schnabel. Di cui sarebbe bello vedere a questo punto tradotta un’antologia del poderoso romanzo, che ben rappresenta l’universo intrecciato di affetti, visioni del mondo, morale e religione del primo Settecento tedesco, quando la Germania si stava ristabilendo definitivamente dalla sciagura della Guerra dei Trent’anni: ricordiamoci ad esempio che la produzione libraria tedesca, come ha dimostrato lo storico Fabian, raggiunge quella precedente alla Guerra dei Trent’Anni, ovvero al 1618, solo nel 1740: e l’Europa era all’alba di una rivoluzione demografica e culturale che avrebbe toccato ampiamente, dal 1750 alla fine del Secolo, tutti gli stati tedeschi stessi.

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