LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

Eresia ed emancipazione (Viaggio nell’oltretomba come modello di un percorso terapeutico, I, 2)

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10 dicembre, 2023 - 10:03
di Sabino Nanni
        Riguardo a questa seconda sezione dei miei commenti alla Divina Commedia, ho scelto di porre come titolo, anziché come sottotitolo. “Eresia ed emancipazione” per sottolineare quello che mi pare il punto centrale (e più interessante per un clinico) dei canti IX e X: l’affinità emotiva fra l’eretico che si discosta da Santa Madre Chiesa e l’essere immaturo che, spinto dal bisogno di emanciparsi, tenta di allontanarsi dalla famiglia d’origine. Dante qui ci parla di “emancipazioni” fallite anche in rapporto agli aspetti sociali, culturali e religiosi della sua epoca. Tuttavia la sensibilità del Poeta gli permette di cogliere le caratteristiche più strettamente emotive (tutt’oggi presenti) degli sviluppi che possono verificarsi in ogni individuo che si sforzi di acquisire una sua autonomia.
        Una puntualizzazione: data la vastità della materia che intendo trattare e la mia insicurezza riguardo alla mia capacità di portare a compimento il progetto, sono costretto a scrivere e pubblicare i commenti canto per canto. Può, perciò, capitare che, strada facendo, mi vengano in mente considerazioni che avrei dovuto porre nella premessa generale del mio scritto. Tale è, ad esempio, il mio commento ai versi 85 – 105 del canto IX, in cui chiarisco cosa intendo per suggerimenti del Poeta al clinico.

 
Canto IX

All’inizio del Canto IX troviamo ancora Dante e la sua guida alle prese con la difficoltà ad entrare nella città di Dite. Anche Virgilio vive con una certa apprensione l’attesa del messo divino incaricato di soccorrerli, pur affermando d’essere certo che verrà:

 
pag. 123 – 124, vv. 7 – 15
“Pur a noi converrà vincer la punga”
cominciò el “se non… Tal ne s’offerse:
oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”
 
I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole alle prime diverse;
 
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenza che non tenne.
 

[Virgilio sembra voler rassicurare sé stesso, oltre che Dante. Tuttavia, a un certo punto le sue parole esprimono un dubbio: la “punga” (la pugna, la battaglia) sarà da loro vinta “se non…” e la frase è lasciata in sospeso. Subito, come per soffocare la sua incertezza, ribadisce che chi gli assegnò l’incarico di guidare il Poeta “è tale”, ossia talmente affidabile, che non si può dubitare del buon esito dell’impresa. Tuttavia a Dante questa rassicurazione non basta: egli è come un bambino che, in un momento di grave difficoltà, legge l’insicurezza nel volto del genitore, o come un malato che scorge lo stesso stato d’animo in quello del terapeuta: entrambi sono presi dal panico. Angosciato, egli è regredito ad una forma di dipendenza infantile, e vorrebbe un protettore “infallibile”, mai sfiorato dal dubbio; interpreta, perciò, il seguito inespresso di quel “se non…” nel peggiore dei modi, come se Virgilio volesse dire, ad esempio, “se non ho commesso qualche sbaglio nel condurti fin qui”. L’angoscia testimonia quanto sia di vitale importanza, per il Poeta, entrare nella città di Dite e proseguire il viaggio.]

 

Preso da un’angosciosa incertezza, Dante chiede a Virgilio se qualche anima del Limbo (come la sua) sia mai scesa nel profondo Inferno. Virgilio gli risponde che ciò succede di rado, però lui stesso compì tale viaggio e perciò (lo rassicura) conosce bene il percorso. Virgilio sta ancora parlandogli, ma l’attenzione di Dante è bruscamente attirata da qualcosa di sconvolgente che compare sull’“alta torre”:

 
pag. 126, vv. 34 – 51
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver l’alta torre alla cima rovente,
 
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra femminine avìeno e atto,
 
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avean per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
 
E quei, che ben conobbe le meschine
della regina dell’etterno pianto
“Guarda” mi disse “le feroci Erine
 
…………………………………….”
 
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battìensi a palme, e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
 

Si tratta delle Erinni, le furie vendicatrici del mito pagano; “meschine”, ossia “ancelle” di Persefone, dea degli Inferi e “regina dell’etterno pianto”, sono per Dante custodi della città di Dite.

 

[Il tema della “madre” è qui più volte e indirettamente riproposto: le Erinni sono le furie vendicatrici che perseguitarono il matricida Oreste; Persefone è la “regina” (simbolicamente madre) dello “eterno pianto”, ossia del luogo dove si soffre in eterno. Potrebbe anche essere menzionato qui il suo pianto inconsolabile perché, rapita da Ade, è stata violentemente strappata alla madre Demetra. Le Erinni hanno caratteristiche opposte rispetto a quanto si attribuisce ad una madre amorevole: pervase da violenza, emettono alte grida che suscitano il terrore di Dante, e il loro aspetto è mostruoso. Anche il comportamento di queste figure perturbanti è agli antipodi rispetto a quello di una buona madre; ossia di una donna capace di accogliere, fra le sue braccia e nel suo animo, il figlio, le sue necessità e, allo scopo di alleviarle, le sue paure. Le Erinni, infatti, respingono il Poeta, non gli consentono di penetrare nel luogo dove egli potrebbe soddisfare il bisogno di conoscere i peccati più gravi, di lenire le angosce che essi gli suscitano, di porre le tendenze peccaminose (malate) sotto il suo controllo. Sono figure materne persecutorie – per così dire: “anti-madri” – di fronte alle quali la ragione di Virgilio è impotente.]

