PSICOANALISI AL PRESENTE
Risposte al disagio della contemporaneità
di Alex Pagliardini

Con la pulsione di morte si torna a respirare

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5 aprile, 2018 - 20:45
di Alex Pagliardini

Un aiuto contro

Capita raramente, ma capita, che la filosofia abbia un effetto di risveglio sulla psicoanalisi, o più precisamente su chi la pratica, “uno psicoanalista”. La pratica psicoanalitica, la clinica, è una costante spina nel fianco “per ogni” psicoanalista. Questa spina nel fianco dovrebbe funzionare da antidoto contro il rischio di addormentarsi, rischio che corre chiunque pratichi come psicoanalista. Chi ha a che fare con la psicoanalisi sa però bene che tale antidoto non sempre funziona, e mai garantisce alcunché. Per di più, chi pratica come psicoanalista, proprio perché costantemente esposto a questa spina nel fianco, alla spina nel fianco della clinica, ha spesso una grande voglia di dormire, ha l'esigenza di sdraiarsi - e non manca di farlo!

Esistono, non a caso, le comunità psicanalitiche, le cosiddette “scuole di psicoanalisi”, le quali tra le varie funzioni, hanno sicuramente quella di provare a tenere sveglio l'analista che vi fa parte. Ma anche qui si constata l'efficacia parziale, molto parziale, di questa funzione. Infatti se da un lato è innegabile il ruolo decisivo delle varie comunità psicoanalitiche nel tenere all'opera chi pratica come analista, dall'altro lato è altrettanto innegabile la loro tendenza a diventare dei “dormitori”.

Esistono, per fortuna, dei saperi altri, delle altre pratiche – altre rispetto a quella psicoanalitica – che possono svolgere questa funzione di tenere sveglio o di risveglio – che a ben vedere sono la stessa cosa, in quanto restare sveglio è sempre risvegliarsi. Possono in sostanza svolgere quella funzione definita da Lacan di aiuto contro1.

A mio avviso il lavoro di Rocco Ronchi, il suo insistito esercizio filosofico, ha svolto in questi anni una preziosa funzione di risveglio, di aiuto contro, rispetto alla psicoanalisi, e in particolare, o forse esclusivamente, nei confronti degli psicoanalisti legati all'insegnamento di Lacan. Mi riferisco soprattutto agli ultimi anni del lavoro di Ronchi, condensati in quattro testi decisivi, Filosofia della comunicazione (Bollati Boringhieri, 2008), Come fare? Per una resistenza filosofica (Feltrinelli, 2012), Gilles Deleuze (Feltrinelli, 20015) e Il canone minore. Verso una filosofia della natura (Feltrinelli, 2017).

 

Il godimento

Non è questa la sede dove ricostruire il complesso percorso del lavoro di Ronchi, cosa che per altro non sarei in grado di fare. Mi limito ad indicare alcuni nodi, ossia alcuni punti di risonanza, tra il lavoro di Ronchi e la teoria psicoanalitica, o meglio l'insegnamento di Jacques Lacan – o forse ancora di più con come questo circola nelle “sue” Scuole.

Il primo nodo è senz'altro quello del godimento. In tutte le comunità psicoanalitiche legate all'insegnamento di Lacan si è sviluppata e affermata la tesi, tesi largamente maggioritaria, che il godimento – cioè la pulsione, ed in particolare la pulsione di morte in Freud – è distruttivo, masturbatorio, dissipativo, chiuso, mortifero. A questa tesi è sempre seguita una conclusione – che a dire il vero ne è un presupposto. Il godimento è tutto ciò – distruttivo, masturbatorio ecc... - se non implicato con il funzionamento simbolico, con l'azione dell'Altro. Se adeguatamente implicato nel simbolico il godimento può diventare vitale, produttivo, costruttivo.

Questa tesi, evidentemente legata a della fondamenta epistemologiche e che comporta tutta una clinica e un'etica, è a mio avviso convincente. Ha un suo realismo, una sua praticità ed una argomentazione forte.

