KEN LOACH, FAMILY LIFE E L'ANTIPSICHIATRIA INGLESE DEGLI ANNI SESSANTA

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6 gennaio, 2020 - 04:07
di: SERGIO MELLINA
Anno: 1971
Regista: KEN LOACH
Ho letto molto volentieri questo articolo di Matteo Balestrieri sul film Family life. È comparso sul suo blog “Mente ad arte. Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre” che tiene per Psichiatry on line Italia. Mi ha fatto rimbalzare indietro di mezzo secolo e mi ha aperto un mondo di ricordi che sembravano sepolti. Invece sono tornati alla mente vivacissimi, suscitando una serie di associazioni concatenate le une alle altre che mi hanno letteralmente trascinato fuori dal tempo.
È stato il suo incipit - del quale lo ringrazio infinitamente per la puntualità e la precisione - a fare da detonatore. Un tuffo carpiato all’indietro nella piscina della memoria a lungo termine dalla piattaforma dei 10 metri! Com’è vero quel suo «In questo periodo di riunioni familiari sotto Natale, una breve riflessione sui possibili danni da relazioni distorte in seno alle famiglie». Come non pensare subito, ben “oltre” la clinica psi, alle feste natalizie di Parenti serpenti (1992) il film di Mario Monicelli, raccontato da Mauro - nipote pubere della “famigliaccia” (Enzo Siciliano) - che legge il tema delle vacanze dicendo come andò che una innocente stufetta a gas, malfunzionante, aveva fatto esplodere i due nonni: Trieste, Pia Velsi, e Saverio, Paolo Panelli, (entrambi conosciuti alla Rai da chi scrive). L’unica imprudenza dei due era stata quella di giocarsi la pensione, la casa e tutte le suppellettili, alla riffa fra i quattro figli per evitare di finire in un ospizio. Rammento – per inciso- che la mia maggiore attività professionale di psichiatra diventava esplosiva e convulsa ad ogni e qualsiasi celebrazione di festività comandate, massimamente quelle natalizie.
E ancor più mi ha tenuto compagnia il Collega padovano, ordinario di psichiatria ad Udine, con quel suo seguitare «L’attualità del noto film “Family Life” di Ken Loach è sorprendente». Attualissimo! Posso confermarlo per esperienza diretta. Io, quell’epoca l’ho vissuta e attraversata in lungo e in largo. Ero sposato. Avevo 4 figli, e mia moglie ne aspettava un quarto. Avevo cessato la carriera universitaria dopo 10 anni. Gozzano era scaduto e Raffaello Vizioli di cui ero stato stretto collaboratore era andato a Cagliari sostenendo che 5 anni di differenza fra ordinario e aiuto erano troppo pochi.
 



Al manicomio di Monte Mario
Così, rotti gl’indugi, ero salito al manicomio di Monte Mario pronto a fare la mia parte per aprire tutte le porte di quella prigione. Lo stipendio dell’OP era quello che era e l’Amministrazione lo sapeva benissimo tanto che non pretendeva l’esclusiva. Fuori dall’orario di servizio ci si poteva dunque arrangiare, purché non si facesse concorrenza alla “Provincia”. Ricorrendo alla originaria passione, il teatro, che avevo studiato con mia moglie Silvia, da Pietro Sharoff, fin dalla licenza liceale, intensificai (“nelle ore libere”) la frequentazione delle sale di doppiaggio cinematografico dove avevo mostrato una certa abilità e oltretutto non mi vedeva nessuno. A chi m’interrogava curioso, anche voci famose della sincronizzazione italiana, come mai un neuropsichiatra specializzato - uno vero non per finzione - riuscisse bene in questo mestiere difficile di mettere in bocca, al volto parlante, le parole giuste con la voce giusta al momento giusto, io rispondevo che nei primati si stavano studiando reazioni particolari di neuroni del polo frontale inferiore che fanno da mediatori, nel senso che codificano sia quando “vedono” che quando “sentono” fare determinate azioni. Dunque, se cose così complesse erano ipotizzabili nell’uomo, nulla vietava di pensare che il doppiaggio fosse una forma sofisticata di scimmiottamento che tutti potevano fare, con un po’ di esercizio. Inutile dica della mia seconda passione, quella della didattica per cui ogni occasione era buona per imbastire una lezione di neurofisiologia, il mio primo amore con Vizioli. Parimenti superfluo aggiungere che ero attento al lavoro dei Colleghi di Parma (Giacomo Rizzolatti con  Giuseppe Di Pellegrino Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese Giovanni Pavesi) agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso ossia a quelli che saranno da loro chiamati “neuroni specchio”.

