IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Filosofia e psichiatria?

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27 giugno, 2016 - 09:50
di Antonello Sciacchitano

Esito ad affrontare il tema proposto da questo binomio. Le ragioni stanno all’intersezione delle due aree disciplinari. Che, se fosse vuota, non metterebbe conto parlare del rapporto tra le due. Mentre, se non fosse vuota, richiederebbe riconoscere quanto la filosofia possa essere o non essere psichiatrica e la psichiatria essere o non essere filosofica. Sono temi pesantemente a rischio di inquinamento ideologico. I pregiudizi si annidano alla base dei giudizi. Per minimizzare il rischio ideologico, probabilmente senza riuscire ad azzerarlo, tento di prendere in considerazione sincronicamente tutte e quattro le combinazioni, analizzandole in un contesto ipotetico-deduttivo, potenzialmente scientifico.
 
1. Se la filosofia è psichiatrica.

Questa è l’ipotesi cui mi sento più vicino e come psichiatra e come epistemologo di provenienza psicanalitica; è perciò quella che svilupperò più a fondo, ben sapendo di suscitare l’ostilità e la diffidenza del collega filosofo. Il mio pregiudizio è che in comune filosofia e medicina, in particolare filosofia e psichiatria, abbiano di essere due discorsi intorno alla certezza e alla causa.
I due argomenti sono strettamente correlati: la ricerca delle cause mira alla conoscenza certa del vero. L’antico e inveterato presupposto è che si conosce veramente, cioè con certezza, il fenomeno se si conoscono le vere cause che l’hanno prodotto. La massima certezza tu l’hai nei confronti della cosa costruita da te, cioè della quale tu sei la causa efficiente. Gli antichi non ci sapevano fare con l’incertezza; giocavano a dadi ma non avevano un calcolo delle probabilità. Non sapevano fare previsioni statistiche ma solo predizioni oracolari. I loro giochi erano puri giochi d’azzardo nella completa ignoranza della struttura della casualità. Non avevano neppure la nozione di variabile, ai cui valori assegnare pesi probabilistici. Chi sdoganerà l’incertezza nel discorso scientifico sarà Cartesio con la sua equazione: incerto (o verosimile) = falso. La scienza moderna, diversamente dall’antica, ci sa fare con il falso: o sa come confutarlo o, se è incerto, sa come calcolarne la probabilità.
Oggi, disponendo della nozione di probabilità, la nozione di causa risulta necessariamente indebolita; decade a semplice correlazione statistica, quindi a calcolo di probabilità, che trasforma l’incertezza in certezza media. Infatti, se c’è l’effetto probabilmente c’è stata la causa, che l’ha prodotto, ma anche probabilmente non c’è stata quella causa ma un’altra; se non c’è l’effetto probabilmente non c’è stata la causa, che l’ha prodotto, ma anche probabilmente c’è stata la causa… inefficiente. Per stabilire la correlazione statistica occorrono quattro valori di probabilità per quattro eventi distinti: causa presente/effetto presente, causa assente/effetto presente (sic), causa presente/effetto assente (risic), causa assente/effetto assente. L’ontologia antica, essendo analogica, tagliava tutto il discorso della discordanza tra causa ed effetto (le controprove). Era un discorso analogico sulla concordanza e totalmente deterministico.
La nozione di causa, che sarà adottata dal pensiero occidentale nei millenni successivi, fu formulata per la prima volta dal medico di Cos, Ippocrate, nell’Antica medicina (IV secolo) in polemica con il fisiologo Empedocle. Cito la definizione nella traduzione (un po’ prolissa) di Vegetti:
“Dobbiamo in verità ritenere che la causa di ogni singola malattia consista in quei fattori che, se presenti, ne determinano l’insorgere necessariamente e in un modo ben preciso; se invece trasmutano in un’altra combinazione ne consentono la cessazione” (Ippocrate, Antica medicina, trad. M. Vegetti, Rusconi, Milano 1998, p. 87).
È chiara l’esigenza del terapeuta di disporre di cause efficienti contro le cause morbose, perché tolte queste si toglie necessariamente la malattia. Purtroppo le cose non sono così semplici.
Nel Fedro (270b sg) Socrate di nome ma Platone di fatto sottoscrive il valore eziologico delle due arti (o tecniche): la retorica e la medicina:
“In entrambe le arti dobbiamo determinare la natura, del corpo nell’una, dell’anima nell’altra, se si vuole somministrare scientificamente, e non per pratica empirica, le medicine e la dieta al corpo, onde apportare sanità e forza, o ragionamenti e norme di condotta all’anima onde infondere la persuasione o la virtù all’anima”.
Consulenza filosofica ante litteram? Anche, ma non solo. Ciò cui assistiamo è la transizione dalla “prima navigazione” ilozoista alla “seconda navigazione” socratica. Nella prima i filosofi ilozoisti cercavano cause fisiche (empiriche) per i fenomeni fisici, forse a eccezione di Anassimandro che postulava come causa prima l’indeterminato o apeiron. Nella seconda Platone inventò la metafisica, che arriva fino a noi, postulando cause metafisiche (metaempiriche) per “salvare i fenomeni” fisici (sozein ta phainomena).
La metafisica della causa trovò la sistemazione definitiva in Aristotele, che nel secondo libro della Fisica (in realtà metafisica), dopo aver a tentoni argomentato sulla fortuna e sul caso, se sono da considerare cause oppure no, distingue quattro tipi di cause: materiale, efficiente, finale e formale. Il discorso eziologico arriva fino ai giorni nostri. Su di essa Schopenhauer fondò la propria ontologia “morale”. Premesso che “il principio di ragion sufficiente, in tutte le sue forme, è il solo principio e il solo portatore di ogni e qualunque necessità” (A. Schopenhauer, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1847), trad. S. Giametta, Rizzoli, Milano 1995, p. 215. § 49), la causa finale diventa causa del divenire, la materiale dell’essere, l’efficiente dell’agire e la formale del conoscere. Mezzo secolo fa Lacan in La scienza e la verità (1965) attribuiva la causa efficiente alla magia, la causa finale alla religione, la causa formale alla scienza, la causa materiale (la materia significante) alla psicanalisi. Insomma, all’interno dell’assetto metafisico classico la vera scienza, quella che porge certezze categoriche sia teoriche sia pratiche, è lo scire per causas. Concretamente, la vera scienza era per gli antichi la storiografia, a livello collettivo, ed è tuttora la medicina, a livello individuale o clinico. All’interno di questa metafisica Goethe dirà che “la storia della scienza è la scienza stessa” (J.W. Goethe, La teoria dei colori (1810), trad. R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 9). Ancora oggi la medicina è considerata scienza perché indaga le cause delle malattie e le contrasta. In realtà, la medicina, la psichiatria in particolare, è una tecnica – un’arte direbbe l’antico greco – che applica ritrovati scientifici escogitati altrove e ingegnerizzati a uso diagnostico-terapeutico.
Con la metafisica delle cause ha radicalmente chiuso Galilei, che ha investigato la correlazione tra spazi e tempi del moto uniformemente accelerato indipendentemente dalle sue cause “naturali”. Galilei ha introdotto in epistemologia un metodo per acquisire la certezza scientifica del tutto nuovo, sconosciuto agli antichi: la generalizzazione. Galilei lavorava su modelli. Ogni diverso piano inclinato offriva un modello di moto uniformemente accelerato. La novità epocale fu riconoscere che questa molteplicità è unitaria: presenta un invariante unificatore, cioè la relazione quadratica tra tempi e spazi percorsi, che vale in ogni modello. In tale procedura Einstein riconoscerà il principio di relatività di Galilei: le leggi della fisica si scrivono formalmente allo stesso modo in tutti i riferimenti inerziali, cioè in tutti i sistemi di coordinate spaziotemporali che si muovono di moto uniforme l’uno rispetto all’altro. Non si può non pensare alla causa formale che secondo Schopenhauer e Lacan è all’opera nella conoscenza scientifica. In sintesi, con Galilei il pensiero scientifico transita dalla modalità eziologica alla modalità relativistica di pensare; dopo Galilei si pensano modelli diversi ma equivalenti (non è una contraddizione). Ogni modello è una finzione (parente delle finzioni letterarie) che ha senso insieme a finzioni affini. (Noto en passant che anche la geometria degli indivisibili di Bonaventura Cavalieri, allievo di Galilei, fu una sorta di “geometria cinematica” dell’infinito continuo, che ha anticipato la teoria cantoriana degli insiemi e la teoria del trasporto parallelo nel calcolo delle varietà geometriche).

