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QUALCOSA DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE: “La guerra dei nervi” di Stefanie Linden

31 Ott 21

A cura di chiclana

Titolo: La guerra dei nervi. Soldati traumatizzati sul fronte occidentale 1914/1918
Autore: Stefanie Linden
Editore: Guanda
Pagine: 337
Prezzo: 20 euro
 

Abbiamo scelto di parafrasare il titolo del bel romanzo pacifista di Erich Maria Remarque (1898-1970) per spostarci su un altro dei tanti fronti della Grande Guerra rispetto al nostro, del quale ci siamo occupati finora, e passare così alle Fiandre con il volume La guerra dei nervi. Soldati traumatizzati sul fronte occidentale 1914/1918 di Stefanie Linden (titolo originale They called it Shell shock), tradotto quest’anno da Guanda con un saggio introduttivo di Antonio Gibelli.
In esso, Gibelli  ricostruisce il percorso attraverso il quale nella storiografia italiana ed europea si è andato affermando l’interesse per il primo conflitto mondiale come “guerra dei nervi”, e il “discorso inarticolato della follia” si è gradatamente affermato come uno degli strumenti utili a “investigare la realtà smisurata della Grande Guerra”.
L’indagine della Linden è tanto più interessante perché si articola a cavallo del fronte, interrogando sul versante britannico gli archivi della maggiore istituzione che, sotto la direzione di Lewis Yealland, si specializzò nel trattamento del trauma bellico, quello che in Gran Bretagna fu per un periodo breve ma significativo, a partire da Charles Myers, definito lo “shell shock”, cioè il National Hospital for the Paralysed and Epileptic di Queen Square. E interrogando sul versante tedesco gli archivi degli ospedali La Charité di Berlino, il cui reparto psichiatrico era diretto da Karl Bonhoeffer, e del reparto diretto da Otto Binswanger a Jena.
Linden prende le mosse dalla recezione dell’introduzione del concetto isteria maschile da parte di Charcot nei diversi Paesi, per arrivare alla straordinaria diffusione che questo quadro, variamente denominato, ebbe nei diveri eserciti belligeranti e all’ampiezza del dibattito cui diede luogo, tanto che – riporta – circa un quinto degli articoli pubblicati sulle riviste Lancet e British medical Journal vertevano in quegli anni su questo tema.
Le cartelle cliniche da lei consultate contengono migliaia di storie simili, di quando i nervi hanno ceduto alla situazione invivibile che la guerra creava:
 
«La vita in trincea era molto dura. Pioveva molto, ma non c’era acqua potabile. Le razioni consistevano in came in scatola, marmellata, formaggio e pane. La sabbia si mescolava al cibo esasperando la sete. Si dormiva pochissimo e questo provocava un grande affaticamento della vista. Il paziente doveva occuparsi di soldati feriti e morenti che gli fecero una profonda impressione. Nel primo giorno che aveva tretscorso in trincea, aveva nel suo campo visivo una catasta di cadaveri uno dei quali aveva la faccia rivolta verso di lui e sembrava dormire – questo gli fece una tale impressione ché non riusci a liberarsi da questa visione. Prima di essere rimandato a casa, era stato cinque giorni e sei notti di fila in trincea [in condizioni terrificanti]. Il martellamento dei bombardamenti e il terrore di essere colpito lo avevano sprofondato in uno stato di inquietudine e tensione costante. I compagni del paziente notarono che non rispondeva e che sembrava non rendersi conto che stavano parlando con lui. [Il paziente] non ricordava nulla di tutto questo fino al momento in cui fu informato [dell’accaduto]. Non era in grado di tenere correttamente il fucile né sparare con precisione. Tremava e soffriva molto per il mal di testa».