 

Se le Erinni già suscitano paura, un terrore ancora più intenso è quello che provoca Medusa, capace di rendere “smalto” (pietrificare) chi la guarda. Le Erinni la invocano come figura capace, stavolta, di perseguire la trasgressione rimasta impunita di Teseo:

 
pag. 126 – 128, vv. 52 – 54
“Venga Medusa: si’ ‘l farem di smalto:”
dicevan tutte riguardando in giuso
“mal non vengiammo di Teseo l’assalto”
 

Virgilio si rende conto che il potere malefico della Gorgone è irresistibile: se Dante la vedesse, non potrebbe più tornare nel mondo dei vivi. Invita, perciò, il Poeta a voltarsi indietro e, per essere sicuro che non si lasci prendere dalla curiosità, pone le mani davanti ai suoi occhi:

 
pag. 128, vv. 55 – 60
“Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso;
ché se il Gorgòn si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe del tornar mai suso.”
 
Così disse ‘l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne alle mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
 

        [Fra i commentatori, che intendono in diversi modi il significato della figura di Medusa, il Tommaseo sembra precorrere in parte l’interpretazione psicoanalitica: egli vede, nella Gorgone “il diletto sensuale, che indura il cuore dell’uomo, spegnendo in lui ogni gusto delle cose divine”. Volendo tradurre in termini più laici la sua affermazione, possiamo vedere nei serpenti, che Medusa ha al posto dei capelli, il simbolo di pulsioni (genitali, anali) che, in forma primitiva e non sublimate, sono capaci di destrutturare la mente, spazzando via quanto di più elevato e propriamente umano essa possiede. L’irruzione di tali pulsioni, che Medusa produce, è paralizzante, e priva l’essere umano di ogni capacità di dirigere la propria vita in modo autonomo, razionale e conforme ai suoi più alti valori.
        Nell’attività clinica, possiamo riconoscere figure simili a Medusa in persone adulte che, nell’infanzia del paziente, commisero su di lui abusi sessuali capaci di paralizzarlo ed arrestare la sua crescita. Occorre molta cautela se s’induce il paziente a ricordare esperienze traumatizzanti di questo genere: anche la sola rievocazione può avere un effetto sconvolgente. Occorre che il malato sappia bene di cosa si tratti ma, arrivati a un certo punto, non riviva fino in fondo tali esperienze, non le “veda” neppure con gli occhi della mente: se non li chiude spontaneamente, occorre aiutarlo a farlo, come Virgilio allo stesso modo aiuta Dante.]

 

Dante, a questo punto, invita il lettore “sano” (ossia non incline ad interpretazioni morbose) a comprendere il significato della sua allegoria:

 
pag. 128, vv. 61 – 63
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame delli versi strani.
 

[Tale invito potrebbe riferirsi a quanto precede, ossia alle Erinni e a Medusa, ma trova un suo senso simbolico compiuto in quanto segue. Su quest’ultimo punto occorre, come dirò più avanti, una puntualizzazione.]

 

L’arrivo del Messo celeste è preceduto e accompagnato da una scena terrificante e grandiosa:

 
pag. 128, vv. 64 – 74
E già venìa per le torbid’onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per che tremavano amendue le sponde,
 
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
 
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
 
Li occhi mi sciolse e disse: “Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fumo è più acerbo.”
 

[A dispetto del carattere impressionante di quel che succede, Virgilio toglie le mani dagli occhi di Dante e lo invita a dirigere la sua forza visiva (il “nerbo del viso”) su quel che può scorgere al di là del “fumo” sollevato dal turbine. Dobbiamo supporre che, mentre la visione delle Erinni e di Medusa sarebbe stata pericolosa e distruttiva, qui, al contrario, accade qualcosa di fronte a cui, a giudizio del saggio Virgilio, conviene aprire bene gli occhi: qualcosa che si rivelerà provvidenziale e liberatorio.]

 
Ora compare chiaramente il Messo divino:
 
pag. 129 – 134, vv. 85 – 105
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fe’ segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
 
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne alla porta, e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
 
“O cacciati dal ciel, gente dispetta!”
cominciò elli in su l’orribil soglia
“ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
 
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non può il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
 
……………………………………………..”
 
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fe’ motto a noi, ma fe’ sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda
 
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver la terra,
sicuri appresso le parole sante.
 

