RECENSIONE: Marilyn, ultimi giorni ultima notte
L’ultima terapia di Marilyn Monroe
Luciano Mecacci ha scritto un libro intitolato Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi il cui incipit dice: "Il caso Marilyn Monroe non è quello che propriamente si definisce un caso psicoanalitico. Diventano veri casi quelli che uno psicoanalista ha reso noti, perché magari ne ha scritto la storia, illustrando l’analisi e i rapporti con i suoi pazienti. Marilyn, invece, è un caso artistico, sociologico, poliziesco, persino politico, ma nessun psicoanalista ne ha scritto la storia" (p. 3). Anche Summers ha scritto che "non un solo scrittore qualificato ha tentato una ricerca seria sugli ultimi giorni di quella che fu incontestabilmente la dea del suo tempo" (p. 14).
Ora questa lacuna è stata colmata da Michel Schneider, psicoanalista e alto funzionario del Ministero della Cultura francese, con il libro Marilyn dernières séances, tradotto in italiano con Marilyn, ultimi giorni ultima notte.
Ho acquistato il libro di Schneider con l’intenzione di leggere un saggio di storia della psicoanalisi, un libro che ho messo rapidamente in valigia con l’intenzione di leggerlo durante la settimana di vacanza che avrei trascorso con mia moglie e mio figlio in Germania. Un libro leggero ma non frivolo, per disintossicarmi dalle letture pesanti e impegnative che mi avevano occupato durante il lavoro quotidiano di psichiatra. Devo confessare che mi ha spinto all’acquisto del libro anche l’aspettativa di poter assistere a frammenti di dialogo psicoanalitico nella stanza d’analisi di Ralph Greenson, lo psicoanalista del quale ho sempre aspettato invano di poter leggere il secondo volume del suo trattato Tecnica e pratica psicoanalitica, rimasto incompiuto per la sua prematura scomparsa.
Quando l’aereo stava sorvolando le alpi austriache, estrassi dal bagaglio a mano quel libro che avevo consegnato alla libraia con perentoria decisione destreggiandomi tra clienti indaffarati a scegliere un regalo natalizio. Rimasi deluso quando, sull’ultima pagina di sovracoperta, lessi che l’Express definiva il libro di Schneider "un vero romanzo d’amore". Io non sono mai stato un lettore di romanzi, attratto piuttosto dalla saggistica, sempre attrezzato con penne colorate per evidenziare i punti su cui riflettere più a lungo. Anche il fatto che lo stesso Schneider definisse il suo libro un romanzo mi ha lasciato la bocca un po’amara, ma mi sono ben presto ripreso quando dice di averlo scritto "frugando nei cassetti del transfert più pericoloso della storia." Questo era quello che cercavo: se non un frammento di storiografia psicoanalitica, almeno la cronaca di un transfert, con riferimento a fatti reali, documenti, interviste, lettere, appunti, parole registrate, articoli dello stesso Greenson e tutto quel materiale senza il quale non si può fare la storia. Molti documenti, i più importanti per quanto riguarda l’analisi di Marilyn, l’autore del libro non li ha potuti consultare, perché sono ancora gelosamente custoditi nei vari archivi americani come tanti scheletri nell’armadio della storia della psicoanalisi, e quindi questa ricostruzione non può essere che parziale e integrata da pensieri che appartengono all’autore del libro e alla sua identificazione empatica con i due protagonisti dell’analisi, come questa recensione sarà integrata da considerazioni che non si trovano nel libro di Schneider ma che appartengono solo al suo autore e alle sue letture.
Non mi interessava che questo documento storico fosse in parte romanzato, che l’autore vi intercalasse brani puramente inventati, perché sapevo che comunque il lavoro di ricerca effettuato da Schneider non avrebbe mai potuto trasformare il suo libro in un puro romanzo, e tanto meno in un romanzo d’amore. Ancor prima di leggere il libro mi avevano disturbato due cose; primo, il cambiamento del titolo originale, Marilyn ultime sedute, che era proprio ciò che cercavo nel libro. L’editore italiano aveva fatto una scelta di mercato cambiando il titolo francese, che pur evidenziando la cronaca psicoanalitica, aveva fatto vendere al libro centomila copie. Ma in Francia, evidentemente, la psicoanalisi gode di estimatori non solo tra gli specialisti del settore ma anche tra un pubblico più vasto, il che non avviene in Italia. E’ vero che quel titolo è suggerito dallo stesso Schneider nell’ultima pagina del libro, ma si adattava anche al mercato italiano, dove per vendere un libro bisogna puntare sul sesso. Ecco quindi il secondo punto che mi ha irritato, quella citazione nel risvolto di copertina con allusioni sessuali allo psicoanalista che non fa distendere Marilyn sul lettino e non vuole vedere le sue forme. Sono sicuro che l’autore, anche lui psicoanalista, non ha avuto di queste curiosità morbose nel mettere insieme questa cronaca psicoanalitica.