 
Si moltiplicano intanto i casi clinici che evocano quadri di stati crepuscolari, psicosi isterica, sindrome di Ganser, psicosi reattive e di quella che in Germania Karl Kleist definì “psicosi da paura” e altri osservatori “stati dissociativi”, originati nel corso delle furiose battaglie combattute sul fronte occidentale. Né Linden trascura di riportare casi davvero insoliti di allucinazioni collettive, la più nota delle quali fu quella relativa alla visione, da parte dei soldati britannici, di un gruppo di angeli che avrebbero rallentato l’avanzata tedesca durante la battaglia di Mon’s.
Si moltiplicavano i casi di diserzione, vere sfide al potere militare e talvolta al confine, ma anche al sapere psichiatrico, interpretabili o meno come sintomatici di malattia; e certo colpisce come Linden riporti le parole con le quali le autorità militari tedesche giustificavano un’amnistia per i casi di diserzione affermando che: «la diserzione non era necessariamente un atto che dimostrava un’”indole cattiva”, perché poteva anche essere un risultato di un “forte sconvolgimento emotivo, eventualmente associato a opportunità o manipolazione esterna”». E, più in generale, la tendenza a un atteggiamento mite nel punire la diserzione, che non interessò come fenomeno più dell’1% degli effettivi e determinò la condanna a morte realmente eseguita in 19 casi in Germania, rispetto ai 269 della Gran Bretagna, intorno a 700 della Francia e a un numero imprecisato ma stimato a seconda delle fonti in circa un migliaio per l’Italia (i numeri riportati dalle diverse fonti non concordano per nessuno dei quattro casi, ma l’ordine di grandezza sembra questo).
Tra le differenze che mi paiono più interessanti tra l’esperienza bellica della psichiatria italiana e di quella britannica, merita di essere citata senz’altro la questione della simulazione, alla quale secondo Linden in Gran Bretagna «né le autorità militari né quelle mediche prestarono molta attenzione», mentre da noi divenne un’autentica ossessione tanto per le une che per le altre.
Più in generale, mi parrebbe leggendo Linden che lo psichiatra in Gran Bretagna e in Germania sia riuscito a tenere più presenti i propri compiti verso il paziente rispetto all’Italia dove, pur senza generalizzare, l’impressione è che una psichiatria forse meno sicura di sé abbia avvertito più forti i compiti verso la nazione e se ne sia lasciata maggiormente condizionare. L’orientamento generale, osserva infatti Linden, nei medici inglesi era piuttosto di non rinviare in Francia pazienti guariti da nevrosi traumatiche, per il timore di ricadute in caso di nuova esposizione.
Tanto in Gran Bretagna che in Germania, l’ipotesi di una lesione meccanica, organica all’origine delle nevrosi traumatiche belliche, originariamente sostenuta da Hermann Oppenheim, fu indagata con passione e serietà nei primi tre anni di guerra, ma poi una volta abbandonata sotto il peso del moltiplicarsi delle osservazioni nelle quali la relazione con un evento di carattere emotivo e il carattere simbolico spesso assunto dai sintomi erano evidenti, lo fu in modo più completo rispetto all’Italia, lasciando il capo allo studio delle emozioni. Tanto che, ad esempio, Bonhoeffer anticipò almeno parte delle osservazioni della psicoanalisi sulle nevrosi di guerra he furono condivise dagli psicoanalisti e dallo stesso Freud in occasione del congresso di Budapest del 1918, esprimendo il convincimento che esse traessero origine dal desiderio di sottrarsi alla guerra e ai pericoli che essa comportava. E ancora, per Linden: «Negli ultimi anni di guerra la maggior parte dei medici britannici aveva abbandonato l’idea che i disturbi dei soldati fossero il risultato di lesioni organiche causate dall’onda d’urto di un’esplosione e adottava un modello eziologico più complesso che teneva conto dell’interazione tra fattori fisici e psicologici». Tra gli altri, lo stesso Frederick Walker Mott, all’inizio della guerra tra i principali assertori dell’origine organica delle nevrosi di guerra.
E pare significativa al riguardo la poesia che scrisse Sigfried Sassoon, un soldato britannico curato per nevrosi traumatica, che Linden riporta:
 
Sognatori
 
(…)
I soldati sono sognatori, quando i cannoni prendono a tuonare
Pensano a focolari accesi, candidi letti, e spose.
Li vedo nei ricoveri immondi, rosi dai topi, e
Nelle trincee sconvolte, frustati dalla pioggia,
Sognare ciò che un tempo facevano con racchette e palle.
Beffati dal vano desiderio di riavere
Giorni di vacanza, e spettacoli, e uose,
E di andare all’ufficio in ferrovia.
 