Su questa tesi il lavoro di Ronchi introduce una faglia, fa cadere un sassolino. Con Spinoza, Bergson, Deleuze (solo per indicarne alcuni) il godimento “manifesta” un'altra piega, quella affermativa, nella quale si declina come una potenza che è atto: «il godimento non è un fatto, ma è l’atto infinito del godere, il self-enjoyment che struttura ogni vita che vive»2. Questa tesi affermativa del godimento mette in discussione la precedente, solleva il dubbio che il godimento così inteso – quello della prima tesi – sia il frutto di un “vizio di forma”, ossia di un modo di intendere il godimento sempre e solo a partire da quello che questo è nel simbolico, e dunque di una preclusione ad intenderlo in sé, vale a dire nella sua piega affermativa. Evidentemente questa altra collocazione del godimento ha degli effetti anche sulla clinica, ed in particolare sulla logica di un’analisi, sollevando l’ipotesi che quel trattamento simbolico del godimento – in cui certo consiste un’analisi – non serva proprio a produrre un rapporto con il godimento non mediato dal simbolico, rapporto che non potrà che essere vitale, essendo il godimento in sé “vita che vive”. Ovviamente la questione è delicata e complessa. Qui mi sto limitando ad indicare la piega – senz’altro insidiosa – che la tesi affermativa del godimento introduce nella pratica psicoanalitica. È possibile sostenere tutto ciò in quanto la piega affermativa ipotizzata da Ronchi ha una stringente risonanza con una concezione del godimento presente all’interno dell’insegnamento di Lacan – concezione senz’altro minore, ancora da intendere bene, ma che vede senz’altro nel godimento una vita immortale.

La mia idea è insomma che se le tesi di Ronchi possono introdurre una piega nel modo di intendere Lacan è perché entrano in risonanza con qualcosa presente – in forma larvale e non solo – nell’insegnamento di Lacan stesso.

 

L’Uno

Il secondo nodo è relativo alla questione, molto insidiosa, dell’Uno. Anche qui la tesi principale diffusa in tutte le comunità lacaniane è quella dell'Uno come fusione larvale, solipsismo narcisista, chiusura mortale, monade parassitaria, idiozia del fallo, odio paranoico. Anche qui è bene fare una precisazione. Questa tesi è presente in modo evidente nell’insegnamento di Lacan ed è, con altrettanta evidenza, una tesi molto utile dal punto di vista clinico – tale tesi spinge decisamente ad intendere la pratica psicoanalitica come una pratica di separazione, attraverso l’azione dell’Altro e del desiderio dell’Altro, dalla monade dell’Uno.

La tesi di Ronchi introduce anche qui una faglia. In primis sottolineando il pregiudizio immaginario che accompagna un simile lettura dell’Uno, pregiudizio che lo riduce ad uno stato, mentre l’Uno è atto in atto, assoluto in atto. Preso da quest’altro verso l’Uno diventa causa in atto: «l’Uno-uno che è causa dell’Uno che è. La superficie assoluta che è la causa delle cose che sono su di essa»3. In quest’ottica l’Uno diventa il c’è dell’Uno – il c’è dell’Uno che Lacan ripete senza dire spesso in quale direzione -, il «"che c’è”, l’il y a, l’accadere di quanto accade»4.

C’è dell’Uno, ossia «un Uno, che essendo Uno, senza rapporto con l’altro, genera i Molti nei quali non diviene altro ma permane “magicamente” in se stesso»5.

C’è dell’Uno, ossia «c’è divenire ergo l’uno, l’infinito, il perfetto, “c’è”, “accade” e “si esplica” nella totalità degli enti restando nella sua infinita diffusione impartecipabile e separato»6.

Anche qui, cercare di intendere e mettere mano a questo altro versante dell’Uno, versante che come accennato è in risonanza con il c’è dell’Uno di Lacan, è un compito con il quale il lacanismo è alle prese – non senza difficoltà – ed è un compito teorico al contempo massimamente pratico, ossia che non può non avere dei forti effetti sul modo di praticare la psicoanalisi.

 

Tutto è bene!

Il terzo nodo chiama in causa direttamente il problema del reale. Anche qui la tesi maggiore di Lacan sul reale è una tesi negativa, ossia il reale è l’impossibile, il reale è il non-va. Anche qui la tesi maggiore intende le cose a partire dal simbolico – la psicoanalisi può fare diversamente? – e partendo dal simbolico incontra il reale come cioè che straborda, eccede, forza, rompe, insiste. Anche qui il peso di questa tesi non mi pare in discussione. A mio avviso anche qui quel che il lavoro di Ronchi fa consiste nell'introdurre una faglia, e lo fa proponendo un’altra piega del reale – piega che a sua volta risuona con una piega del reale presente, in forme minore, nell’insegnamento di Lacan.

