Mente ad arte
Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre
di Matteo Balestrieri

Il cinema e le reazioni alle malattie

Share this
1 aprile, 2019 - 19:52
di Matteo Balestrieri

Testo di Matteo Balestrieri e Stefano Caracciolo

  Le comunicazioni e le relazioni che si producono quando insorge una malattia derivano dalla cosiddetta « agenda » del paziente, concetto con cui si vuole rappresentare l’insieme delle sue idee, sentimenti, aspettative e desideri, che sono in relazione con il contesto familiare, sociale e culturale in cui vive. Sullo schermo si possono trovare tanti esempi di reazione alle malattie. Con un certo grado di approssimazione, possiamo distinguere i film in tre categorie:

Pellicole centrate sull’esordio e sulla fase diagnostica: Cleo dalle 5 alle 7 di Agnes Varda del 1962, dramma intimista nel quale una giovane cantante esce dal proprio egoismo nelle due ore in cui attende il risultato delle analisi in sospetto di neoplasia, Così è la vita di Blake Edwards del 1986, in cui spicca la giudiziosa compostezza della protagonista in attesa degli esiti di una biopsia, La stanza di Marvin di Jerry Zaks del 1996, melodrammatica storia a intreccio familiare nella quale la protagonista, in cura a un medico incapace, risulta affetta da leucemia e convoca i parenti per una donazione di midollo, e La mia vita senza me di Isabel Coixet del 2004, di cui si dirà in seguito, dove la protagonista, rifiutando ogni cura, trascorre gli ultimi mesi cercando con serenità alcune delle cose belle che la sua vita breve e difficile le aveva negato. Lo spunto è lo stesso di Non è mai troppo tardi di Rob Reiner del 2008, con due malati terminali che riscoprono la gioia di vita in extremis. Al contrario, il lieto fine restituisce la serenità all’avvocato Lorenzo dopo un sospetto di tumore cerebrale, in un film del 2006 di Eugenio Cappuccio il cui titolo – Uno su due – allude alle altalenanti probabilità di sopravvivenza dei pazienti di fronte alle statistiche mediche. Da notare in questo film, come nel precedente e come in Un medico, un uomo (1991), l’importanza della nascita di una solidarietà fra pazienti;

Pellicole centrate sul decorso e sul trattamento: in un episodio di 9 vite di donna di Rodrigo Garcia del 2005 la paziente Camille, in attesa di mastectomia, mostra tutte le caratteristiche irrazionali della paura, della rabbia e della tensione nella reazione di attesa all’anestesia e all’operazione mutilante. Altri esempi sono Un medico, un uomo di Randa Haynes del 1991, pluricitato nelle iniziative formative, e La forza della mente - Wit di Mike Nichols del 2001;

Pellicole centrate sulle fasi terminali: My Life – Questa è la mia vita di Bruce Joel Rubin del 1993, in cui il paziente morente, affetto da tumore del rene, affida alle videocassette i suoi messaggi al figlio che sta per nascere, oppure il melodrammatico Scelta d’amore di Joel Schumacher del 1991 in cui la leucemia pone fine ad una storia d’amore fra un miliardario e la sua infermiera, o ancora Autumn in New York di Joan Chen del 2000, delicata storia d’amore in cui interviene una morte per tumore. In Il tempo che resta di François Ozon del 2005 il protagonista riceve la comunicazione di una diagnosi di tumore in fase metastatica da un medico assai corretto e rispettoso, decidendo però di passare tutto il tempo che gli resta a vivere senza accettare alcuna cura. Un discorso a parte merita Le invasioni barbariche di Denys Arcand del 2003, per la grande umanità del protagonista, l’accuratezza della descrizione delle fasi di reazione psicologica alla malattia, la vicinanza e il calore del gruppo ‘storico’ degli amici, il mobilitarsi della famiglia di fronte alle necessità della malattia nelle fasi più avanzate. Per qualità artistica e per originalità si segnala Voglia di tenerezza di James Brooks del 1983, in cui la protagonista, affetta da neoplasia incurabile, trova nella crisi di malattia un’occasione di crescita per riconciliarsi con l’ex-marito e con la madre. Un altro interessante film è infine Son Frere di Patrice Chéreau (2003), per il travagliato percorso verso la fine del protagonista, accompagnato dal fratello in un difficile percorso.
 