La medicina e la sua cugina la psicoanalisi, invece, hanno continuato imperterrite a tessere il discorso eziologico dei filosofi, incurante di cosa succedeva nella porta accanto. Non ne ha mai voluto sapere di generalizzare, ma ha fatto sempre riferimento alla clinica del caso singolo. La psichiatria, essendo medica, ha sviluppato il riferimento all’anima, secondo Bleuler, all’apparato psichico, secondo Freud. Lì lo psicanalista colloca le sue cause psichiche metapsicologiche: le pulsioni sessuali e la pulsione di morte. Invano von Brentano aveva fatto sentire la sua voce: “Eine Seele gibt es nicht” (Non esiste l’anima, in F. von Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico (1874), trad. L. Albertazzi, Laterza, Bari 1997, p. 76).

L’evoluzione naturale della tendenza della psichiatria alla filosofia, convergendo con l’altrettanto naturale tendenza della filosofia alla psichiatria, porta all’attuale consulenza filosofica, che pretende curare il disagio psichico, correggendo le idee “sbagliate” che il soggetto concepisce su di sé e sul mondo. Essendo debolmente medicale non si presta molto alle valutazione in uso per giudicare le terapie mediche (sperimentazione clinica con metodologie statistiche). A mio avviso, la consulenza filosofica è solo un’occasione di lavoro per laureati in filosofia che non trovano un posto di insegnamento nelle scuole secondarie. In fondo, anche la consulenza filosofica si configura come un “adesso ti insegno io a vivere”, come già pretendeva Platone.
 
2. Se la filosofia non è psichiatrica.

Se la filosofia non fosse minimamente psichiatrica, sarebbe una filosofia senz’anima, quindi probabilmente non sarebbe più filosofia nel senso in cui da Platone in poi si intende la pratica filosofica, stabilito da Emerson: la filosofia occidentale è Platone. Credo che anche la filosofia più materialista, se mai ne è esistita una che sia riuscita a liberarsi del tutto del carico metafisico-idealistico di provenienza platonica, non possa liberarsi della pregiudiziale psichica, per lo meno sotto forma di anima collettiva. Che cos’era la lotta di classe se non l’azione dell’anima collettiva – un’anima che non esiste più, essendo cambiati i modi di produzione economica (finanziarizzazione, virtualizzazione ecc.)?
In Europa l’esempio maggiore di successo di filosofia non psichiatrica, che tuttavia non si sottrae al dovere di giudicare la psichiatria, senza psichiatrizzare il disagio mentale, è l’ontologia del presente di Foucault. La sua analisi della soggezione al potere è più incisiva e più attuale della Massenpsychologie di Freud. Si tenga comunque presente il debito contratto da Foucault nei confronti dei suoi grandi maestri Canguilhem e Sartre. Quest’ultimo ha analizzato la struttura dei collettivi nella Critica della ragion dialettica.
 
3. Se la psichiatria è filosofica.

Indubbiamente, è esistita una psichiatria strettamente filosofica: la psichiatria fenomenologica e/o esistenzialista. Non entro nel merito dei contenuti di questa psichiatria (variante Minkowski o variante Jaspers-Bingswanger), che sono tanto storicamente apprezzabili quanto oggi sono instradati sul viale del tramonto. In Italia il suo canto del cigno fu il movimento per l’apertura dei manicomi, avviato da Basaglia. Il mio giudizio puramente formale ed estrinseco su questa psichiatria è quello che riservo alla fenomenologia in generale, e alla fenomenologia husserliana in particolare. Questa filosofia e la connessa psichiatria sono, a mio debole parere, il tentativo (infelice) di prendere le distanze dal positivismo e dalla psicoanalisi, che secondo Husserl non rendevano conto del mondo della vita e dei corrispondenti vissuti soggettivi. La fallacia husserliana fu identificare scienza a positivismo. Se per combattere il “riduzionismo positivista” o la “mitologia psicanalitica” mi tocca parteggiare per l’idealismo che gronda dalle pagine della Crisi delle scienze europee (1935-36), rispondo “No, grazie”. Preferisco l’originale platonico, per esempio l’insuperabile Parmenide, che pone l’uno come fattore dell’essere, sia che sia, sia che non sia (cfr. J. Lacan, Seminario XIX, 19 aprile 1972). Faccio notare l'ironia della sorte: la Crisi fu composta nel momento di massimo fulgore delle scienze europee, prima che diventassero la big science globalizzata che conosciamo oggi. O il filosofo non si aggiorna su quel che dice? È quasi come lo psicanalista.
 