Ronchi ancora una volta articola il versante affermativo del reale: «il reale univoco non è l’informe che inghiotte le differenzazioni. Il reale univoco è, al contrario, un processo morfogenetico, è produzione incessante della forma. (…) Il reale non è costituito da fatti, ma di atti. Non ci sono cose ma processi. (…) L’esperienza è nella sua radice atto in atto, è l’accadere di ciò che accade. (…) Il reale è solo questa esperienza in atto»7. Su questa linea Ronchi congiunge il reale con il c’è dell’Uno: «Il reale è allora l’uno assolto dalla relazione, è ciò che viene prima del rapporto e che funge al fondo di ogni rapporto come l’intangibile da quel rapporto»8.

Da qui Ronchi arriva all’affermazione spinoziana che tutto è bene: «tutto è bene non significa che tutto è buono in senso morale»9. Tutto è bene significa che «il bene è l’accadere del tutto, il suo evento»10; «il bene in questione ha perciò un senso esclusivamente speculativo e nient’affatto morale. È pura affermazione di essere. Un’affermazione che non ha opposto perché assoluta»11. Ancora c’è dell’Uno – dunque tutto è bene/c’è dell’Uno.

Ricaviamo ancora una volta una piega affermativa del reale, al cospetto della quale la questione decisiva diventa allora: come fare con questo “tutto è bene”?

Si tratta di una piega decisamente diversa dalla piega negativa del reale, quella del reale come impossibile, al cospetto della quale la questione decisiva è: come fare con il male necessario, il male inevitabile?

Qui come per i precedenti nodi non si tratta di creare uno sterile dualismo tra il versante negativo e il versante affermativo, ma di maneggiare e intendere il loro intrecciarsi, o meglio il loro piegarsi. Questo però non deve spingere neanche verso una dialettica del buon senso tra le due pieghe. Seguendo Ronchi possiamo in effetti dire che la piega negativa del reale è una versione di quella affermativa – dunque c’è implicazione – ma non possiamo dire il contrario.

 

Etica

La psicoanalisi è una pratica che si occupa del disagio, della sofferenza, spesso senza pausa e senza scampo, delle persone. Mi verrebbe da dire che proprio per questo deve essere radicalmente materialista – dunque antiumanista. Ma mi rendo conto che si tratta di un’affermazione facilmente equivocabile, pertanto preferisco sottolineare il versante etico del materialismo proposto da Ronchi – etica che mi pare in forte risonanza con quella dispiegata nell’insegnamento di Lacan.

Un passaggio molto incisivo fotografa l'etica materialista alla quale mi sto riferendo: «come fare quello che si sta facendo e che non si può non fare»12.

Riporto qui una lunga citazione nella quale si delineano alcuni snodi di questa posizione etica: «Fin dall'inizio vi è in Lacan dell'altro rispetto a questo Altro, c'è dell'Uno senza Altro, c'è un altro trauma di cui è affetto il soggetto, trauma dovuto all'irruzione dell'Uno “tutto solo”, rispetto al quale l'Altro del simbolico si costituisce piuttosto come difesa e rifugio. Il nome a esso attribuisce Lacan è il più semplice tra i nomi. Lo chiama, infatti, reale. (...) A ben vedere, l'introduzione di questo registro “fuori dal simbolico” è, dal punto di vista logico, un vero e proprio paradosso. Lacan non ha forse affermato, fino alla noia, che non c'è che il linguaggio e che perfino il cosiddetto prelinguistico è ancora un effetto di rimbalzo del linguaggio? Eppure c'è del reale al di là del linguaggio. Con esso ha a che fare la pulsione quando raggiunge la sua massima intensità pulsionale, quando diventa, cioè, “pulsione di morte”, la più pulsiva di tutte le pulsioni. Non c'è che il linguaggio, e cioè il legame dell'Uno con l'Altro, il prelinguistico è un mito, e tuttavia c'è del reale fuori simbolico, e cioè un Uno slegato dal suo rapporto con l'Altro, as-soluto. Godimento è il nome che Lacan darà a questo rapporto con il senza rapporto. I filosofi, soprattutto i giovani filosofi, di fronte a questa patente contraddizione non possono non drizzare le orecchie. Si pongono perciò pazientemente in ascolto della parola di Lacan, una parola spesso irritante, perché qui, proprio nelle pagine indubbiamente più difficili e criptiche, balugina nuovamente quell'assoluto al quale la filosofia dei moderni aveva voltato le spalle. Per quanto possa apparire incongruente con il contenuto semantico di quelle espressioni, con la “pulsione acefala di morte”, con il “godimento maligno” e “autistico”, con il reale inteso come nocciolo opaco e insondabile, si ricomincia infatti a respirare, si esce dal chiuso claustrofobico della coscienza e ci si avventura in un “Grande Fuori”»13 Alcune pagine dopo, Ronchi continua: «Lungi dall’essere una via di fuga teologico-speculativa, la rilettura in senso affermativo della pulsione acefala di morte introduce a un programma di ricerca rigorosamente materialistico. Non solo: essa obbliga anche a una presa di posizione che ha la cogenza di una presa di partito in senso brechtiano. La “larva informe” non è infatti il debole cui guardare con partecipativa pietà, non è Altri verso il quale andare a riprova della propria trascendente bontà, ma forza materiale, natura naturante, pressione esercitata dal basso»14.