        [Ed ora la puntualizzazione cui avevo accennato più sopra. Voglio chiarire quel che intendo quando parlo dei suggerimenti che il Poeta offre al clinico – Ciò vale, in particolare per quest’episodio, ma, a parere di chi scrive, va tenuto presente anche riguardo ai commenti sul resto del Poema – Quel che può interessare chi si occupa di problemi psichiatrici non è tanto il significato profondo che possiamo ravvisare nei versi (questo lo conosciamo già: ci siamo da tempo arrivati seguendo un percorso diverso da quello del Poeta, ossia tramite l’indagine clinica), quanto il modo con cui Dante lo comunica, ossia il carattere di “verità” dell’esperienza che, attraverso i suoi versi, viviamo. Il suo modo di comunicare è parte di questa verità. Lo psichiatra di formazione psicoanalitica formula le sue interpretazioni (espresse verbalmente, o solo pensate) intuendo la radice inconscia delle esperienze che vengono vissute nel transfert/controtransfert, ossia quelle condivise dal terapeuta e dal malato. Tuttavia ciò non basta per cogliere pienamente i vissuti: la componente inconscia più profonda, in quel che si vive, è come un elemento chimico che si lega inscindibilmente ad altri per dar luogo ad un composto le cui proprietà sono diverse da quelle delle sue singole componenti; ed è in questo “composto”, e non in uno solo dei suoi elementi costitutivi, che risiede la “verità” dell’esperienza.
         Così è per l’esperienza riconducibile alla traccia mnestica inconscia della “scena primaria” (ossia alla visione del contatto intimo fra i genitori) che Dante adombra nei versi che ho citato. C’è, innanzi tutto, lo stupore e lo spavento del bambino che assiste a qualcosa che sconvolgerà completamente la sua visione del mondo: qualcosa che, in un primo momento, è incomprensibile, terrificante; un insieme di rumori e di movimenti insoliti che nasce dall’incontro impetuoso di “avversi ardori”. Poi viene messo a fuoco un personaggio autorevole (una figura che Dante lascia non ben definita, come per sottolinearne la misteriosa potenza) che con una “verghetta” apre con grande facilità un passaggio che sembrava inaccessibile. È interpretabile come figura paterna che col suo gesto dimostra come sia dominabile, con l’amore adulto, una madre che finora era vissuta come onnipotente, impenetrabile, e (per lo più proiettivamente) pericolosa e malefica. L’esperienza è sconvolgente, perché dimostra come i genitori abbiano una vita propria da cui il bambino è escluso, però è anche liberatoria: essa permette di allargare il campo visivo, ed uscire dalle ristrettezze di un rapporto duale con la madre in cui i conflitti, senza l’intervento paterno, sarebbero insolubili.
        Quanto sopra è la descrizione sommaria di un singolo elemento di quel “composto chimico” descritto da Dante; elemento che, per chiarezza di esposizione, ho isolato. Tuttavia, nella situazione vista nel suo insieme rientra anche il ruolo di “inviato da Dio” della figura autorevole; e Dio, nell’allegoria del Poema, è Amore che muove l’universo (Paradiso XXXIII, 145). La cruda immagine di un atto sessuale, di per sé, non renderebbe quindi ragione del carattere affettivo e spirituale della scena, anche se ne rientra come componente. Nel modo in cui viviamo l’esperienza di questi versi (ne sentiamo la verità), costituendone elementi insostituibili, rientrano le metafore che Dante usa per adombrare i significati profondi: il carattere poetico e la bellezza che caratterizzano queste immagini testimoniano la presenza di una capacità di sublimare, ossia d’integrare nella personalità, e rendere accettabili, pensabili ed umani, aspetti che, di per sé, apparterrebbero ad una dimensione animalesca.
        Le parole sprezzanti che il Messo celeste rivolge ai diavoli denotano una sua superiorità ed un suo maggiore potere rispetto a quegli elementi regressivi e distruttivi (della vita interiore) rappresentati dai diavoli. Sono parole “sante” perché, stampate nella mente, consentono di proseguire con sicurezza il percorso evolutivo. Anche questo costituisce un elemento essenziale della scena.
        In sintesi: Dante, qui come altrove, ci offre un modello del modo in cui possiamo pensare (e, al momento opportuno, comunicare al paziente) contenuti profondi che rientrano, come componenti, nell’esperienza terapeutica. Si tratta di aspetti che, se presi isolatamente, ci darebbero una visione riduttiva di quel che sta succedendo; non c’ispirerebbero un autentico sentimento di verità. Essi, considerati in modo esclusivo e comunicati come tali al paziente, costituiscono quell’intervento anti-terapeutico che chiamiamo psicoanalisi “selvaggia”.]

 

Entrato nella città di Dite, Dante si trova nel sesto cerchio, dove sono puniti gli eresiarchi, cioè i capi degli eretici, coi loro seguaci. Al Poeta appare una grande distesa, piena di tormenti e di dolore. Egli la paragona alle necropoli di Arles e di Pola. Tuttavia i sepolcri che qui compaiono, e che rendono il terreno disuguale (“varo”), sono ancor più spaventosi: fiamme li arroventano al massimo grado; i coperchi sono sollevati, e dal fondo ne escono disperati lamenti:

 
pag. 134 – 136, vv. 112 – 123
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
 
fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogni parte,
salvo che l’modo v’era più amaro;
 
ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.
 
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.
 

Virgilio spiega a Dante che in questi avelli infuocati sono puniti i capi degli eretici ed i loro seguaci:

 
pag. 136 – 137, vv. 124 – 133
E io: “Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir con li sospir dolenti?”
 
Ed elli a me: “Qui son li eresiarche
co’ lor seguaci, d’ogni setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
 
Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi”
E poi ch’alla man destra si fu volto,
 
passammo tra i martìri e li alti spaldi.
 