Family life.
Tornando al film, ricordo benissimo Family life (1971, Regno Unito) di Kean Loach, nel quale ho contribuito alla versione italiana. La voce del medico non conformista, psicoterapeuta di comunità, dov’era stata portata Janice in un primo approccio, secondo i nuovi orientamenti inglesi, l’attore Michael Riddall ha la mia voce sotto lo pseudonimo Luca Ernesto Mellina. Egli tenta, inutilmente, di aprire un dialogo con la madre, l’attrice Grace Cave, doppiata splendidamente da Vanda Tettoni, dopo che aveva costretto la figlia ad abortire. La pellicola - che rappresenta uno spaccato della realtà inglese del tempo - si ispira, con un taglio da cinema/verité, alle teorie di Ronald Laing. Sullo stesso argomento, l’adombramento di una possibile cofattorialità della rigidità familiare e dell’incapacità di comunicazione generazionale genitori/figli, nella genesi della patologia schizofrenica, c’era stata precedentemente. La proiezione televisiva di un testo di David Mercer (1928-1980) - israeliano di Haifa - intitolato "In Two Minds" (essere indeciso, precisamente il mio ruolo quando da psichiatra andavo a doppiare i film sotto mentite spoglie) era già avvenuta alla BBC. Indovinate un po’ chi era il regista? Kean Loach in persona, praticamente stava facendo le prove generali. Il film girato successivamente che tutto il mondo conosce come Family life, è un remake. Per chi fosse interessato, fra i lettori di Pol. It., sono reperibili numerosi video - quasi tutto il film - sulla rete.

Ricerca approfondita sul cast del film e ricordi personali
Personaggi                  Interpreti
Janice Baildon:             Sandy Ratcliff: doppiata da Paola Del Bosco
Mr. Baildon, il padre:         Bill Dean: doppiato da Roberto Villa
Mrs. Vera Baildon la madre:         Grace Cave doppiata da Vanda Tettoni
Dr. Mike Donaldson:         
psicoterapeuta CT:            Michael Riddall doppiato da Luca Ernesto Mellina alias Sergio
Barbara Baildon
sorella sposata di Janice:         Hilary Martin doppiata da Eva Ricca
Tim il fidanzato di Janice:         Malcolm Tierney doppiato da Natalino Libralesso
Professor Carswell
psichiatria tradizionale        Alan MacNaughtan doppiato da Mario Colli
Paul Morris l’uomo nel giardino    Johnny Gee doppiato da Vittorio Battarra
Inoltre, ne seguono numerosi altri ricopiati dai titoli di coda [1]. Gli attori impiegati erano tutti professionisti, ma il setting non era tradizionale bensì adattato ai luoghi più prossimi alle strutture comunitarie o a quelle manicomiali. Risulta anche che il sindacato degli attori avesse concordato con Kean Loach una tutela psicologica particolare e una paga maggiorata per il rischio al quale esponevano la loro salute mentale.