 

Contingenza/Reale

I nodi da sottolineare e su cui lavorare sarebbero molti altri. Mi fermo qui e provo ad entrare nel merito dell'ultimo lavoro di Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura - testo di cui si è discusso molto e del quale si discuterà per e fra anni. La psicoanalisi è ancora una volta, e per certi versi anche con delle diversità, chiamata in causa e sollecitata.

Ancora una volta i punti di risveglio sono molti. Mi limito a soffermarmi su un unico aspetto, la demolizione e liquidazione della categoria di contingenza. Provo ad entrare nel merito di questa operazione a causa della sua immediata risonanza con l'insegnamento di Lacan. In effetti in ambito lacaniano la categoria di contingenza viene spesso utilizzata per intendere qualcosa del reale, il reale di una vita senza garanzie e fondamento, esposta alla contingenza assoluta.

 

Farla finita con la contingenza?

La demolizione della categoria della contingenza consiste nel liquidare il primato assunto dalla contingenza nel definire il reale, - primato che invece le viene assegnato da quella che Ronchi definisce la linea maggiore della filosofia. Tale liquidazione passa per lo smascheramento dell'errore epistemologico sul quale il nodo reale-contingenza si fonda.

Per questa linea maggiore della filosofia la vita, l’esperienza, è già da sempre nella correlazione soggetto-oggetto, è già da sempre nella radicamento ontologico dell’intersoggettività, è già da sempre e per sempre nell’Altro, effetto dell’Altro e in relazione nell’Altro, è da sempre e per sempre relativa a – sta qui l'errore epistemologico che marchia questa linea. Proprio per questa sottomissione della vita e dell’esperienza all'azione dell'Altro, la vita e l'esperienza sono esposte ad una radicale contingenza, cioè all’infondatezza, alla finitezza, alla caducità, all’indeterminatezza.

Detto altrimenti. Siccome la vita, l’esperienza, è già da sempre nella correlazione uomo-mondo, già da sempre sottomessa all’azione dell’Altro simbolico, la vita, l’esperienza, è esposta alla contingenza, che diventa così il reale dell’esperienza. Qui contingenza indica, da un lato, il possibile, dunque che la vita, l’esperienza, è esposta a ciò che può non accadere, dunque aperta a possibilità che attendono di essere realizzate. Dall’altro lato, contingenza indica la potenza, ed indica una versione particolare della potenza, la potenza di non, quella potenza che ha la facoltà di non diventare atto, potenza al fondo di quell’essere possibile che è l’umano e che è la particolare potenza che caratterizza l’umano, potenza che si può affermare solo e attraverso il potere primario del no.

Ripeto, l’errore epistemologico consiste, per Ronchi, in questa primaria sottomissione della vita al principio della correlazione, da cui inevitabilmente deriva il nodo reale-contingenza.

La tesi di Ronchi è che questa linea della filosofia, che mette al fondo la correlazione e che fa della contingenza il reale, ha smesso di fare filosofia, cioè di occuparsi dell’assoluto, dell’esperienza in sé, ossia di quel che è fuori dal principio della correlazione e che ne è fuori come causaUno-tutto-solo, c'è dell'Uno, lo chiama spesso, con Lacan, Ronchi. Detto altrimenti questa linea maggiore della filosofia non si occupa del reale.

La tesi di Ronchi è che esiste una linea minoritaria della filosofia che non ha smesso di fare ciò, anzi ha rinnovato l’atto filosofico rimettendo al centro l’in sé dell’esperienza, il farsi della vita, l’Uno senza Altro, il reale.