4. Se la psichiatria non è filosofica.

Questa è la pretesa ideologica – l’ateoreticità – che oggi attrae maggiori consensi per ragioni economiche: vendere psicofarmaci e commercializzare polizze assicurative. Entrambe le operazioni sono in conto profitto del capitale; quindi per essere realizzate con un rischio calcolato richiedono ragionevoli basi statistiche, che vanno oltre le preoccupazioni per la salute mentale del singolo individuo. L’esponente maggiore di questo partito è la corrente ateoretica che si materializza nell’operazione DSM, manuale che correla la diagnosi individuale alla statistica collettiva.
Tuttavia, esiste un’interessante e consistente variante di psichiatria non filosofica alternativa a quella farmacologico-assicurativa: è la psichiatria sistemica, la quale occupa il territorio aperto dal pragmatismo americano, in generale, e da Bateson in particolare. Intorno al significante “sistemico” si materializzano contributi diversi, che vanno dalla cibernetica alla semiotica, dalla mente incorporata di Maturana e Varela all’analisi del linguaggio schizofrenico con modelli non dissociativi, in una sintesi eclettica su cui forse è prematuro esprimere un giudizio definitivo. Certo è che la psichiatria sistemica esprime un’attenzione alla psicologia sociale e alla psicoterapia di gruppo, in particolare familiare, molto maggiore degli approcci psicanalitici ortodossi.
Quanto posso dire è che se non essere filosofici porta a questo guadagno, allora viva la non filosofia!
 
5. Un trattato di psichiatria on line

Poco prima di postare questo testo ricevo la proposta di Francesco Bollorino di mettere in cantiere un trattato italiano di psichiatria on line. È una bellissima idea, anche un po’ folle, a cui se si aderisce bisogna aderire con il cuore prima che con la mente. La difficoltà è creare e dirigere un gruppo di lavoro che sappia cooperare, nonostante le tante fratture ideologiche tra farmacologia e psicodinamica. L’opzione che adotterei è proprio l’ultima, “per una psichiatria non filosofica”, più come riferimento ideale che come indicazione pratica, perché ogni operatore psi ha una propria “filosofia spontanea” cui si attiene e a cui non rinuncia, nel timore di perdere la propria identità. Certo è che se si lascia la filosofia fuori dalla porta si rischia di combinare un doppione del DSM.
L’ideuzza che propongo alla discussione è quella di una psichiatria poco psichiatrica, ossia poco medicale, orientata ad affrontare più il disagio collettivo che la terapia individuale.
 
 

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Commenti

L'intersezione che mi interessa di più è quella tra filosofia non psichiatrica e psichiatria non filosofica. E' esatto il riferimento al pragmatismo americano (penso soprattutto all'Altro Generalizzato di Mead) per quel che riguarda il riferimento teorico della psichiatria sistemica. Vorrei ricordare, sulversante della filosofia non psichiatrica, oltre a Foucault, il lavoro fatto dalla coppia Deleuze-Guattari, con l'Antiedipo, Mille piani, Capitalismo e schizofrenia, e Che cos'è la filosofia?. Ricordiamo che Guattari era uno psichiatra che aderiva al movimento dell'Antipsichiatria....... Il loro contributo fondamentale è una decostruzione del mitologismo-causalismo freudiano. La riduzione di tutta la dinamica energetica psichica al mito nucleare e familiare di Edipo, con il suo correlato della castrazione, per DG è da dimenticare. Ugualmente da dimenticare è quindi il mito della causa prima della storia nevrotica del soggetto individuale: l'Ur-trauma. Per DG Freud manca del tutto la dimensione del collettivo, riducendola a quella dell'individuale. La costruzione di un trattato di psichiatria online innovativo, dovrebbe forse riconsiderare il modello delle Macchine Desideranti (acausalistico, afinalistico, ovvero indeterministico) presentato da DG.
Buon lavoro


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