Questi vari disappunti non mi hanno impedito di cominciare a leggere il libro con la convinzione che vi avrei trovato ciò che mi aspettavo, una cronaca psicoanalitica appunto, e non un romanzo d’amore, che non avrei mai letto e che sicuramente Schneider non ha mai voluto scrivere. Se proprio si dovrà parlare d’amore, sarà all’amore di transfert che bisognerà fare riferimento, un fenomeno ben conosciuto dagli psicoanalisti e dai loro pazienti, e al quale il pubblico più vasto può accostarsi leggendo il gradevole libro di Krutzenbichler ed Essers, Se l’amore in sé non è peccato…, Ed. Cortina.
Proverò dunque ad indicare al lettore alcuni dei passaggi del libro che ne fanno un documento storico, al di là della sua gradevole scrittura romanzata, e attraverso la mia lettura cercherò di confutare l’idea che il libro di Schneider sia un romanzo. Mi piace vedere in questo libro una ricerca nella quale Schneider cerca di rispondere alla domanda: "Che cos’era successo in trenta mesi in cui Greenson e Marilyn erano stati presi nella follia passionale di una psicoanalisi uscita dai propri limiti?" (p. 19).
Il transfert che coinvolse Ralph Greenson e Marilyn Monroe è un esempio di quell’amore di transfert che ha famosi antecedenti nel transfert tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein, tra Sándor Ferenczi e Gizela ed Elma Pálos, ma che non risparmiò neppure Freud, il quale ammise, in una lettera a Jung, di essere andato molto vicino ad una simile situazione e di essersela cavata per un pelo, probabilmente con una delle sue prime pazienti, Emma Eckstein, e in seguito forse anche con Dora. Schneider afferma che "senza saperlo, ma desiderandolo violentemente, Ralph Greenson entrò con l’attrice in una di quelle attrazioni fatali alle quali gli intellettuali si lasciano andare con abbandono dato che sono convinti di rimanere i conduttori del gioco" (p. 41).
Ma quali furono gli aspetti di personalità di Marilyn Monroe che giocarono a favore di una relazione transferale così coinvolgente per entrambi i partecipanti alla relazione analitica? Non fu certamente il sex-appeal dell’attrice, come di primo acchito potrebbe pensare ogni lettore profano, ma un bisogno di riconoscimento da parte dell’Altro profondamente radicato nell’animo di quella bambina mal accolta e precocemente abbandonata che fu Marilyn, e che ella continuò a mascherare dietro la sua perturbante sensualità, dissimulando la sua sensibilità dietro una stupidità troppo ostentata per essere vera. Nata il primo giugno del 1926 al General Hospital di Los Angeles, la bambina Norma Jeane, in futuro Marilyn Monroe, trascorre a casa della madre solo due settimane, poi viene affidata alla famiglia Bolender che se ne occupa ricevendo un compenso statale, e presso la quale rimarrà fino all’età di sette anni.
Marilyn si sottopose a varie analisi prima di incontrare Ralph Greenson, per affrontare i principali nodi problematici della sua esistenza: traumi d’infanzia, mancanza di autostima, bisogno ossessivo dell’approvazione degli altri, incapacità di mantenere stabili legami d’amicizia o d’amore, paura di essere abbandonata (pp. 81-82). Vi riconosciamo i tratti principali della personalità borderline, se vogliamo racchiudere in una diagnosi la ferita mai sanata di un’infanzia deprivata. Ma Schneider non svilisce mai in una cornice puramente clinica il dramma e la solitudine di Marilyn. Greenson arrivò a questa diagnosi soltanto il 4 dicembre 1961, dopo dodici mesi di terapia, riferendola in una lettera indirizzata ad Anna Freud, che era stata anche lei per breve tempo sua terapeuta. Vi aggiunge anche che era diventata tossicodipendente e paranoica (p. 200).