Note di regia, stile di Ken Loach, la trama.
Ken Loach. «... abbiamo utilizzato delle interviste con gli psichiatri e i componenti della famiglia. Se mi fossi attenuto troppo aderente alla sceneggiatura, ho pensato che non sarei arrivato a captare quei momenti in cui la voce esita, gli occhi si chiudono, quei momenti in cui si cerca l’idea che verrà dopo. Bisognava che si avvertisse questa tensione in rapporto a quello che stava accadendo.» (traduzione dal Francese, Sergio Mellina).
Il regista Kean Loach - sempre all’avanguardia nelle tematiche sociali con uno stile asciutto -tratteggia un dramma che si rifà alle teorie dell’antipsichiatria di Ronald Laing, David Cooper Thomas Szas e molti altri sul finire degli anni Sessanta del Novecento. Viene proiettato in maniera drammatica e significativa uno spaccato della realtà britannica dell’epoca, piccolo-borghese repressiva e conformista. Il film trae origine dal dramma "In Two Minds" sceneggiato per la BBC dallo scrittore David Mercer sull’argomento della possibile schizofrenicità delle dinamiche familiari. Per esempio il doppio legame contraddittorio come ad esempio: sforzati di essere naturale! Janice, la protagonista, è una ragazza rimasta incinta, costretta ad abortire dalla madre autoritaria contro la sua volontà. La sua condizione psicologica si frammenta progressivamente fino ad essere diagnosticata come “schizofrenia”. Viene rinchiusa nelle istituzioni psichiatriche allora disponibili “per il trattamento e la custodia” di tali patologie e quelle proposte in alternativa per la nascente Comunità terapeutica. Dapprima viene curata da un medico non conformista in una struttura non convenzionale, che cerca di capire l'origine del suo disagio psichico, ma quando costui viene licenziato, perchè si stringono i freni rispetto a un trattamento ritenuto eccessivamente tollerante, Janice viene internata in manicomio e cambia radicalmente cura. Sottoposta ad un ciclo di elettroshock subisce quello che allora era indicato come “annichilimento”. La struttura psichiatrica L’istituzione negata, parafrasando Basaglia e Jervis, si rivelerà assolutamente inadatta a comprendere la genesi psicologica della sua sofferenza.