Alcuni esempi di reazioni alle malattie
 

  Prendendo esempio da alcune di queste pellicole, ci si può soffermare sul tema della trasformazione del modo di pensare delle persone poste di fronte alla possibilità concreta di poter morire. Sono state descritte diverse possibilità di reazione alla malattia, dall’incredulità, allo shock, alla rabbia, alla disperazione, alla fuga liberatoria che può giungere fino alla maniacalità, al cinismo, allo stoicismo, fino alla piena accettazione. Le possibilità di rappresentarsi la propria condizione (cioè il mentalizzarsi) in modo adeguato possono venire meno, perché il pericolo proviene dal proprio interno corporeo, in una sorta di tradimento della propria identità. E’ stato anche affermato come le diverse reazioni si alternano ed hanno un’evoluzione nel corso della malattia (Elisabeth Kübler Ross). In realtà però le cose non stanno proprio così. Alcune volte le reazioni iniziali non riescono ad evolversi in un atteggiamento più adeguato, soprattutto quando non c’è nessuno in grado di favorire questo percorso.

  Nel film Le invasioni barbariche di Denys Arcand, Remy, cinquantenne professore di storia, è ricoverato per un cancro terminale. Ha vissuto all’insegna del piacere fisico ed intellettuale, con numerosi tradimenti alla moglie Louise, che però gli è rimasta amica (dice “Sono quindici anni che l'ho scaraventato fuori di casa. Quindi, che sia qui o nel suo appartamento a saltare addosso a qualche studentessa, non è che mi cambi molto la vita!”). Quando si avvicina la fine, Louise chiama il loro figlio, Sébastien, ormai affermato uomo d’affari a Londra. Sébastien, che ha da tempo interrotto i rapporti con il padre, fa di tutto per rendergli gli ultimi giorni sopportabili: corrompe funzionari ospedalieri e sindacalisti per mettere in ordine un reparto, chiama al capezzale i vecchi amici e le amiche-amanti del padre, paga alcuni ex-allievi perché lo vadano a trovare, fa in modo che sua sorella comunichi tramite satellite con il padre, arriva a comprare eroina in modo da alleviargli i dolori della malattia. Dapprima forzoso, il comportamento di Sébastien si permea progressivamente di una sincera pietas filiale. Remy, arrabbiato per l’avvicinarsi della morte, non riesce comunque a rinunciare a se stesso. Circondato da amici e familiari, chiede e ottiene di morire serenamente con un’iniezione letale. Il film è densissimo di riferimenti letterari, sociologici, filosofici, cinefili, etici (vedi l’eutanasia, accettata tout court), trattati con un’alternanza di riflessione e di humour. Da un punto di vista psicopatologico, è interessante l’incapacità di fare i conti con la morte di Remy, anche perché si rende conto di aver vissuto una vita di basso profilo. L’ipertimico Remy non è in grado di iniziare un’adeguata elaborazione, perché questa è possibile solo attraverso il vissuto depressivo. La sua morte comunque è serena, in una sorta di cancellazione di tutte le contraddizioni della sua esistenza.

 

  Anche in Son Frere di Patrice Chéreau è rappresentato il difficile percorso di accettazione della malattia. La storia è quella di Thomas, che compare improvvisamente a casa del fratello Luc. Thomas ha una piastrinopenia sulle cui cause i medici stanno indagando. È angosciato dall’irreversibilità della malattia, dalla sofferenza fisica e dall’idea di dover affrontare continui esami e probabilmente alcune operazioni chirurgiche. Tra i due fratelli riemergono vecchi conflitti e recriminazioni, tuttavia Luc sorregge Thomas superando la riluttanza iniziale e cercando di conciliare la propria vita omosessuale con il recupero di un’affettività fraterna. Al contrario Claire, la ragazza di Thomas, dopo anni di fatiche spese per aiutarlo, si arrende e lo lascia. I genitori sono frastornati, petulanti o francamente aggressivi (memorabile la frase del padre “Era meglio se fosse capitato a Luc, perché non l'ha presa lui questa malattia?”). Medici e infermieri, impegnati nello scoprire le cause della malattia, sembrano avere invece un corretto atteggiamento comunicativo. Thomas esprime in modo veritiero molte delle comuni reazioni alla malattia, dall’angoscia alla paura, dall’aggressività alla depressione, dalla negazione alla fuga. Anche chi è attorno a lui esprime emozioni comuni, dalla angoscia empatica di Luc alla frustrazione con fuga di Claire, dalla banalizzazione e aggressività dei genitori, all’atteggiamento professionale calmo e supportivo dei medici e degli infermieri. Pur potendo contare sull’aiuto del fratello, alla fine Thomas non resisterà comunque al proseguire della malattia, ponendo fine ai suoi giorni nel mare di Bretagna. Rimane fino in fondo un uomo che non accetta di vivere nel rischio, che non accetta che il proprio corpo perda il fascino e la bellezza della salute. A Luc non resterà che denunciare la sua scomparsa al termine di una vicenda dolorosa di riscoperta, almeno parziale, di se stesso.
 