        [Gli eretici sono immobilizzati nelle tombe come i morti. A loro, tuttavia, non è concesso il conforto del “riposo eterno”: un fuoco (più o meno caldo a seconda della gravità del peccato) li tormenta e non dà loro pace. Per descrivere il suggerimento che, ad un clinico come il sottoscritto, offrono questi versi (ossia questa “reverie” poetica, del tutto simile ad un sogno), è necessaria una premessa.
        Per Freud, lavorare sui sogni senza la presenza del sognatore “porta a ben magri risultati”. Infatti non è possibile un’interazione che consenta all’analista di trarre, dalla risposta dell’analizzando, una conferma, o una smentita, o una correzione dell’interpretazione che egli ha ipotizzato. Tuttavia Freud si riferisce ad una situazione terapeutica, in cui occorre essere sicuri che quanto dice il curante rispecchi quel che il paziente ha nella sua mente. Qui, al contrario, non dobbiamo “curare” Dante, ma solo trarre dai suoi versi suggerimenti utili all’attività terapeutica. Possiamo, quindi, fermarci all’associazione d’idee che la sua reverie suscita apprezzando, in questa, quanto può servire nel nostro lavoro, più che la eventuale corrispondenza a quel che Dante effettivamente pensava. Naturalmente sono possibili interpretazioni discordanti rispetto a quella del sottoscritto; ma non importa: quel che conta è che, nell’attività clinica, esse si rivelino non meno utili come modelli; e qui sì che la risposta del paziente e l’interazione con lui sono necessarie e devono essere rese possibili.
        L’associazione d’idee del sottoscritto all’immagine degli eretici è con il mito di Prometeo: anche lui, ribelle agli Dei, ebbe come punizione l’essere immobilizzato (incatenato ad una roccia); anche nella sua storia rientra il fuoco. Questo, per Prometeo, non fu uno strumento di punizione (a rodere il suo corpo fu un avvoltoio, e non la fiamma), ma un aspetto del suo “peccato”: egli, facendone dono agli uomini, offrì loro il mezzo per sfruttare a loro vantaggio, come fonte di luce e di calore, un elemento naturale che di per sé sarebbe stato loro nocivo. Trasgredendo la volontà degli Dei, egli quindi offrì al genere umano, il primo “germe e scintilla di civiltà”; permise agli uomini di diventare progressivamente autonomi, togliendoli dalla condizione di chi subisce passivamente l’ordine naturale voluto dagli Dei.
        Prometeo fu un infame ribelle, oppure un eroe benefattore dell’umanità? I modi in cui fu inteso questo personaggio oscillano fra l’una e l’altra interpretazione. Per gli Autori d’ispirazione cristiana (come S. Agostino e Tertulliano), Prometeo fu l’eroico ribelle agli “Dei falsi e bugiardi”. Viceversa, alcune creazioni poetiche d’ispirazione prometeica, che portano il nome di Capaneo e Lucifero, sottolineano il carattere scellerato della rivolta. Per Dante, rigorosamente aderente alla “Giustizia Divina” com’era intesa nel suo tempo, gli eretici ribelli sono decisamente dei peccatori: secondo il suo modo di vedere, essi, senza portare alcun beneficio all’umanità, provocarono una frattura in “Santa Madre Chiesa”. Tuttavia, come vedremo a proposito di Farinata degli Uberti e di Cavalcante Cavalcanti, Dante non mancò di sottolineare il carattere per certi aspetti nobile di questi personaggi. Colpisce, inoltre, che il Poeta, nell’ultimo verso del Canto, definisca “martìri” le sofferenze inflitte agli eretici. Ignoro se, ai tempi di Dante, a questo temine fosse attribuito un significato diverso da quello odierno. Oggi, per “martìri” intendiamo sacrifici affrontati pur di non tradire nobili ideali. Per questi motivi, anche nel Poeta, nei confronti dei “prometeici” eretici, possiamo ravvisare le tracce di una certa ambiguità.
        In Prometeo (e, secondo l’opinione del sottoscritto, negli eretici danteschi) è simbolicamente rappresentato un problema esistenziale che riguarda tutti noi: quello dell’emancipazione dall’autorità dei genitori. Fu Loewald a mettere in evidenza la grande importanza di questo avvenimento evolutivo: egli affermò l’esistenza di una “pulsione all’emancipazione”. Essa è affine, in quanto moto istintuale, a quella sessuale e a quella aggressiva, ed è quindi connaturata all’essere umano. Per quanto sana, l’emancipazione non è mai del tutto immune da elementi di violenza, presenti almeno in tracce e sentiti come colpevoli: per acquisire un’esistenza autonoma è necessario vincere le proprie resistenze e quelle, più o meno palesi, opposte da chi ci ha messo al mondo. Solo in caso di malattia tale pulsione può essere apparentemente soppressa: essa è manifestazione di un anelito alla libertà che, benché in un eterno e non superabile conflitto con la paura della libertà stessa, costituisce un elemento essenziale della natura umana. Di fronte alla ribellione, il nostro atteggiamento emotivo non può che essere ambiguo: da un lato l’emancipazione è sentita come necessaria e inevitabile; d’altro lato essa non può che avvenire facendo almeno un poco di violenza verso il bambino che c’è in noi, che vorrebbe restare permanentemente legato ai genitori, e verso questi ultimi che, in modo più o meno manifesto ed in conflitto con loro stessi, vorrebbero mantenere come tale il loro piccolo.
        La ribellione, tuttavia, può prendere una falsa strada che, anziché alla libertà, porta alla paralisi: sia Prometeo, sia gli eretici finiscono immobilizzati come inevitabile conseguenza (“punizione”) della loro scelta sbagliata. Nel mito antico, il padre degli Dei mandò, a Prometeo, Pandora: un personaggio femminile seducente che portava con sé un vaso in cui erano racchiusi tutti i mali. Lo scopo era indebolire coi vizi gli uomini, fiaccandone così le velleità ribelli. Un’apparente emancipazione, in effetti, può porsi al servizio delle debolezze umane e non dell’anelito alla libertà: la sudditanza verso i genitori può essere sostituita da dipendenze patologiche – verso sostanze, verso attività compulsive, verso autorità tiranniche – dipendenze che arrestano i processi evolutivi e paralizzano il soggetto. Il rischio che corre il ribelle è quello di perdere di vista la “diritta via”, e rimanere immobilizzato per sempre in una prigione ben peggiore della casa paterna.
        [Nota a piè di pagina: Il tema della strada da percorrere ci riporta a quanto Dante descrive negli ultimi versi del Canto, in cui il Poeta segue il suo Maestro in una direzione insolita: “E poi ch’alla man destra si fu volto, / passammo tra i martìri e li alti spaldi (vv. 132, 133). Nell’Inferno, eccetto in questo luogo e quando i due Poeti andranno verso Gerione (custode dei fraudolenti), essi girano sempre a sinistra. Alcuni commentatori ritengono di non dar peso a questo particolare appena accennato, giudicandolo di scarso rilievo espressivo. Se, tuttavia consideriamo l’immagine poetica come “reverie”, ossia come un tipo particolare di sogno, non possiamo fermarci di fronte al carattere apparentemente insignificante di certi dettagli. Infatti esiste un particolare meccanismo grazie al quale il contenuto onirico latente viene trasformato in manifesto. Si tratta dello “spostamento d’accento” grazie al quale un contenuto emotivamente importante viene espresso come cosa indifferente e come “en passant”. Supponiamo, quindi, che il volgersi dei Poeti verso la “man destra” abbia un senso che conviene non ignorare.

        In un saggio di Freud su di un sogno di Cartesio (ripreso in anni più recenti e sviluppato da Romolo Rossi) si parla del significato emotivo profondo di “destra” e di “sinistra”. Nel sogno, Descartes “…credendo di camminare per le strade, era obbligato a piegarsi interamente sul fianco sinistro per poter avanzare verso il luogo dove doveva andare: avvertiva infatti una così grande mancanza di forza al fianco destro che non poteva sostenervisi…” Anche un vento impetuoso tendeva a spostarlo a sinistra e a farlo cadere. Il sogno provocava nel filosofo un’intensa angoscia; doveva, perciò, legarsi ad una situazione conflittuale importante, presente anche nella sua vita vigile.