 

Lacan/reale

Non è qui possibile, e non ne sarei in grado, sviluppare la tesi di Ronchi – detto in lacanese l'errore di fondo della linea maggiore della filosofia, quella che non fa filosofia, è quello di intendere le cose a partire dall'Altro, dalla funzione dell'Altro, dall'azione dell'Altro, di aver già da sempre sottomesso il modo di intendere la vita all'azione dell'Altro sulla vita. Detto sempre in lacanese, l'atto decisivo della linea minore è quello di pensare l'impensabile, cioè il reale dell'Uno, il c'è dell'Uno, l'Uno come causa, «l'Uno del processo»15.

Quello che qui possiamo fare e riprendere la demolizione della categoria della contingenza, del nesso reale-contingenza, in relazione al nesso reale-contingenza operato di Lacan. Seguendo la tesi di Ronchi, da un lato constatiamo che Lacan ponendo questo nesso non ha “inventato” niente, dall'altro lato constatiamo che si è andato ad inserire in un modo di intendere le cose che impedisce di accedere al reale. Possiamo subito ribattere a questa impietosa diagnosi sull’insegnamento di Lacan considerandola valida per il Lacan alle prese con il nodo reale-contingenza, e invalidandola per altri momenti del suo insegnamento – del resto Ronchi utilizza spesso Lacan per spiegare la linea minore, cioè come si può fare filosofia mantenendo al centro il reale. Ma, e credo più significativamente, dobbiamo provare a seguire seriamente la tesi di Ronchi e rispondere. In che modo? Da un verso andare a verificare che cosa Lacan intende annodando reale e contingenza – ad esempio verificare come lo ha fatto, e cioè a quale reale si riferisce quando lo lega alla contingenza.

Dall’altro verso, prima e dopo aver fatto questa verifica, dobbiamo ascoltare la tesi di Ronchi.

In questa direzione in prima battuta non possiamo non sottolineare il modo in cui Lacan utilizza la categoria di contingenza. Lacan non usa la contingenza in relazione al possibile ma all’impossibile16. Diversamente, e come abbiamo accennato, Ronchi usa la contingenza come una versione del possibile, la sua versione decisiva – e lo fa seguendo e analizzando rigorosamente la tradizione filosofica.

Lacan lega la contingenza all’impossibile, e lo fa a tal punto che, in forma un po’ riduttiva, possiamo con lui arrivare a definire la contingenza come “l’accadere di quel che non può accadere”, “l’accadere di quel che è impossibile”. Ronchi potrebbe subito rispedire al mittente questa considerazione affermando: “se Lacan usa i concetti come gli pare e piace è inutile parlare”. In questo modo ci troveremo al cospetto di una difficoltà tipica dell’incontro con l’insegnamento di Lacan, ossia un utilizzo molto particolare, troppo particolare, di concetti aventi un forte radicamento nella tradizione – si pensi a quello di soggetto – che tende a destabilizzare forme di dialogo con altre pratiche.

In seconda battuta, se ascoltiamo la tesi di Ronchi, non possiamo però non intravedere, almeno a mio avviso, qualcosa di profondamente prezioso per intendere il reale della psicoanalisi. Di prezioso c’è una ridefinizione della categoria di contingenza che permette di gettare qualche nuovo barlume sul problema del reale.

La ridefinizione della categoria di contingenza – ridefinizione che ripeto è data a mio avviso dalla risonanza tra la demolizione della categoria di contingenza operata da Ronchi e l'uso molto particolare fatto da Lacan delle medesima categoria - va in questa direzione: la contingenza va intesa in relazione “all’accadere di quel che non può non accadere”.

Ma che cosa è che non può non accadere? Ciò che non può non accadere è l'accadere! - l'accadere come causa/fondamento di tutto quello che accade.

Questo accadere che è causa di tutto quello che accade si fa sentire in modo contingente – che per Lacan significa a caso, accidentalmente, improvvisamente – in quel che accade.

Seguendo questo ragionamento ci ritroviamo con queste coordinate:

1) l’accadere che non può non accadere definisce il reale – reale dunque che si declina dal versante del necessario.

2) il contingente non è più omologo del reale ma è il modo del farsi sentire del reale – l’accadere – in quel che accade.

L’accadere come causa di ciò che accade, l’aver luogo come causa di ciò che ha luogo, si sente in ciò che accade, in ciò che ha luogo, - in modo contingente - come strappo, come urto, come colpo, come eccesso, ma, ed è questo il punto decisivo, si sente così perché si sente, perché sente se stesso, è in , colpo, urto, cioè trauma.

L’accadere è in sé trauma, dunque non può non farsi sentire in quel che fa accadere, in ciò che accade, come traumatico.

Il modo in cui si fa sentire l'accadere, dunque il trauma, è contingente.