  Un racconto diverso è quello di La mia vita senza me di Isabel Coixet. Ann ha vent’anni e vive in un camper con un marito immaturo e infantile e due figlie. Nonostante le difficoltà economiche e un rapporto ruvido con la madre, Ann ha una vita serena. Quando inizia a provare alcuni sintomi, le viene diagnosticato un cancro alle ovaie e le vengono pronosticati solo due mesi di vita. Decide allora di non dire niente, mantiene una facciata di tranquillità e continua la sua vita. E’ una donna estremamente concreta (dice “Non dobbiamo chiedere il perchè delle nostre ferite, ma solo se possono essere curate”), il suo programma di vita deve cambiare e lei lo trasforma in un progetto di immediata realizzazione: fare le cose che non ha mai potuto fare. Tra queste, fare l’amore con un altro uomo. Ma anche, cercare una donna per suo marito e una nuova madre per le sue figlie. Il primo obiettivo le riesce, il secondo lo avvia e può solo sperare che si realizzi quando la vita continuerà senza di lei. Ma Ann sarà comunque presente nella vita della famiglia, perché per le figlie ha registrato molti messaggi su cassetta, che affida al suo oncologo perché gliele invii ad ogni loro futuro compleanno. Si può condividere la risposta di Ann? Forse sì, tenendo conto del contesto dei suoi affetti, nel quale lei si ritaglia il ruolo di madre e guida. Sa che può solo dare e nulla ricevere, lei sola può giudicare e condurre la sua vita. Significativa è la scena in cui Ann dice di non volere farmaci palliativi, perché ha bisogno di avere la sensazione di controllare la situazione. Abituata da sempre a prendersi carico di tutti, dal marito-fanciullo al suo provvisorio amante, si prende le sue piccole e grandi soddisfazioni, in quel modo cinico che le è permesso dal non avere più tempo a disposizione. Pur nel contesto di una sua ulteriore “presa in carico” dell’oncologo curante, ritiene che quest’ultimo sia la persona più concreta a disposizione, ed affida quindi a lui le proprie cassette registrate destinate ad essere ascoltate negli anni dalle figlie. Interessanti sotto diversi punti di vista sono le loro scene di relazione medico-paziente. L’oncologo è estremamente imbarazzato nel riferirle la diagnosi: senza guardarla negli occhi le confessa “non riesco a sedermi di fronte a qualcuno e dirgli che sta per morire. Non ne sono mai stato capace”. È ovviamente molto riprovevole sia il modo con cui egli comunica, sia la confessione non richiesta della propria incapacità. In una delle scene finali l’oncologo riesce peraltro a sedersi in fronte a lei, e Ann con ironia mista ad affetto gli chiede se non abbia iniziato una terapia per superare la timidezza.
 
  Prendendo spunto da queste pellicole, si potrebbe pensare che il cammino di ognuno è così personale, che non si possono fare eccessive generalizzazioni. Aiutare qualcuno a trovare la propria via di uscita è necessario, ma questo non sembra essere sufficiente. Si potrebbe dire che molto dipende dalle convinzioni personali. Remy ed Ann arrivano alla propria fine accettandola, ma il primo ha amici e familiari attorno, mentre Ann è alla fine sola. Thomas invece ci arriva disperato, con una vita non risolta, pur riuscendo alla fine a recuperare suo fratello. Un aspetto importante è d’altra parte quello che Remy ed Ann hanno la percezione di avere costruito, pur in maniera ingarbugliata, una famiglia che continuerà ad esistere, mentre Thomas non c’è riuscito. Ma altri livelli di comprensione sono possibili (non ultimo il ruolo del dolore e del disfacimento fisico, assolutamente in primo piano in Son Frere), ed in ultima analisi dovremmo dire che ci rimane un po’ la sensazione dell’ineffabilità dell’esistenza.
> Lascia un commento



Totale visualizzazioni: 6992