        Pur dando per scontato il carattere sovradeterminato di ogni sogno, Rossi lo riconduce principalmente alla posizione occupata da Cartesio nel contesto culturale del suo tempo. Descartes, in contrasto con molti di coloro che lo avevano preceduto, affermò il primato della razionalità sulle altre facoltà umane. Doveva, perciò, sentire una grande responsabilità nel difendere le sue posizioni dalle tendenze superstiziose e irrazionali, ancora così potenti nella sua epoca. Ciò si rifletteva anche nella sua vita personale ed emotiva. Temeva che il suo lato “destro” fosse privo di forze, ossia non possedesse energie sufficienti per portarlo alla meta desiderata. Dobbiamo supporre che qui “destra” sia simbolo di razionalità e realismo, vale a dire le qualità umane che intendeva affermare. Temeva, inoltre, che ciò che lo spingeva a “sinistra” fosse ancora troppo potente in lui. Qui “sinistra” sta per tutto ciò contro cui lottava: la forza della magia, della superstizione, della fuga nella fantasia. Confrontando l’analisi del sogno con quanto emerge da altri contesti, come quello politico – ed accennando anche ad una possibile base neuro-anatomica e neuro-fisiologica di queste tendenze – Romolo Rossi afferma che la parte “destra” di noi è quella simbolicamente dominata dal principio di realtà, dalla razionalità, e quindi dal pessimismo; essa può spingersi fino al più cinico realismo. Il lato “sinistro”, in contrasto, sta a rappresentare la fantasia e il sentimento dominati dal desiderio, dall’ottimismo, e può spingersi fino alle utopie più folli e disastrose In un individuo sano, esiste un certo equilibrio fra le due forze, anche se ciascuno di noi è, almeno un poco, tendenzialmente spostato a destra piuttosto che a sinistra, o viceversa.
        Ritornando agli ultimi versi cel Canto IX, non è irrilevante che i Poeti, qui fra gli eretici come più avanti in prossimità dei fraudolenti, procedano verso “destra” (verso il realismo e la verità) per il pericolo d’essere portati fuori dalla “retta via” che la vicinanza con questi peccatori comporterebbe. Gli eretici, con la loro adorazione di un Dio non “vero”, e i fraudolenti, con le loro false convinzioni trasmesse con l’inganno, avrebbero potuto trascinare Dante troppo a “sinistra”, così come, nel suo sogno, il vento impetuoso deviava il cammino di Cartesio. In vicinanza delle altre anime dannate, Dante e Virgilio possono seguire, per un tratto accettabile, il percorso verso “sinistra” di questi peccatori allo scopo d’accostarsi ad essi; però, nel loro caso, più sicuri di non seguirli fino in fondo sulla strada della perdizione.]

 
…………………………………………………………………………………………
 
Canto X

I due Poeti proseguono il loro cammino per un sentiero (“un secreto calle”) fra le mura di Dite ed i sepolcri infuocati. Dante chiede al suo stimato Maestro (“la virtù somma”) se sia lecito vedere i dannati di questo cerchio. La cosa gli pare possibile, dato che i coperchi dei sepolcri sono sollevati e nessuno è di guardia. Virgilio, prima di rispondergli che può farlo, gli spiega che i coperchi saranno definitivamente abbassati il giorno del Giudizio Universale. Soggiunge, poi, che qui scontano la loro pena Epicuro e i suoi seguaci, i quali negarono l’immortalità dell’anima:

 
pag. 139 – 140, (vv 13 – 15)
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt’i suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.
 

        Gli epicurei portarono all’estremo la ribellione-emancipazione implicita nella loro “eresia”: affermarono una separazione completa e definitiva dall’Oggetto arcaico ideale (da Dio). Se il corpo è innegabilmente destinato a perire, l’anima per chi ha fede rimane accomunata al Padre Eterno per il suo carattere immortale. La separazione da tale genitore ideale sarebbe solo parziale e temporanea, ossia per la durata dell’esistenza terrena: se ne fossero degni, gli esseri umani ritroverebbero un pieno contatto con Lui nell’oltretomba.
        La concezione degli eretici epicurei implica un radicale cambiamento nella visione della vita: a proposito di Farinata, Benvenuto da Imola scrive che egli, seguace di Epicuro, non credeva che ci fosse altro mondo al di fuori di questo. Perciò, cercava in tutti i modi d’eccellere in questa breve vita, non sperando che ne esistesse un’altra migliore. Viene, quindi, valorizzato al massimo grado quel che l’essere umano fa per sua spontanea scelta su questa terra, ossia come si comporta il figlio del tutto emancipato dai genitori e libero di dirigersi autonomamente.
        D’altro canto, come si diceva nel commento al Canto IX, in ogni forma di emancipazione (e quindi anche nell’eresia epicurea), c’è un elemento di violenza: una sorta di tradimento della promessa, rivolta al Padre Eterno, di non separarsi mai da Lui. Il che significa anche l’abbandono della possibilità di recuperare la beatitudine di cui la maggior parte di noi godette all’inizio dell’esistenza, e la rinuncia alla vita eterna: gli eretici epicurei sono dannati, e la loro punizione (la conseguenza delle loro stesse scelte) è quella di restare per l’eternità nelle tombe, d’essere effettivamente, e in tutti i sensi, “morti”.

 

A questo punto, uno dei dannati, riconoscendo Dante dall’accento come proprio concittadino, si alza dal sepolcro e lo invita a soffermarsi:

 
pag. 140, vv. 22 – 27
“O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
 
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
alla quale forse fui troppo molesto.”
 

Benché, in quanto eretico e ghibellino, “traditore” verso la Chiesa (e, per i Cattolici, verso Dio), Farinata è tuttavia fedele alla madre patria. Ostile senza alcuna esitazione verso i nemici politici, mostra nei riguardi di Firenze una premura che lo porta a chiedersi se sia stato “troppo molesto” verso questa città. Farinata non è un puro ribelle, come Capaneo o Lucifero: la sua inimicizia verso l’autorità della Chiesa, e verso i guelfi che la sostengono, è legata a (e, per lui, conseguenza di) un grande affetto verso la patria che non vorrebbe dominata da forze ostili.

