BUONA VITA
Sostenibile e Insostenibile, tra Psiche, Polis e altre Mutazioni
di Luigi D'Elia

Il suicidio grandioso dei recenti episodi stragisti

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24 luglio, 2016 - 19:59
di Luigi D'Elia

Ciò che sta avvenendo nel mondo in queste ultime settimane, con i ragazzi islamici o di origine extraeuropea che compiono stragi, è un fenomeno che presenta alcuni aspetti di novità ed altri no. Cominciamo con i secondi.
Non è una novità che esista nel mondo islamico una deriva terroristica incarnata da organizzazioni internazionali e al momento persino anche da uno stato chiamato ISIS
Non è una novità che esistano psicopatologie da shock culturale o più volgarmente dette da adattamento che sono il risultato dell’incontro, quasi sempre traumatico, tra civiltà diverse e lontane
Non è una novità che esistano psicopatologie dell’area psicotica, paranoidea, dell’area antisociale, dell’area dei disturbi della personalità distribuite in ogni angolo del mondo
Non è una novità che le fenomenologie psichiatriche siano nutrite dai materiali che ciascuna cultura e ciascuna epoca forniscono loro di volta in volta, talora (raramente) incarnando l’idea di male assoluto e allo stesso tempo di grandezza: sentirsi Napoleone, sentire i microchip nella testa, sentirsi indemoniati, sentirsi stragisti dell’ISIS.
Invece ciò che è qualitativamente nuovo è che tutti questi fenomeni facciano per così dire “cortocircuito” producendo qualcosa che, in termini di aggregazione degli stessi fenomeni e di velocità con cui avviene tale cortocircuito, non conosce, almeno secondo le mie conoscenze, precedenti.
Nell’arco di pochi giorni nel cuore dell’Europa (con il precedente di Orlando di poche settimane fa), tre ragazzi, 17, 18, 31 anni, di cui due adolescenti, il diciasettenne nato in Afganistan, il diciottenne nato in Germania di madre iraniana e padre tedesco, e poi il trentunenne nato in Tunisia e trapiantato in Francia, decidono di porre fine alla loro vita in maniera plateale e grandiosa, incarnando ciò che l’attuale mainstream informativo declina ormai come il male assoluto, l’oggetto principe del panico collettivo: lo stragismo di matrice islamica. Il tutto nel mentre in altre parti del mondo le stragi islamiste, quelle vere, con i martiri che si fanno esplodere nella folla, proseguono indisturbate mietendo decine e centinaia di morti e feriti, saldandosi in un unico paradigma comunicativo inequivocabile: guerra, distruzione, morte.
Si genera però una grande confusione: la matrice islamica in questi ultimi casi europei non è dimostrata (nei casi dei due più giovani) o è debolissima e tirata per i capelli (nel caso del tunisino di Nizza le indagini sono ancora in corso), per cui tale matrice la si può rintracciare solo nelle origini famigliari e culturali degli stragisti. Invece ciò che appare evidente è che tutti questi nuovi stragisti siano evidentemente delle persone con importanti problematiche psichiatriche precedenti e che compiano (o tentino di compiere come per il diciasettenne) stragi che rimandano più a quelle degli omologhi ragazzi occidentali, da Columbine fino ad Utoja, nelle diverse varianti e sfumature.
E dunque, chi e cosa sono questi stragisti, semplici malati di mente che imitano Breivik, malati di mente al servizio dell’internazionale terroristica islamista, dei disadattati che si radicalizzano in men che non si dica e si vestono da stragisti islamici? Davvero una gran confusione.
Di certo i processi imitativi sembrano giocare in questo caso, forse più che in altri, un ruolo centrale e decisivo. Il ragazzo tedesco-iraniano pare che avesse nella sua camera molto materiale sullo stragismo dei ragazzi occidentali e il suo gesto forse non a caso è avvenuto proprio nel quinto anniversario della strage di Utoja. Ma affidarci all’imitazione come passepartout interpretativo e risolutore di tale complessità non sembra una buona idea. Qualcuno infatti dovrebbe spiegarci come mai gli stessi processi imitativi non si attivino così facilmente in altri momenti storici.