 

Trauma

A mio avviso il punto a cui siamo approdati seguendo Ronchi ci permette di tornare su una delle questioni decisive della psicoanalisi, quella del trauma. La sua riflessione spinge con decisione a distinguere in modo radicale il trauma in sé da ciò che fa trauma e da ciò che subisce il trauma – di differenziare in modo netto l’in sé del trauma (accadere) da ciò che si fa sentire come traumatico (accaduto) e dunque intendere il trauma in sé e non a partire da un soggetto per il quale c’è qualcosa di traumatico. Detto altrimenti a mio avviso la riflessione di Ronchi porta un sostegno teoretico a qualcosa che è presente nell’insegnamento di Lacan, e che vi è presente, come molte altre cose, tra le righe. La distinzione tra il trauma in e ciò che si fa sentire come traumatico è in effetti al centro della pratica psicoanalitica – almeno per come la intende Lacan. Per certi versi possiamo dire che un’analisi consiste nel fare questa esperienza, l’esperienza della differenza tra il trauma in sé e ciò che ha fatto (e fa) trauma. Detto altrimenti un’analisi è la “scoperta” che il come si è fatto sentire il trauma nella propria vita, che ciò che ha fatto trauma nella propria vita, è già un’interpretazione e difesa del e dal trauma in sé – dunque infine un’analisi è la scoperta dell’insistenza del trauma in sé.

 

Tempo

Continuando a seguire quanto tracciato da Ronchi si arriva all’applicazione della sua tesi alla lettura del celebre caso dell’Uomo dei Lupi – sul quale Ronchi ritorna insistentemente nel corso dei suoi lavori. La lettura che Ronchi fa del caso è di nuovo molto precisa. A mio avviso applicando la tesi sul trauma poco fa indicata si può estrarre qualcosa di fondamentale – estrazione che qui opero con una certa libertà, determinando qualcosa che non so quanto Ronchi sottoscriverebbe.

Come è noto Lacan rileggendo il caso dell’Uomo dei Lupi trova all’opera il concetto freudiano di Nachträglichkeit, la temporalità retroattiva, après-coup, a-posteriori, che caratterizza l’inconscio e dunque il modo in cui si determina il trauma. Senza entrare nei dettagli del caso, limitiamoci a dire che Freud evidenzia l’esistenza di un momento 1 – a un anno e mezzo il bambino vede il coito dei genitori – e l’esistenza di un momento 2 – a 4 anni il bambino fa un sogno. È il momento 2 che a posteriori rende traumatico il momento 1 – lasciamo perdere le ragioni di tutto ciò. Non bisogna insistere sul fatto che il momento 1 prende una significazione a-posteriori, cioè a seguito dell’azione retroattiva del momento 2. L’accento va messo sul fatto che il momento 1 diventa traumatico a seguito della retroazione del momento 2. Ma quel che si deve ancora di più sottolineare è che questa determinazione retroattiva del trauma è già una difesa e interpretazione del trauma in sé, del colpo del trauma che non cessa un istante, in un «exaiphnes (improvvisamente) rigorosamente atemporale»17 - ecco ancora il c'è dell'Uno, l’«exaiphnes»18 con il quale Lacan cerca di intenderlo nel corso del suo Seminario XIX.

Questo trauma in sé è il “vero” oggetto di una psicoanalisi. Forse Ronchi non sarebbe d'accordo con questa mia radicalizzazione, la quale “rilega” la temporalità après-coup allo statuto di difesa e afferma l'atemporalità del “non cessa un istante”. Attendo i prossimi lavori per verificarlo. Comunque non c'è risveglio senza separazione!

 

 

1 J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006.

2 R. Ronchi, Gilles Deleuze, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 36.

3 R. Ronchi, Il canone minore, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 22.

4 R. Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p. 59.

5 R. Ronchi, Il canone minore, cit., p. 62.

6 R. Ronchi, Come fare, cit., p. 15.

7 R. Ronchi, Gilles Deleuze, cit., p.18-19.

8 Ivi., p. 37.

9 R. Ronchi, Filosofia della comunicazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 108.

10 Ivi., p. 109.

11 R. Ronchi, Come fare, cit., p. 83.

12 Ivi., p. 12.

13 Ivi., p. 68.

14 Ivi., p. 89.

15 R. Ronchi, Il canone minore, cit., p. 16.

16 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIX. ...ou pire, Seuil, Paris, 2011 (in particolare cap. VII).

17 R. Ronchi, Il canone minore, cit., p. 107.

18 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIX, cit., p. 135.

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