 

Dante, intimidito dall’improvvisa comparsa del dannato, s’accosta di più alla sua guida; tuttavia questi lo rincuora e lo informa che si tratta di un concittadino con cui il Poeta desiderava parlare. Ora Dante può osservare Farinata che, ergendosi sul sepolcro dalla cintola in su, mostra un aspetto imponente ed altero. Virgilio lo incoraggia ad avvicinarsi, e lo invita a parlare francamente (con parole “conte”) a quest’anima. Vedendo che Dante è giovane, e perciò a lui sconosciuto, Farinata gli chiede chi furono i suoi antenati:

 
pag. 140 – 141, vv. 34 – 42
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno in gran dispitto.
 
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepolture a lui,
dicendo “Le parole tue sien conte:”
 
Com’io al piè della sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?
 

Già nel suo atteggiamento posturale, Farinata mostra tutta la fierezza ed il carattere impavido del vero combattente: non lo tocca neppure la prospettiva della dannazione eterna. Dante, seguendo l’invito di Virgilio a parlare con sincerità (come si conviene con un avversario degno di rispetto), è già preparato a rispondere alla domanda che Farinata, da ghibellino inflessibile, gli pone: chi furono i suoi antenati, e di quale partito?

 

Avendo Dante rivelato d’essere di famiglia guelfa, Farinata, dopo essere rimasto un poco pensoso (le ciglia levate “in soso”) risponde che gli alleati politici del Poeta, suoi acerrimi nemici, furono per due volte cacciati dalla città. Dante gli obietta che, in entrambi i casi, i guelfi riuscirono a rientrare a Firenze. Al contrario, i ghibellini non appresero “l’arte di ritornare”:

 
pag. 141, vv. 43 – 51
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non li celai, ma tutto lil’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in soso,
 
poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi.”
 
“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte”
rispuosi lui “l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte.”
 

        È qui introdotto il tema dell’esilio. Tenendo presente che lo sforzo d’emanciparsi (che ritengo rappresenti la base emotiva profonda dell’eresia) costituisce, per così dire, la scelta di una auto-emarginazione dalla comunità familiare, siamo di fronte ad un apparente paradosso: l’adolescente polemico verso i familiari e desideroso d’affrancarsi, tuttavia teme che la sua emancipazione si traduca in un’espulsione. Quel che Dante dice ironicamente a Farinata (i ghibellini non appresero “l’arte di ritornare”) colpisce quest’ultimo a tal punto che continuerà a pensarci per tutta la durata dell’episodio di Cavalcante Cavalcanti senza, apparentemente, esserne distratto.
        L’adolescente, pur insofferente verso la famiglia, è terrorizzato dal rischio che le porte di casa si chiudano alle sue spalle, e non si riaprano mai più. Il paradosso è solo apparente: per percorrere con sicurezza il cammino di una vita autonoma, il ragazzo ha bisogno d’essere certo che, qualora se ne presentasse la necessità, potrebbe ritornare fra i genitori. Che gli si offra tale certezza dipende dall’affetto e dalla capacità di comprensione empatica di chi l’ha messo al mondo.

 

Interrompendo lo scambio di battute fra Dante e Farinata, sporge il suo capo dalla medesima tomba un altro dannato. Dalle sue parole il Poeta comprende che si tratta dell’ombra di Cavalcante Cavalcanti, padre del suo amico Guido e consuocero di Farinata:

 
pag. 141 – 146, vv. 52 – 72
Allor surse alla vista scoperchiata
un’ombra lungo questa infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
 
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che il sospecciar fu tutto spento,
 
piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? perché non è ei teco?”
 
E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.”
 
Le sue parole e ‘l modo della pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
 
Di subito drizzato gridò: “Come
dicesti? elli ebbe? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi il dolce lome?”
 
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
 

Cavalcante, convinto che al Poeta sia stato concesso, ancora vivo, di visitare l’Inferno per l’altezza del suo ingegno, spera di vedere accanto a Dante il figlio Guido, anche lui poeta e, a suo avviso, non meno meritevole. Deluso, piangendo chiede a Dante perché il figlio sia assente. Il Poeta gli risponde che si trova in questo luogo non per i suoi meriti, ma per essersi affidato a chi lo sta aspettando; forse Guido non partecipò al viaggio perché “ebbe” a disdegno questa persona. Credendo che il tempo passato del verbo (“ebbe”) significhi che il figlio non è più tra i vivi, Cavalcante rivolge al Poeta alcune domande angosciose; e poiché Dante indugia a rispondere, egli ne trae conferma del suo sospetto. Abbattuto, ricade supino nel sepolcro, e non ricomparirà più.

 

Cavalcante è un padre affettuoso che, per la sua nobile natura, suscita nel lettore (ed anche in Dante) sentimenti di stima e simpatia. Che ci fa nell’Inferno? Come si è detto, Dante crede fermamente in una Giustizia Divina inflessibile: Cavalcante Cavalcanti fu un eretico epicureo, e come tale deve essere giudicato colpevole, senza alcuna attenuante. Tuttavia, nell’Autore della Divina Commedia, accanto al rigido moralista, ed indisturbato da esso, convive il Poeta. Al di sotto della superficie, c’è un’anima sensibile che gli permette di cogliere, nella vita interiore altrui, nessi che, se prevalessero le sue austere convinzioni etiche, riterrebbe inammissibili. Se si tiene presente il significato emotivo profondo delle idee, si può vedere che fra l’eresia epicurea e il carattere del padre amorevole esiste un nesso di ordine affettivo: proprio perché si è emancipato dall’autorità genitoriale (che l’eresia identifica con la Chiesa e con Dio), Cavalcante può adottare in piena autonomia il suo ruolo di padre, ossia di adulto indipendente che, senza dover rispondere ad altri o ad altro che non sia il suo cuore, non pone alcun limite all’affetto per il figlio.

