IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Non tutta la verità si racconta

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18 marzo, 2020 - 11:43
di Antonello Sciacchitano
“Giuro di dire tutta la verità, nient’altro che la verità”.
Antigödel
 
L’emergere nella seduta psicanalitica di associazioni libere ingiustificabili nel contesto – lapsus, falsi ricordi, qui pro quo, sviste, ecc. – rompe il filo narrativo e segnala l’esistenza di un’altra verità, diversa da quella diacronica, che l’Io crede di conoscere e racconta all’analista, magari in buona fede. In psicanalisi si fa strada la verità sincronica dell’inconscio, dove secondo Freud il tempo non esiste, ma che l’Io non conosce. Ovviamente, senza tempo non c’è narrazione dell’evoluzione, ma solo la possibilità di descrivere lo stato attuale. Sembra insufficiente per un diffuso senso comune, magari anche filosofico, che osteggia la psicanalisi oggi come ieri, ai tempi di Freud.

L’abitudine, surrettiziamente trasferita dalla medicina alla psicanalisi, di presentare la vicenda psicanalitica raccontando il “caso clinico”, reintroduce la dimensione diacronica e cancella la specificità dell’esperienza analitica, che sta nella sincronia. La psicanalisi si riduce allora a quello che gli inglesi chiamano case study. È un modo per renderla non avvenuta, secondo un noto meccanismo di difesa coatta. Se c’è narrazione del caso clinico, c’è diacronia; se c’è diacronia, non c’è sincronia; se non c’è sincronia, non c’è psicanalisi; la catena sillogistica è breve e approvata dalle autorità sanitarie.

Lacan, che pure era medico, tentò di opporsi a questa riduzione medicale della pratica analitica; ci provò con le famose sedute brevi. Pensate all’incongruenza. Il paziente si presenta in ambulatorio e dice al medico: “Dottore, ho il virus”. Il dottore risponde: “Torni domani”. Se il criterio è la guarigione, non ci possono essere sedute brevi, perché la guarigione ha i suoi tempi, che in genere non sono brevi. Allora, abbandonare il criterio della guarigione, o meglio: modificare il concetto di guarigione, è un primo passo per dare spazio alla dimensione sincronica della verità. Togli il tempo e togli la narrazione. In ambito letterario, si apre l’orizzonte della poesia, proprio quello della lirica. La verità della psicanalisi è poetica, non romanzesca. Questione: la poesia cura la psiche?

In psicanalisi c’è un ulteriore passo da fare, più teorico che pratico, per sospendere la temporalità e far posto alla verità sincronica: abbandonare il principio “scientifico” di ragion sufficiente, che per ogni effetto presuppone una precedentecausa efficiente. Secondo tale principio la scienza è conoscenza delle cause; è lo scire per causas, “conoscere attraverso le cause”, di cui parlava Aristotele all’inizio della sua Fisica (IV a.C.) e persino Raffaello raffigurava 1800 anni dopo nelle stanze vaticane (tondo della Stanza della Segnatura, 1508). La causalità reintroduce la temporalità. Il modello di riferimento è sempre quello ontologico, riproposto da Heidegger in Essere e tempo (1927). La precedenza della causa sull’effetto comporta un tempo, che è cronologico nel malato, per dar tempo alla causa di fare effetto, ed è simbolico nel racconto del caso clinico da parte del medico. Detto ancora in latino, per chi ancora lo ricorda: post hoc ergo propter hoc, “dopo di ciò, quindi a causa di ciò”.

Per contrastare la deriva aristotelica, noi freudiani, fossimo un po’ galileiani, dovremmo abbandonare la metapsicologia pulsionale, elaborata da Freud, dove le cause si chiamano pulsioni o “spinte”. Sono spinte per ottenere l’effetto libidico. Ma abbandonare l’eziologia, la cui spinta cognitiva Freud avvertiva come imperativa (gebieterisch è il suo termine), significa tagliare veramente i ponti con la medicina. Quanti psicanalisti se la sentono di operare il taglio? Dovrebbe incoraggiarli la stessa teoria freudiana che presuppone un inconscio senza tempo; ma chi crede più a Freud oggi?

Anche Freud rimase ambiguo sulla connessione con la medicina. Nel 1895, negli Studi sull’isteria, si lamentava che i suoi casi clinici mancassero del crisma dell’autentica scientificità e si meravigliava che si leggessero come novelle. Non si rendeva conto che era lui stesso a scrivere delle novelle, essendo per formazione lontano dalla scienza galileiana, che preferisce le formule alle storielle. 42 anni dopo Freud si poneva ancora il problema della fine del trattamento analitico in Analisi finita e infinita, sciaguratamente tradotta in termini medici Analisi terminabile e interminabile. È un falso problema, o meglio: è il problema tipico della psicanalisi medica, che deve rispondere al soggetto collettivo – all’autorità – della guarigione in tempi rapidi del soggetto individuale. Il paradigma medico però non si applica alla psicanalisi. La guarigione psicanalitica non è la reintegrazione dello stato premorboso, dello stato prerimozione, secondo il medico Freud, da ottenere in tempi brevi; è la costruzione – Konstruktion è il termine del Freud non medico – di uno stato psichico nuovo, addirittura inedito, che non ha più bisogno del sintomo nevrotico o della perversione per sussistere. L’analisi propriamente detta è interminabile, quindi non raccontabile, perché non è diacronica ma sincronica: non ha fine perché non ha inizio. L’analisi è un lampo; diceva Eraclito: “Il lampo chiarisce tutto”, ta panta oiakìzei keraunòs. Un poeta più recente lo diceva così:
 
Ahimé, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani!
Eugenio Montale, Vento e bandiere (Ossi di seppia, 1925).

(citato nel mio Una storia sui vari gradi di esistenza, “aut aut”, 372, 2016, p. 24).
Prova a dirlo allo psicoterapeuta. Ne va della sua professione.

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