Qualche aneddoto, molte critiche.
Quando usci il film di Loach, nel 1971, nella psichiatria erano già successe molte cose nuove ed altre ne stavano accadendo. Si era nel pieno di un turbinio di avvenimenti e altri fermenti si andavano manifestando in Europa e negli USA. Difficile orientarsi con questa faccenda molto giacobina di fare subito la rivoluzione per scuotere una società borghese e perbenista che impediva qualsiasi rivolta e ogni tipo di libertà. Eravamo nel pieno della contestazione alla guerra in Vietnam con film importanti. C’erano attivisti del calibro di Bob Dylan e Joan Baez, "l'usignolo di Woodstock". C’era la "guerra fredda", il mondo spaccato in due. Tutti ascoltavano “Imagine there's no countries” che John Lennon aveva dedicato a Yoko Ono. Era andato a New York.
Il discorso era accattivante, le proteste diffuse, anzi la rabbia covava sorda. Per quanto mi riguarda come psichiatra della “Neuro” o del manicomio, ero stufo di fare il notaio dell’esclusione. Anch’io ero arrabbiato ma la mia ira era contro l’indifferenza, contro lo scacco dell’immobilismo.
Per la “psichiatria”, la sofferenza mentale, il mondo delle “Janice” di turno, serviva più ascolto di tanti proclami. Invece la parola corrente, quella di moda, sulla bocca di tutti era “antipsichiatria”. L’aveva coniata un giovane psichiatra sudafricano giunto da Città del Capo. Il suo nome era David Cooper (1931-1986). Laureatosi nel 1955 si era subito trasferito a Londra, segno evidente che laggiù stavano peggio di noi. Vivace attivo convincente s’era fatto il giro di molte strutture psichiatriche londinesi fino a ch’era giunto all’esperienza di “Villa 21”, una comunità per giovani psicotici organizzata autonomamente. Era entrato nella “Philadelphia association” (PA), fondata da Ronald Laing, un altro astro nascente, iniziatore e cuore pulsante di “Kingsly Hall” un progetto di case-famiglia per giovani psicotici, su base filantropica nell’East End. Sicuramente Ken Loach, per la “psichiatria per bene”, come dice Francesco Bollorino o quella “gentile” di cui parla Eugenio Borgna, si era ispirato a queste strutture per girare Family life.
Successivamente David Cooper con “PA” ci litigò perchè si era trasformata in associazione caritatevole ad indirizzo "Marxista esistenzialista" e se ne andò in Francia. Per quanto riguarda la mia esperienza romana ricordo che non trovai convincente la parola antipsichiatria e neppure l’assemblearismo inconcludente su ogni decisione, per poterla declinare, quella parola, anzi quello slogan vacuo, ad ogni piè sospinto. I pazienti, a differenza di tutti gli altri, raramente prendevano la parola in assemblea. Assistevano perchè ci erano portati. Da me, al manicomio di Roma, al Pad. XVI ce li portava Suor Maria Caterina che aveva preso a cuore le sorti della rivoluzione psichiatrica. Anch’io finii per bisticciare con quelli che si alzavano in piedi per rimasticare una serie di «cioè...» e poi dichiarare lo stereotipo classico di allora “... Cioè! Noi qui, stamo a fa’ un altro tipo de discorso! Alternativo!”. “Cioè! Noi qui dobbiamo depsichiatrizzare!”. Un verbo altrettanto irragionevole quanto la condizione stessa della follia, ma coniugato senza passare, non dico almeno dal centro di salute mentale, ma neppure dalla “psicologia del patologico” come scrive Mario Rossi Monti. Antipsichiatria senza cogliere quel disagio sofferto e indicibile, da cui i pazienti chiedono muti, quand’abbiano a chiederlo ma senza parole, di essere aiutati. Questi e così erano i soggetti manicomializzati di cui noi dovevamo farci carico dopo che avevamo “superato” i manicomi. Depsichiatrizzare cosa??
Invece, allora, tutti ne parlavano o sentivano il bisogno di parlarne, dell’antipsichiatria, andando regolarmente fuori tema. L’umanismo, il pacifismo, l’opposizione alla guerra di R.D. Laing, le simpatie per il Mahatma Gandhi, erano tutt’altra cosa. Essere contro il manicomio non voleva dire tout court contro la psichiatria. Il disagio dei riformatori, non era quello dei pazienti, circa i protagonisti della vicende di cui ci racconta Family life Ricordo di aver conosciuto e ascoltato direttamente Ronald Laing quando per noi giovani psichiatri era una star indiscussa. Quel suo affrontare la clinica come storia di vita, padroneggiare la tecnica psicoanalitica con un taglio fenomenologico, sempre in ascolto di qualche segnale di accesso al mistero del mondo psicosico, sempre prossimo alla presenza dell’alterità lacerata per l’io-diviso, lo rendeva umano, vicino, inimitabile. Il Collega e amico fraterno Antonino Lo Cascio, quando tenne la presidenza dell’AIPA, lo aveva invitato a Roma per una serie di conferenze.
David Cooper non l’ho mai incontrato. So delle sue frenesie, delle sue irrequietezze, ben diverse dalle “inquietudini” di Bruno Callieri. L’ondata dell’antipsichiatria fu rabbiosa, impulsiva, distruttiva, violenta. Diretta verso le istituzioni manicomiali e, per esse, contro la “psichiatria”, che non c’entrava nulla perchè quella giustamente denunciata da Family life era tutto tranne che trattamento di una sofferenza mentale. A quanto ricordo l’antipsichiatria non fu di grande aiuto ai pazienti come “Janice”. Molti colleghi italiani andarono a visitare quella esperienza londinese. Il Collega e amico fraterno Massimo Marà (1933-2018) fu tra questi e importò una delle esperienze fondamentali la “comunità terapeutica” e le “case famiglia”. Fu lui, infatti, a fondare a Roma la prima comunità terapeutica pubblica di Primavalle, un quarto di secolo fa, in capo all’Amministrazione Provinciale romana. Io, a ruota, coi soldi della Regione Lazio, allestii la “Comunità Mario Gozzano” a Salone di Lunghezza. Mio figlio Luca Ernesto, studente di architettura trasformò la locale scuola elementare abbandonata e portò il progetto all’architetto Roberto Patriarca, della USL, il quale fu ben felice di avere un giovane collaboratore entusiasta e non arrabbiato.