 

Farinata che, come si è detto, durante l’episodio di Cavalcante è rimasto immobile e impassibile ripensando alle ultime parole di Dante, ora riprende il dialogo interrotto:

 
pag. 147, vv. 73 – 87
Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò suo aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
 
e sé continuando al primo detto,
“S’elli han quell’arte” disse “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
 
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia della donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.
 
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”
 

        Farinata ribadisce quanto sia doloroso per lui il non aver appreso “l’arte del ritornare”, ossia l’angoscia dell’espulsione definitiva dalla madre patria. Egli l’avverte come ancor più penosa dello strazio che gli procura il “letto”, ossia il sarcofago in cui viene condannato a rimanere come punizione per la sua eresia.
        Dopo il patetico episodio di Cavalcante, le parole di Farinata sono più pensose e dolenti. Si avverte come il desiderio di gettare un ponte di umana comprensione fra lui ed il suo avversario politico. Egli profetizza che entro cinquanta mesi – cinquanta fasi lunari in cui Persefone, la “donna che regge l’Ade”, mostrerà il suo volto con le sembianze del satellite – anche Dante conoscerà l’esilio: saprà quanto sia difficile esercitare “l’arte del ritorno”. Ciò non pare tanto una ritorsione nei confronti dell’ironia del Poeta, quanto l’affermazione di un comune destino. Questo consente ai due rivali di riconoscersi l’uno con l’altro e di comprendersi. Rimane, tuttavia, in Farinata un motivo di risentimento per le persecuzioni di cui sono vittime i suoi familiari e la sua parte politica.

 

Dante fa presente a Farinata che il duro trattamento inflitto ai ghibellini fu conseguenza della sanguinosa battaglia di Montaperti in cui i guelfi, sconfitti, subirono gravi perdite. Così Farinata gli risponde:

 
pag. 147 – 148, vv. 88 – 93
Poi ch’ebbe sospirato e ‘l capo scosso,
“A ciò non fu’ io sol” disse “né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
 
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”
 

        Dopo aver sospirato e scosso il capo (segno che anch’egli non è indifferente di fronte alla strage dei concittadini menzionata da Dante), Farinata ribatte che non fu il solo a infliggere ai guelfi la sconfitta (e non fu senza motivo che partecipò alla battaglia), ma invece egli fu il solo a difendere “a viso aperto” la città madre, quando tutti gli altri ghibellini ne proponevano la distruzione.
        Non viene negato il motivo del contendere – ossia la rivalità riguardo al dominio su Firenze – tuttavia Farinata esprime il suo amore per la madre patria; amore grazie al quale egli, in contrasto con tutti gli altri ghibellini, si oppose alla sua distruzione. Anche qui viene menzionato un affetto che, pur combattendo su opposti fronti, accomuna i due rivali: l’amore per la città di Firenze. Gli attori di questa scena sono tre: Dante, Farinata e l’oggetto della loro rivalità, cioè la città madre. Non è difficile – al di sotto di tutti i fattori sovrapposti di ordine sociale e politico, storicamente determinati – ravvisare il significato emotivo profondo di una situazione triangolare edipica.
        Chi scrive concorda con l’interpretazione di Loewald che, in contrasto con Freud (il quale vede, quale motivo esclusivo della rivalità maschile con il padre il possesso della madre) interpreta il conflitto come principalmente finalizzato all’emancipazione del figlio. Secondo quest’Autore, il conflitto con l’autorità paterna avrebbe lo scopo principale di affrancarsene. L’amore edipico per la madre costituirebbe una fase di transizione in cui, accanto al tenero attaccamento infantile per la genitrice, si sovrapporrebbero elementi che appartengono già all’amore adulto. Anche quest’ultimo sentimento è una tappa del processo che porta all’emancipazione: l’affetto per la madre è in gran parte di tipo primitivo, e l’unico modo per superare del tutto il conflitto d’ambivalenza che appartiene alle prime fasi dello sviluppo è, in ultima analisi, spostare l’investimento affettivo al di fuori della famiglia d’origine.
        Per inciso: per rendere l’esposizione più semplice, ho considerato soltanto il punto di vista maschile; l’evoluzione femminile è in parte speculare a quella maschile, ed in parte possiede proprie peculiarità. Esistono, poi, evoluzioni più complesse. Tuttavia, commentando la scena descritta da Dante che si svolge fra maschi, mi sono limitato ad illustrare sommariamente il loro punto di vista.
        Come ho detto, i Canti dedicati agli eretici, nell’opinione di chi scrive, illustrano in termini poetici il problema dell’emancipazione. Esso è presente anche nella descrizione di Farinata: il rivale contro la cui autorità occorre lottare, ma anche figura paterna positiva, modello identificativo ammirato per la sua eroica energia, per la sua capacità d’amare, e infine, modello da emularsi paradossalmente per la capacità, da lui dimostrata, di sapersi affrancare dall’autorità simbolicamente paterna. Al di sotto della condanna senza appello per l’eresia, Dante lascia intravvedere la sua stima per gli aspetti emotivi profondi che ne costituiscono il fondamento.
        Si è visto come l’atteggiamento di Farinata appaia un poco più raddolcito e conciliante dopo la comparsa di Cavalcante. Egli non è insensibile all’amore paterno dimostrato dall’altro personaggio; dobbiamo supporre che anch’egli lo nutra. Fra padre e figlio non esistono soltanto rivalità e lotta per il possesso dell’autorità: esiste anche quel che rimane, allo stato puro, dopo che ogni conflitto legato all’emancipazione sia superato: l’amore fra chi ha donato la vita e chi l’ha ricevuta; il sentimento libero e disinteressato – non condizionato dalla soggezione l’uno dall’altro, né verso chicchessia – di chi si riconosce nel comune destino di separazioni e perdite, e negli affetti condivisi.