Le ragioni per le quali, nel caso di Sassoon come in altri, il rifiuto della guerra per ragioni filosofiche o religiose poteva essere interpretato come sintomo di disagio psichico sono, per Linden, molteplici. Per la Germania, una era certamente quella di evitare che in un Paese molto religioso la possibilità che una posizione pacifista, e la conseguente diserzione, potessero essere prese in considerazione da più persone, se fossero state considerate qualcosa meno che una follia. La lettura psichiatrica dei problemi rappresentava, in questi casi, una scappatoia di fronte ad altre letture che sarebbero state più imbarazzanti per i vertici militari.
Con gli anni, i medici tedeschi e inglesi impararono a considerare la varietà di eziologia possibile per le nevrosi belliche, tanto che per Linden:
 
«Le cartelle cliniche dei soldati tedeschi e britannici mostrano che circa un terzo dei casi di nevrosi di guerra era causato da un trauma fisico (…); un’analoga percentuale era provocata da un’esperienza psicologicamente stressante quale, ad esempio, l’aver assistito alla morte violenta di un compagno. Molti dei pazienti con una diagnosi di nevrosi di guerra erano stati coinvolti in pesanti combattimenti, ma alcuni di loro (quasi un quarto alla Charité) non erano stati in azione e, presumibilmente, non erano mai stati esposti a gravi pericoli. In questi casi, l’anticipazione o il timore di un’imminente esperienza traumatica avevano provocato sintomi duraturi del disturbo».
 
Il canadese John Thomson MacCurdy riscopre poi quanto già sessant’anni prima scriveva John Connolly, e anticipa così i concetti generali della psicoterapia istituzionale e della comunità terapeutica, quando  studiando un reparto per la cura dello shell shock scrive: «l’influenza suggestiva più efficace… [era quella esercitata] dall’atmosfera e dall’atteggiamento [del personale] di un ospedale nel suo complesso». 
Di fronte alle nevrosi belliche la psichiatria riscoprì, inoltre, il dibattito sull’ipnosi, con Max Nonne favorevole e Otto Binswanger radicalmente contrario come in generale gli psichiatri britannici, tra i quali peraltro qualcuno colse invece l’occasione della guerra per sperimentare l’efficacia dell’ipnosi di gruppo. Ma ritrovò anche metodi che già alla metà dell’Ottocento si era lasciata alle spalle: la sorpresa, lo spavento, il dolore, l’applicazione rozza del premio e del castigo come terapie. O cercò di applicare in modo più rigoroso terapie già in essere nei manicomi, come l’ergoterapia, la clinoterapia o l’idroterapia. O di proseguire in terapie persuasive, volte in qualche caso alla parte cosciente della mente o in qualche altro all’inconscio. A qualcuno, poi, pareva utile l’inganno terapeutico di rinforzare nei pazienti il convincimento di essere affetti da reali problemi fisiologici, una pratica che però negli anni nei quali si cominciava a dibattere, specie in Gran Bretagna, del consenso del soggetto alle cure, cominciò anche a ricevere critiche.
In Germania le “punizioni terapeutiche” potevano consistere nell’applicazione di correnti elettriche dolorose, oppure i segmenti corporei affetti da tremori o sussulti potevano essere bloccati con l’ingessatura. Ma in altri casi un trattamento dissuasivo poteva consistere nello stesso internamento in un reparto psichiatrico chiuso per agitati, o nell’isolamento completo – del resto comunemente utilizzato in quegli anni, come le terapie elettriche, nella cura dell’isteria – o ancora nell’ignorare quando possibile il sintomo e rimandare il militare, comunque, al posto di combattimento.
Tra militare traumatizzato, guerra e psichiatria, insomma, mi pare che si fosse stabilita una complessa relazione triangolare di forza, nella quale la psichiatria si sforzava di rispondere alle esigenze della guerra e restituire ad essa il militare, usando ogni risorsa che il buon senso e la pratica, più che non la teoria, potevano suggerire.
Il volume termina con un capitolo nel quale viene seguita l’evoluzione del dibattito sulle nevrosi belliche dalla Grande Guerra ai giorni nostri, passando per la concettualizzazione del PTSD e via via fino alle osservazioni più recenti.
Ed è arricchito da numerose vignette spesso molto suggestive, tratte da giornali e pubblicazioni dell’epoca; due di esse mi hanno particolarmente colpito. In una, del 1914, sotto il titolo “Oddio, sono scioccato” è rappresentato un tremebondo e spaventatissimo soldato tedesco dopo la vittoria di un corpo d’armata britannico numericamente inferiore a Mon’s, dove il carattere inatteso dell’esito della battaglia aveva dato origine, come si è visto, a una sorta di allucinazione collettiva la cui eco si era rapidamente diffusa. Mi pare che essa dimostri come una diagnosi psichiatrica, il triste quadro della nevrosi traumatica, potesse essere disinvoltamente utilizzato dalla propaganda bellica per la denigrazione del nemico sconfitto, e sostanzialmente come sinonimo di debolezza, vigliaccheria.
Nell’altra vignetta, del 1916, sono esibiti in una sorta di zoo sotto forma di animali i soldati problematici, la cui gestione spesso finiva per coinvolgere in un modo o nell’altro lo psichiatra: “stupido e difficile da gestire”, “timido e pauroso”, “insofferente a ogni tipo di autorità”, oltre all’obiettore di coscienza che è sinificativamente rappresentato da una pecora.
In conclusione, devo confessare che l’impressione complessiva che nasce alla lettura del libro è, da un lato, la psichiatria italiana sia stata meno capace di sottrarsi all’”arruolamento” da parte dei vertici militari rispetto a quelle tedesca e inglese. E, dall’altro, che mentre la psichiatria italiana si attardava a dibattersi ancora, salvo lodevoli eccezioni, nei pregiudizi moralisti e classisti del peggiore Ottocento, quello pseudoscientifico di Cesare Lombroso, quella britannica – e in qualche misura anche quella tedesca – fossero evolute nel corso della guerra trovando un maggiore coraggio di trarre lezioni dall’esperienza, e si fossero già incamminate a grandi passi verso il Novecento di Sigmund Freud. Così, non può stupire l’atteggiamento verso le nevrosi traumatiche con il quale la psichiatria italiana avrebbe affrontato anche il successivo conflitto mondiale, e ne sarebbe uscita nel Congresso del 1946 (vai al link), mentre altrove già si discuteva di comunità terapeutica.
 