"Marilyn era sempre in ritardo, come tutti coloro che non sono arrivati al momento giusto nella vita dei loro genitori, tutti coloro che non erano attesi" (p. 95), e lei ne era consapevole, poiché avrebbe detto: "Probabilmente sono stata un errore. Mia madre non mi voleva. Probabilmente le ero d’intralcio e devo essere stata una disgrazia per lei" (Maerker). Questo farà anche dire a Marilyn: "Mi sono sempre sentita una non-persona e la mia sola maniera di essere qualcuno è stata probabilmente quella di essere qualcun altro. E’ per questo che ho voluto recitare e fare l’attrice" (p. 8). Marilyn preferiva considerarsi orfana per attenuare il dolore del suo mancato riconoscimento da parte della madre e del padre che non conobbe mai, e aveva volentieri diffuso questa sua leggenda di bambina orfana, sebbene la madre, internata per una schizofrenia, le sia sopravvissuta di ventidue anni .
"Non ho mai vissuto con mia madre. Hanno detto il contrario, ma solo questa è la verità. Per quanto indietro risalga nei miei ricordi, sono sempre stata a pensione da qualcuno. Quando veniva a trovarmi dalle persone presso cui mi aveva sistemata, non sorrideva mai, non mi parlava, non mi toccava. Mia madre aveva delle…turbe psichiche. Adesso è morta" (p. 75). Marilyn ricordava Ana come la migliore di tutte le madri cui era stata affidata, e dell’amore, anche dell’amore materno, diceva: "Se questa parola ha un significato, non è fra un uomo e una donna. Prima o dopo Ana, non ho mai trovato l’amore, quello che accoglie gli altri bambini nelle case. O nei film, quella luce misteriosa che illumina il volto della star. Ho accettato dei compromessi. Ho cercato di attirare l’attenzione su di me. Qualcuno che mi guarda e pronuncia il mio nome: per me è questo, adesso, l’amore" (p. 71).
Al suo ultimo psicoanalista, Ralph Greenson, Marilyn non raccontò la favola della bambina orfana: "Mia madre, non so cosa lei volesse fare di me. Una morta […] No, non sono orfana. Ho una madre. Ha i capelli rossi e le mani morbide. Dicevo la verità, solo che non posava mai le sue mani su di me. Greenson ritenne che non fosse una menzogna la storia della madre morta. La morta era viva, in effetti, ma Marilyn diceva la verità quando pensava che, pur viva, sua madre era come una morta" (p. 42). Quando Marilyn dice che sua madre voleva fare di lei una morta rivela una formidabile intuizione, poiché effettivamente Gladys Monroe aveva dichiarato che i due figli avuti dal primo marito, Jack Baker, che dopo il suo divorzio vivevano con il nonno, erano morti (Maerker). E quando Marilyn considera la propria madre come una morta e cancella dalla propria memoria i pur brevi periodi trascorsi con lei, ha più di una ragione per farlo, non ultima i lunghi periodi della sua infanzia trascorsi in orfanotrofio.
Marilyn e il complesso della madre morta.
Vorrei trattenermi un po’ su questo punto, che ritengo fondamentale nella storia di Marilyn, per cui metterò da parte, per il momento, il libro di Schneider per seguire il pensiero di Green, che ha scritto pagine bellissime sul tema della madre morta, pagine che mi sembrano illuminanti per comprendere le difficoltà emotive dell’attrice. Quando Marilyn diceva che la propria madre era morta non mentiva perché si riferiva all’ "imago che si è formata nella psiche del bambino, in seguito a una depressione materna, trasformando brutalmente l’oggetto vivente, sorgente della vitalità del bambino, in una figura lontana, atona, quasi inanimata, che impregna molto profondamente gli investimenti di certi soggetti in analisi e pesa sul loro destino libidico, oggettuale e narcisistico. La "madre morta" è dunque, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, una madre che resta in vita, ma che è, per così dire, morta psichicamente agli occhi del piccolo bambino di cui si prende cura".
Quanto dice Green si adatta come una cornice perfetta al quadro clinico e alle esperienze di vita di Marilyn, e la prosecuzione del suo discorso potrebbe essere scambiata per appunti del suo analista, il quale però non ha altro in comune con l’analista francese che la prima parte del nome.