 

Dante aveva già sentito le profezie di Ciacco (Inf. VI, v. 64 e seg.) e ora quelle di Farinata. D’altra parte si è accorto che Cavalcante ignora se suo figlio sia attualmente vivo. Chiede, perciò, al ghibellino come mai i dannati conoscano il futuro, mentre ignorano gli avvenimenti presenti. Farinata gli risponde:

 
Pag. 148, vv. 94 – 108
“Deh, se riposi la vostra semenza”
prega’ io lui “solvetemi quel nodo
che qui ha inviluppata mia sentenza.
 
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ‘l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo.”
 
“Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose” disse “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
 
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
 
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta.”
 

        Una prima osservazione: anche Dante appare ora più conciliante nei confronti del rivale. Gli augura, infatti, che la sua discendenza (“semenza”) abbia pace (“riposi”). Alla sua domanda, Farinata risponde che i dannati sono affetti da quel difetto della vista (“mala luce”) che oggi chiamiamo presbiopia: non vedono quel che è vicino, ma sanno percepire ciò che è distante. In loro, infatti, risplende ancora la luce dell’intelletto d’origine divina (“ne splende il sommo duce”). Tutto questo finirà dopo il Giudizio Universale quando, finito il mondo, cesserà d’esistere anche il futuro.
        Qui i commentatori ci fanno presente che quel che dice Dante è in contrasto con quanto sostengono molti Padri della Chiesa: essi affermano che i dannati hanno una certa conoscenza delle cose passate e presenti, ma non di quelle future. Questa concezione ha una sua coerenza emotiva: i “peccatori” conoscono quel che è stato e ciò che stanno facendo, ma sono “miopi” (ignorano, negano) riguardo alle conseguenze future delle loro azioni.  
        Forse non è casuale che Dante sostenga il contrario qui, nel Canto degli eretici: essi, dotati di “luce dell’intelletto” e animati da speranza (entrambe le cose d’origine divina, ossia da ciò che produce il contatto con l’Oggetto interno ideale) seppero considerare in modo critico i loro scopi futuri, vale a dire l’affrancamento dall’autorità terrena. Tuttavia si tratta di “dannati” il cui progetto d’emancipazione fallì del tutto: non si resero conto che, con i loro atti vicini nel tempo, cioè con la loro ribellione velleitaria, avrebbero perso del tutto il contatto con “Dio”; il loro procedere nel percorso evolutivo si sarebbe fermato, sarebbero rimasti paralizzati, prigionieri dei sepolcri e morti.

 

Dante, essendosi reso conto d’aver procurato a Cavalcante un grande dolore grazie ad un malinteso, prega Farinata di chiarirglielo:

 
Pag. 148 – 150, vv. 109 – 114
Allor, come di colpa mia compunto,
dissi “Or direte dunque a quel caduto
che ‘l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;
 
e s’i’ fui, dianzi, alla risposta muto,
fate i saper che ‘l feci che pensava
già nell’error che m’avete soluto.”
 

Riguardo all’esitazione per cui non aveva risposto prontamente alle ansiose domande di Cavalcante, e gli aveva fatto credere che il figlio fosse morto, Dante prova qui a darsi una giustificazione: pensava erroneamente che i dannati conoscessero il presente. Tuttavia si sente addolorato come se avesse commesso un atto colpevole (“come di mia colpa compunto”). Non sfugge, al Poeta, che, al di sotto del malinteso, ci sia stata una nascosta intenzione ostile verso questo padre. Per quanto l’individuo si sia evoluto ed emancipato, l’ambivalenza verso il genitore non viene mai superata del tutto.

 

Dopo che Farinata lo ha informato che con lui, fra gli eretici, ci sono l’imperatore Federico II ed il cardinale Ottaviano Ubaldini, Dante si allontana con Virgilio, avvertendo apprensione e pena per il futuro destino di esiliato che il ghibellino gli aveva predetto. A Virgilio non sfugge il suo stato d’animo inquieto:

 
Pag. 150, vv. 121 – 126
Indi s’ascose; ed io inver l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
 
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”
E io li soddisfeci al suo dimando.
 
Così Virgilio gli risponde:
 
Pag. 151, vv. 127 – 132
“La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te” mi comandò quel saggio.
“E ora attendi qui:” e drizzò il dito
 
“quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio.”
 

        Nel ricordargli il senso del viaggio nell’oltretomba (e, in particolare, la meta da raggiungere), Virgilio si comporta come un buon terapeuta quando aiuta il paziente a fronteggiare incidenti di percorso: è bene che gli ostacoli al cammino siano ben tenuti presenti. Tuttavia occorre che non si perda di vista la consapevolezza del percorso nel suo insieme, e che non venga meno la sicurezza del buon esito dell’impresa: giunti alla meta, a Dante (al paziente) sarà chiaro il senso che ha avuto (e che avrà in seguito) la sua esistenza, ossia la natura del suo progetto di vita. A rivelarglielo sarà la donna che Dante ha sempre amato, erede del più antico oggetto d’amore. Come questa, Beatrice saprà vedere con la lungimiranza dei suoi occhi quel che al soggetto è ancora oscuro. Come nel viaggio dantesco, anche il percorso terapeutico ha come meta ultima il ripristino del contatto con l’Oggetto ideale, da cui il soggetto trarrà piena consapevolezza del senso della sua vita.
        In realtà, a rivelare a Dante il suo destino non sarà Beatrice ma, in presenza di lei, l’antenato Cacciaguida (Paradiso XVII). Tuttavia non è casuale che, per ravvivare la speranza del Poeta, Virgilio faccia riferimento ad un personaggio di sesso femminile, più rappresentativo del più antico oggetto d’amore.

 

La sosta nel cerchio VI sta per concludersi. Dante e Virgilio si allontanano dalle mura di Dite e, attraversando il cerchio, proseguono la loro discesa per avvicinarsi ad un luogo maleodorante. Questa volta si dirigono a sinistra:

 
Pag. 151, vv. 133 – 136
Appresso volse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede
 
che ‘fin là su facea spiacer suo lezzo.

 

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