Tentando di operare una sintesi, del rapporto tra scienze della mente e Grande Guerra ci siamo occupati, fionora, con Chiara Bombardieri nella conversazione che ritorniamo a proporre nel video allegato, e abbiamo avuto ripetute occasioni di occuparcene anche in questa rubrica. Ad esempio con il quarto articolo pubblicato nel 2015, 1915-18. Vincitori e vinti (vai al link), o recensendo nel gennaio 2016 un importante seminario internazionale tenutosi in Germania (La guerra e suoi traumi tra centenario e attualità. Cronaca di un seminario sulle Alpi bavaresi, vai al link), o ancora commentando in occasione del centenario della disfatta di Caporetto nel 2017 una nota conferenza che Enrico Morselli tenne subito dopo di essa (vai al link), o riproponendo on line la mia introduzione al volume Il conflitto e i traumi. Psichiatria e prima guerra mondiale, che ho curato con Chiara Bombardieri ed è scaricabile gratuitamente online (vai al link). Traendo un bilancio dell’anno 2015 (vai al link), avevamo occasione di segnalare la pubblicazione, con la curatela di Andrea Scartabellati, del saggio di Amedeo Della Volta Pazzia e sessualità nei lager della grande guerra (Udine, Gaspari); ad esso bisogna ora aggiungere una cenno al saggio di Maria Grazia Salonna Gli “scemi di guerra”. I militari ricoverati al manicomio di Ancona durante la Grande Guerra (Affinità elettive), che ci era sfuggito. Al termine del 2016 (vai al link) era la volta del volume collettaneo Guerra e disabilità. Mutilati e invalidi e primo conflitto mondiale, curato da Nicola Labanca (Milano, Unicopli). Al termine del 2019 (vai al link), abbiamo segnalato il volume La guerra in testa. Esperienze e traumi di civili, profughi e soldati nel manicomio di Pergine Valsugana di Anna Grillini (Il mulino) e in una precedente occasione I demoni del Mezzogiorno. Follia, pregiudizio e marginalità nel Manicomio di Girifalco (1881-1921) di Orazio Greco (Rubbettino), che dedica un capitolo alla Grande Guerra (vai  al link). Con questi due volumi prosegue la ricognizione dell’impatto che la guerra ha avuto in diverse realtà asilari, che ha interessato negli  anni tra le altre Cogoleto, Verona, Treviso, Pergine, Reggio Emilia, Volterra, Teramo, Capodichino, Ancona. E nel 2020, in una prima occasione (vai al link) abbiamo segnalato Una guerra di nervi. Soldati e medici nel manicomio di Racconigi (1909-1919) di Fabio Milazzo (Pacini), e La follia nella grande guerra. Storie dai manicomi italiani di Guido Alliney (LEG). In una seconda occasione (vai al link) abbiamo ricordato il volume Soldati e neuropsichiatria nell’Italia della Grande Guerra. Controllo militare e pratiche assistenziali a confronto (1915-1918), di Marco Romano (Firenze University Press), disponibile online gratuitamente in PDF. Quest’anno, infine, abbiamo proseguito con una duplice recensione, del volume collettaneo curato da Dario De Santis Guerra e scienze della mente in Italia nella prima metà del Novecento (Aracne) e del volume Deserti della mente. Psichiatria e combattenti nella guerra di Libia 1911-1912, di Graziano Mamone e Fabio Milazzo (Le Monnier), entrambi del 2019 (vai al link), e ora aggiungiamo buon ultima questa recensione. E, ancora, mi permetto di segnalare due articoli che ho pubblicato sugli Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, ora disponibili open-access: La mente al fronte. La psichiatria italiana e la Grande Guerra, 2019, pp. 120-141 (vai al link); e Agostino Gemelli e la psicologia del soldato della Grande Guerra, 2020, pp. 58-79 (vai al link).