"Il complesso della madre morta - continua Green — è una rivelazione del transfert. Quando il soggetto si presenta per la prima volta dall’analista, i sintomi di cui si lamenta non sono essenzialmente di tipo depressivo. Il più delle volte riflettono lo scacco di una vita affettiva, sia per quello che riguarda l’amore, sia per quello che riguarda la professione: questi sintomi sottintendono conflitti più o meno intensi con gli oggetti. Non è infrequente che il paziente racconti spontaneamente una storia personale di cui l’analista pensa dentro di sé che là, in quel momento, avrebbe dovuto o avrebbe potuto comparire una depressione infantile, che il soggetto non menziona. Questa depressione, che, raramente, si è talvolta tradotta in forma clinica, esploderà manifestamente solo nel transfert. I sintomi nevrotici classici sono presenti, ma hanno valore secondario […] Al contrario, la problematica narcisistica, dove le esigenze dell’Ideale dell’Io sono considerevoli, in sinergia o in opposizione col Super-Io, emerge in primo piano. Il sentimento d’impotenza è chiaro. Impotenza ad uscire da una situazione conflittuale, impotenza ad amare, a trarre profitto dalle proprie doti, ad accrescere le proprie esperienze, o quando ciò avviene, insoddisfazione profonda rispetto ai risultati" (p. 273). Qui sono già ben delineate alcune delle difficoltà che si manifestavano con ricorrenza nella vita affettiva e professionale di Marilyn e che sono documentate nel libro di Schneider: le sue difficoltà nelle relazioni affettive con gli uomini e l’incapacità di mantenere un rapporto d’amore stabile che aveva fatto pensare al suo analista che Marilyn soffrisse di problemi di omosessualità; il suo costante timore di affrontare il set cinematografico come se ogni volta fosse la prima volta, la difficoltà a dare il meglio di se stessa e la sua costante insoddisfazione per le proprie prestazioni professionali.
Nel corso dell’analisi, osserva Green, talvolta dopo anni, si manifesterà quella che egli ha definito una depressione di transfert, che sarà la ripetizione di quella depressione infantile che il paziente non aveva nominato. "Non si tratta - prosegue Green - di una depressione per la perdita reale di un oggetto: voglio dire che qui non è posto in causa il problema di una separazione con l’oggetto che avrebbe abbandonato il soggetto. Questo fatto può essere presente, ma non è quello che costituisce il complesso della madre morta.
Il tratto essenziale di questa depressione è che essa si determina in presenza dell’oggetto, lui stesso assorbito in un lutto. La madre, per una ragione o per l’altra, si è depressa […] In ogni caso, la tristezza della madre e il calo d’interesse verso il bambino sono evidenti […] Ciò che si produce allora è un cambiamento brusco, autenticamente mutativo dell’imago materna. Fino a quel momento, con la madre si era annodata una relazione ricca e felice, e ne fa testo la presenza di una vitalità autentica che ha subìto un busco arresto, un intoppo che la trattiene ormai bloccata".
Questo cambiamento, dice Green, produce "un nucleo freddo, che successivamente verrà superato, ma che lascia un marchio indelebile sugli investimenti erotici del soggetto. La trasformazione nella vita psichica, al momento del lutto improvviso della madre, che disinvestì bruscamente suo figlio, è vissuta dal bambino come una catastrofe. Da una parte, perché l’amore è stato perduto di colpo, senza alcun segno di preavviso. Il trauma narcisistico rappresentato da questo cambiamento non ha bisogno d’ulteriori spiegazioni. Bisogna tuttavia sottolineare che essa rappresenta una disillusione anticipata e che comporta, oltre alla perdita di amore, una perdita di senso, perché il piccolo bambino non dispone di nessuna spiegazione che renda conto di ciò che è avvenuto […] egli interpreta questa delusione come la conseguenza delle sue pulsioni verso l’oggetto" (p. 275). Questo nucleo freddo, dice Green, "brucia e anestetizza come il ghiaccio, ma l’amore resta indisponibile, perché è avvertito come freddo […] Questi soggetti hanno, di fatto, una vita professionale più o meno soddisfacente, si sposano, hanno figli. Per un certo tempo tutto sembra regolare. Ma, ben presto, la ripetizione dei conflitti fa sì che i due settori essenziali della vita, amore e lavoro, si rivelino degli insuccessi: la vita professionale, anche quando è profondamente sentita, diviene deludente e i rapporti coniugali portano a disturbi profondi dell’amore, della sessualità, della comunicazione affettiva. E’ soprattutto quest’ultima che manca maggiormente". La presenza del padre non serve ad attenuare la sofferenza del bambino, perché, continua Green, "per lo più, il padre non risponde affatto alla disperazione del figlio. Ecco dunque il soggetto preso fra una madre morta e un padre inaccessibile, sia che quest’ultimo, preoccupato soprattutto per lo stato della madre non rechi alcun soccorso al bambino, sia che lasci la coppia madre-bambino uscire da sola da questa situazione". Sappiamo che Marilyn non conobbe mai suo padre, il quale abbandonò Gladys quando era incinta e la lasciò al suo destino, e questa passò il periodo della gravidanza e il primo mese dopo il parto presso quella famiglia adottiva che fu poi la prima famiglia presso la quale Marilyn venne "scaricata", ove la madre andava a trovarla il sabato pomeriggio, ma senza mai sorriderle e senza rivolgerle la parola.