Due parole sulla biografia degli attori principali.
Alexandra "Sandy" Ratcliff (Janice Baildon), nata a Londra,  il 2 ottobre 1948 è stata rinvenuta morta nel suo letto dalla badante il 7 aprile 2019 a 71 anni nella capitale inglese. Già conosciuta nel film di Loach, era diventata celebre per aver partecipato sia come consulente che attrice nella parte di “Sue Lion” dal 1980 al 1989 alla soap-opera EastEnders della BBC molto seguita.
Bill Dean, il Sig. Baildon, (1921-2000), attore professionista di Liverpool tifosissimo dell’Everton al punto che cambiò il suo nome, Patrick Connolly, in quello della leggenda dell’Everton William “Dixie” Dean, come nome d’arte. Si hanno meno notizie di Grace Cave, Vera Baildon, attrice professionista scelta per questo ruolo con molto fiuto dal regista. Entrambi fanno a gara per dare il peggio che si possa immaginare nei confronti dei figli. Il primo urlando e insultando pesantemente le due figlie, comprese le nipotine, con un sessismo che peggio non si può. La seconda sconfermando qualsiasi tentativo di mettere in discussione l’ordine costituito, reprimere qualsiasi forma di ribellione o anche semplicemente un accenno di critica da parte delle figlie. Un assalto sottile e feroce viene perpetrato con micidiale perfidia nei confronti del dott. Riddal, lo psicoterapeuta. “Ma come fa a dare tutta questa confidenza a dei malati, al personale subalterno ... tutta questa promiscuità ... la permissività ... l’uso delle droghe ... mi meraviglio che lei usi dialogare invece che prescrivere, ordinare, disporre ...”. Più o meno questo è quello che ricordo delle scene doppiate con una Vanda Tettoni (1910-1998). Strepitosa nel suo minimizzare e distruggere ogni tentativo di interlocuzione. La massima aderenza ai canoni del doppiaggio, l’assioma imprescindibile voce/volto della doppiatrice senese e grande interprete della grande prosa radiofonica della Rai, mai più l’ho vista ripetersi, nella mia esperienza, come quella volta.
Hilary Jean Martin (Liverpool, 1946) attrice professionista britannica, interpreta Barbara Baildon la sorella sposata di Janice con due bambine. Su di lei si abbatte la furia distruttiva del padre -una dimostrazione magistrale di violenza verbale da parte di Loach -alla quale tiene testa difendendosi saldamente finché la madre non la caccia di casa accarezzando le bambine. Il litigio familiare è un pezzo da cineteca e vale come un saggio di psicopatologia fenomenologica al calor bianco.  
Malcolm Tierney un primattore professionista (1938-2014) di Manchester interpreta Tim il fidanzatino anticonformista di Janice. Di particolare rilievo la scena del giardino del padre di Janice colorato con lo spray blu, compresi i nanetti, come gesto di liberazione dal grigiore delle casette tutte uguali del quartiere. Molto più cruda invece la violenza che risulta dalla repressione dell’ordine costituito (l’attore Edwin Brown) quando interviene per strappare Janice dalla casa del fidanzato dove s’erano rifugiati, scappando da tutte le proibizioni, per internarla in manicomio.
Di Michael Riddall, lo psicoterapeuta innovatore che conta sul dialogo, interpretato da me, abbiamo già detto. Non resta che dire di Johnny Gee l’uomo nel giardino col quale Janice progetta una passeggiata repressa duramente. Concludiamo infine con Alan MacNaughtan (1920-2002) anch’esso attore professionista inglese di lunga carriera nella veste del professore Carswell, cattedratico di psichiatria.