Un'altra chiave di accesso, forse più promettente è quella “etnopsicologica”: per tutti questi casi dove la condizione di incontro/scontro etnico appare comune denominatore, un ruolo centrale e decisivo, come già accennato, lo giocano i problemi legati allo shock culturale: tutti questi ragazzi, in un modo o nell’altro sono figli dei recenti processi di globalizzazione, di migrazione, di integrazione impossibile o difficile, di neo-colonialismo culturale, con derivazioni nei percorsi di marginalizzazione, di esclusione, di bullismo, di alienazione ed infine di disagio mentale conclamato.
Ma anche in questo caso questa chiave di lettura “etnopsy” per quanto particolarmente euristica, non appare ancora sufficientemente esaustiva per cogliere complessivamente questo nuovo fenomeno. Anche il questo caso il disadattamento culturale avrebbe dovuto produrre stragisti ben prima di questo momento storico.
Possiamo proseguire così per ognuno dei fattori che ci sembrano cause dirette o indirette e profonde di questi ultimi episodi (psicosi, imitazione, shock culturale, internazionalizzazione del terrore, etc.), e per ciascuno ci dovremmo arrendere contro l’evidenza della loro insufficienza se presi isolatamente. Occorre allora provare a contestualizzare e interpolare meglio e più profondamente i fenomeni già noti e già descritti (psicosi, imitazione, shock culturale, internazionalizzazione del terrore, etc.) con il periodo storico che viviamo.
Nel contestualizzare e interpolare i fenomeni scopriremmo quindi che le variabili veramente nuove che introducono elementi qualitativi inediti corrispondono alla rapidità con la quale oggi è diventato possibile reperire le informazioni necessarie e sufficienti per diventare un suicida grandioso. La variabile che sembra davvero nuova riguarda perciò la rapidità dei processi di elaborazione identitaria, la rapidità cioè con cui il materiale culturale riesce ad incarnarsi in individui particolarmente predisposti e a interpretare con estrema precisione le loro mire distruttive.
Assistiamo dunque all’applicazione del concetto di “radicalizzazione” non più e non già soltanto al fanatismo dei foreign fighters che fuggono in oriente a combattere o viceversa rimangono qui silenti ad attendere un’organizzazione terroristica che li recluti e li utilizzi (in tal caso la manipolazione è il risultato di un lento processo di rielaborazione culturale), ma la radicalizzazione deve potersi riferire ad ogni forma di disagio, marginalità, alienazione culturale, e quindi può investire ogni ragazzo di etnia non europea di seconda e terza generazione, talora anche trapiantato, oppure in futuro anche altre forme di disadattamento sociale anche in ragazzi di etnia europea, purché in grado di attingere con il necessario insight spettacolistico alla banca dati della distruttività messa a disposizione dai nuovi media.
Come in certi film di fantascienza dove basta un gesto, un virus, un contatto a trasformare chiunque in un solo attimo nello zombi, nel mostro, nell’agente Smith del film Matrix, il ragazzino di origini islamiche oggi (domani chiunque) con problemi di disadattamento e di disagio mentale importante, scarica la sua divisa virtuale e reale di suicida grandioso dal suo pc e la indossa con una facilità che a noi appare ancora incomprensibile. Il male assoluto adesso ha un preciso brand accessibile a tutti e rapidamente assimilabile.
Questi nuovi processi distruttivi riguardano e interrogano esclusivamente la nostra civiltà i nostri stili di vita dal momento che questi ragazzi suicidari e stragisti sono cresciuti qui. Ma questo è un altro discorso.