Possiamo dunque ben dire che la piccola Marilyn si sia trovata tra una madre morta e un padre inaccessibile perché sconosciuto. In quale modo la bambina poteva sottrarsi all’angoscia di un totale abbandono cui le varie famiglie adottive non potevano porre che un debole rimedio? Con due modalità difensive, ci dice ancora Green. La prima comporta il disinvestimento dell’oggetto materno e l’identificazione inconscia con la madre morta. Il ritiro della libido dall’oggetto materno non comporta la comparsa di aggressività, ma il "suo risultato è la formazione di un "buco" nella trama delle relazioni d’oggetto con la madre: ciò non impedisce il mantenimento d’investimenti periferici" (p. 276). Il secondo movimento difensivo, l’identificazione con la madre morta, comporta un mimetismo, "allo scopo, visto che non è possibile possedere l’oggetto, di continuare ad averlo, diventando non solo come l’oggetto ma l’oggetto stesso. Questa identificazione […] è fin da subito inconscia […] avviene all’insaputa dell’Io del soggetto e contro la sua volontà. Di qui il suo carattere alienante. Nelle successive relazioni oggettuali, il soggetto, tutto preso dalla coazione a ripetere, metterà attivamente in opera il disinvestimento di un oggetto in procinto di deludere, ripetendo l’antica difesa, ma ciò di cui sarà totalmente inconscio è l’identificazione con la madre morta, ch’egli raggiunge ormai soltanto con il reinvestimento delle tracce del trauma".
Il secondo fattore che interviene è la perdita di senso. Anche qualora il soggetto, in una megalomania negativa, si attribuisca la responsabilità del cambiamento intervenuto nella madre e della perdita del suo amore, "rimane uno scarto incolmabile fra la colpa che il soggetto si rimprovererebbe di aver commesso e l’intensità della reazione materna. Tutt’al più, egli potrà pensare che questa colpa è legata alla sua maniera di essere, piuttosto che a qualche desiderio proibito; di fatto gli viene proibito di essere. Questa posizione, che spingerebbe il bambino a lasciarsi morire, per l’impossibilità di deviare l’aggressività distruttiva all’esterno a causa della vulnerabilità dell’immagine materna, lo obbliga a trovare un responsabile all’umor nero della madre, come dire un capro espiatorio. Il designato a questo scopo è il padre".
Questa perdita di senso mette in moto ulteriori fattori difensivi, che saranno:
- "Lo scatenamento di un odio secondario […] in cui si tratta di dominare l’oggetto, di sporcarlo, di vendicarsi su di lui, ecc."
- "L’eccitamento auto-erotico con la ricerca di un piacere sensuale puro, senza tenerezza, senza pietà, ma segnato da una reticenza ad amare l’oggetto […] C’è dissociazione precoce fra il corpo e la psiche, come fra sensualità e tenerezza, e blocco della capacità d’amore".
- "Infine e soprattutto, la ricerca di un senso perduto struttura lo sviluppo precoce delle capacità fantasmatiche e intellettuali dell’Io", il che avviene nella coazione a immaginare e nella coazione a pensare.
"L’unità compromessa di un Io ormai bucato - dice Green — si realizza sia sul piano della fantasia con un impegno manifesto nella creazione artistica, sia sul piano della conoscenza con una produzione intellettuale molto ricca. E’ chiaro che ci troviamo di fronte al tentativo di padroneggiare la situazione traumatica". Era questo il caso di Marilyn? L’attrice cercava di padroneggiare il suo trauma attraverso la recitazione? Schneider fa dire a Marilyn una battuta che confermerebbe questa interpretazione: "Il mio mestiere di attrice non costituisce un problema che devo risolvere. E’ l’unica soluzione che ho trovato per risolvere un altro problema. Fare l’attrice non è la causa del mio panico. E’ il solo rimedio. Tutte le psicoanalisi del mondo non potranno mai farci niente" (p. 286).