Yes We Can!
Family life è di una attualità cogente e non solo per la psichiatria sempre in affanno e con poche risorse governative. Come tutta la sanità del resto. Ma tutti sanno che per la salute mentale e la psichiatria le spese sono mediamente il triplo se non più, della sanità intera. Quello che sconcerta è il fatto che sembra tornata la fissazione di fare la guerra. Tutti in ogni scacchiere del mondo, il nostro, l’unico, il solo possibile, minacciano di farne una. Guerra cosaa?? Guardiamo agli antipodi. L’Australia che brucia e cocciutamente il primo ministro, non ha rinunciato a fare i fuochi per il 2020. Ecco perchè la lezione di Loach è da riascoltare per la sua potente carica emotiva, il suo messaggio di senso compito, la sua critica lucida e spietata, la sua passione.
Il film si chiude in una pesante atmosfera di disperata impotenza. Questo però deve servirci da sprone. Si può e si deve ricominciare!
Janice viene esibita agli studenti di psichiatria dal  prof. Carswell come un oggetto vuoto. Si potrebbe osare un temerario paragone con Jean-Martin Charcot quando, molti anni prima, intorno al 1870 portava in aula le sue “pazienti isteriche”, per sottolineare che un secolo era trascorso invano. Anzi, Blanche Wittman la "regina delle isteriche" di Charcot, è divenuta più famosa della povera Janice. L’uditorio in aula è distratto, lontano. Le parole sono inconcludenti, ottuse, senza prospettiva «... credo che il caso clinico sia chiaro ... come pure le condizioni attuali della paziente ... che potremmo considerare la logica conseguenza di quanto accertato ... Bene ... ci sono domande?»

Note
[1]. Il cast completo di Family life , esclusi i protagonisti, elencati per ordine alfabetico. Vivienne Ablett; Barbara Allen; Bernard Atha (1928); Sophie Baker; John Batt; Dennis Brennan; Edwin Brown (1930-1999); Freddie Clemson; Alec Coleman; Jack Connel; Chistopher Cook; Jinny Cowan; George Crawford; Paul Cuff; Ellis Dale; Arthur Day; Bill Draper; Terry Duggan (1932-2008); Berard Ellis; Paul Fell; Rosana Garofalo; Maureen Gregson; Evan Hercules; Geoffrey Hill; Melanie Hill; Muriel Hunte; Jason James; Richard Laughton; Dennis Lay; Janet Law; Terry Lewis; David Markham; Don Maton; Julie May; Julian Miller; Geoff Milligan; Michaels Monks; Elena Montoya; Michael Murchan; George Noonan; Brian Oates; Ena Owen; Ron Pearce; Ann Penfold; Richard Ponting; Jill Richards; Jack Roche; Rita Russell; Joy Seddon; Rosario Serrano; Ivan Straseurg; Tony Teger; Jeremy Thomas; Allan Travell; Doremy Vernon; Gay Laweley Wakelin; Chris Webb; Doroty Wite; John Woodley. Chi fosse interessato ai doppiatori italiani può consultare in rete la rubrica di Antonio Genna Il Mondo dei Doppiatori.

Bibliografia minima.
David Cooper. La morte della famiglia. trad. di Costantini Maggioni C. Einaudi, Torino 1972.
Aaron Esterson. Le foglie di primavera. Einaudi, Torino 1973.
Ronald Donald Laing. Aaron Esterson. Normalità e follia nella famiglia. (a cura di) Letizia Jervis Comba. Einaudi, Torino 1970.
Ronald Donald Laing. L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale. Traduzione David Mezzacapa Einaudi. Si suggerisce l’edizione del 2010 con la prefazione di Mario Rossi Monti.

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