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2 Commenti

  1. nikkopsi887

    Sinceramente in un’epoca che
    Sinceramente in un’epoca che va incontro alla pace e alla pacificazione globale almeno nel mondo occidentale non capisco realmente il gusto che definirei “morboso” da parte di certi storiografi della psichiatria di andare a rimestare nel torbido come fa il dottor Peloso nei confronti di un materiale fortemente doloroso e soprattutto da immanentizzare assolutamente nella propria epoca cioè il primo cinquantennio del secolo scorso. Idem dicasi per la vexata quaestio fascismo- antifascismo d’antan nell’andare a riprendere categorie e tematiche che con Gramsci potremmo dire completamente organiche alle loro epoche cioè al secolo scorso. In breve io ritengo che i fascisti e gli antifascisti di oggi non corrispondano più alle loro categorie novecentesche ma siano perlopiù ibridati fatta esclusione per certe frange oltranziste dell’una e dell’altra sponda.

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    • chiclana

      Invidio gli ottimisti,
      Invidio gli ottimisti, davvero, e coloro che solo perché il frastuono delle bombe non viene dal loro cortile, pensano di vivere in pace! Per parte mia, mi pare invece che il tramonto delle ideologie abbia proprio riportato di drammatica attualità la guerra nazionalista, e le sue drammatiche conseguenze che interessano anche oggi ampie porzioni del mondo, e hanno lacerato pochi anni fa anche un Paese ai nostri confini. Quanto al fascismo, al parafascismo e al mezzo fascismo, beh mi pare che basti leggere la cronaca politica, in Italia in particolare, per vedere che non siano affatto pochi a essernne, chi più chi meno, nostalgici. Del resto, se guerra e fascismo ti sembrano datati e annoiano, sei libero di non scriverne. A me interessano, e ne scrivo per questo; anzi, spero non ti disturbi troppo sapere che nei prossimi giorni la biblioteca Carlo Livi di Reggio Emilia mi ha proposto un’intervista proprio sul rapporto tra fascismo, antifascismo e psichiatria… Evidentemente non sono proprio il solo a provare il gusto “morboso” di non archiviare questa questione…

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