 

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Commenti

Lo scritto di D'Elia ed il richiamo ad una analisi multifattoriale del fenomeno mi porta alla mente un articolo del 2011, scritto a 4 mani con Bruno Callieri, che volemmo titolare: "L’ambigua identità dello psicopatologo clinico e dell’analista junghiana in una prassi condivisa".
Guardavamo allora la scena aperta a partire da un XX secolo al termine, e vedevamo che la caduta del Muro di Berlino portava via l’illusione di un bene e male rappresentati , sin allora semplicisticamente, dai blocchi contrapposti di America e Russia, facendoci transitare in un periodo complesso, da considerarsi anche alla luce dell’Undicesimo Comandamento enunciato da A. Glucksmann : “che nulla di ciò che è inumano ti sia estraneo", quindi nella ineludibile necessità di guardare in faccia il male come dimensione diffusa e divenirne consapevoli.
Dalla metà degli anni “80, lo sviluppo progressivo delle nuove tecnologie – amplificando in modo prima impensabile le possibilità del conoscere e del comunicare - ha in primis alterato la stessa percezione / fruizione della realtà, soprattutto rispetto ai parametri tempo e spazio: fattore non di poco conto nel favorire il diffondersi di modalità esistenziali connotate di onnipotenza.
I mutamenti sociali, soprattutto rispetto ai parametri del pluralismo e della multi-etnicità , hanno man mano portato a nuove interpretazioni della realtà evidenziando l’opportunità di uno sguardo allargato, progressivamente capace di comprendere concezioni di vita e valori diversi.
L’ampliamento delle conoscenze è andato affiancandosi alla relativizzazione progressiva del cosiddetto pensiero forte .
Nell'affievolirsi occidentale dei valori, le categorie di Bene, Male, Giustizia, Verità, sono divenute man mano meno nette, sfociando – a livello collettivo - in una sorta di superficialità morale (nuova forma dell’accidia?) mentre in altre parti di mondo questi riferimenti si radicalizzavano in vecchi e nuovi fondamentalismi.
Emblematico appare il vissuto collettivo della idea di Morte, persa la dimensione di limite capace di dar senso all’ esistenza, ha piuttosto configurato una scissione degli opposti, tra rimozione e spettacolarizzazione, esitando talvolta in agiti inconsulti e distruttivi, sino agli epiloghi parossistici del togliere / togliersi la vita anche per eventi che al nostro sguardo appaiono carenti o privi di senso.
I mass media si sono posti come cassa di risonanza, non di rado incentivando le aree di confusione, ancor più accentuato la polarizzazione già in atto, e spesso paradossalmente hanno creato nuovi miti distruttivi con la minuziosa e spesso ridondante descrizione delle stragi.
Questo il contesto storico – sociale in cui corrispettivamente appaiono in trasformazione le forme della 'guerra', della sofferenza psichica e della psicopatologia, perchè alla società di Edipo si è sostituita la società di Narciso.
Oggi più che mai è opportuno integrare nella propria ottica ed in modo intercambiabile – forse necessariamente ambiguo - le lenti dell’antropologia e dell’etnologia, della psicologia analitica e della fenomenologia, della filosofia e delle neuroscienze, accanto alle prospettive politiche e geopolitiche, per non trovarsi impreparati di fronte al fenomeno / sintomo che l’Altro ci propone o dietro il quale talora si nasconde.
Un compito gravoso dal quale - oggi - forse non possiamo sottrarci...

Cara Simonetta, si, certo, tutto quanto dici appare come una nave in balia delle onde divenuta ingovernabile. La sensazione è che la guerra tra universi e universalismi (neoliberista e fondamentalista, secondo la mia opinione) non sia al momento disinnescabile dall'interno e che attenda solo l'esito di una risoluzione finale.
La palingenesi pantoclastica degli stragisti, martiri o/e disagiati, sembra l'esito di un finale già scritto dove occorre attendere che l'ultimo degli islamici, tra due-tre generazioni, si secolarizzi e si adegui al relativismo culturale che ci contraddistingue. La fine del mondo governato dalla religione non corrisponde però alla fine della metafisica e purtroppo quella che ci governa, è una metafisica che si occulta e non appare come tale.

Al momento non posso darti che una risposta parziale, anzi una domanda: e se riuscissimo - nell'arco di vita che ci è dato - a rivalutare l'unico 'universale' veramente tale... ovvero l'Umanità...? Relativizzando nel contempo le spinte di metafisiche palesi o nascoste.. nonchè la preponderanza del mercato?


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