Queste sublimazioni idealizzate precoci, come le definisce Green, "sono nate da formazioni psichiche premature, e senza dubbio anticipate, ma non si vede la ragione […] di contestarne l’autenticità. Il loro insuccesso è altrove. Le sublimazioni mostreranno la loro incapacità ad esercitare un’azione equilibratrice dell’economia psichica, perché il soggetto resterà vulnerabile in un settore particolare, quello della sua vita affettiva […] Talvolta è l’amore che rilancia lo sviluppo delle acquisizioni sublimate, talaltra sono queste ultime che tentano di sbloccare l’amore. Ambedue possono al momento congiungere i loro sforzi, ma ben presto la distruzione supera le possibilità del soggetto, che non dispone delle cariche necessarie per l’instaurarsi di una relazione oggettuale durevole e per un progressivo impegno in un coinvolgimento personale profondo, che richiede la cura dell’altro. Sia la delusione dell’oggetto dunque, come quella dell’Io mettono necessariamente fine all’esperienza, con la ricomparsa del sentimento d’insuccesso e d’impotenza. Il paziente ha il sentimento che una maledizione pesi su di lui, quella della madre morta, che non finisce mai di morire e che lo trattiene prigioniero. Il dolore, sentimento narcisistico, ricompone la superficie. Esso costituisce una sofferenza situata ai bordi della ferita, che colora tutti gli investimenti, che ricopre tutti gli effetti dell’odio, dell’eccitamento erotico, della perdita del seno. In questa sofferenza psichica è impossibile sia odiare che amare, impossibile gioire - fosse pure masochisticamente - , impossibile pensare. Esiste solo il sentimento di una prigionia che spossessa l’Io da se stesso e lo aliena in una figura irrappresentabile […] Insomma, gli oggetti del soggetto restano sempre al limite dell’Io, né totalmente dentro, né totalmente fuori. E con ragione, perché il posto è occupato, al centro, dalla madre morta".
Al suo analista Marilyn aveva detto: "Non ci riuscirò. E la sua psicoanalisi non mi aiuterà" (p. 286). Greenson, del resto, sapeva che Marilyn non era una paziente analitica, e aveva detto: "Ha bisogno di una psicoterapia che sia al tempo stesso analitica e di sostegno" (p. 218). Anna Freud aveva condiviso questa convinzione, scrivendogli che la sua paziente "è evidentemente ben lontana dall’essere una paziente ideale dal punto di vista analitico" (p. 319).
Se riprendiamo il filo del saggio di Green, egli ci avverte: "In realtà tutto questo lavoro psicoanalitico rimane esposto al rischio di crolli spettacolari, dove tutto appare ancora come il primo giorno, finché l’analizzando constata di non poter continuare a illudersi e si trova costretto a constatare la carenza dell’oggetto transferenziale: l’analista, malgrado le manovre relazionali con degli oggetti che sostengono transfert laterali, che l’hanno aiutato ad evitare il nucleo centrale del conflitto".
Green sostiene che dietro le interminabili lamentele di questi pazienti sulla cattiveria della madre si nasconde una difesa contro un’intensa omosessualità femminile, e Greenson, in effetti, pensava che Marilyn Monroe avesse "una paura terribile dell’omosessualità" e che nello stesso tempo si mettesse "in situazioni in cui essa è presente" (p. 330). Marilyn in realtà aveva avuto una sola esperienza omosessuale nella sua vita. Green prosegue affermando che "dietro le lamentele riferite ai comportamenti della madre e le sue azioni, si profilava l’ombra della sua assenza […] una madre assorbita, sia da se stessa, sia da altro, indisponibile, senza eco, ma sempre triste. Una madre muta, fosse stata anche loquace. Se era presente, rimaneva indifferente, anche quando opprimeva il bambino coi suoi rimproveri". E Marilyn aveva difficoltà a parlare, a dire le battute, spesso si incespicava come le succedeva da piccola, soprattutto sulla lettera M, che è la lettera della sua identità ma anche la lettera con cui si invoca la madre. Forse per questo le era piaciuto subito quel nome d’arte che sostituiva quello dell’orfanella Norma Jeane, con quelle due M che sembravano una ripetuta invocazione della madre.
"La madre morta - continua Green — aveva portato via, nel disinvestimento di cui era stata l’oggetto, l’essenza dell’amore di cui era stata investita prima del suo lutto: il suo sguardo, il tono della sua voce, il suo odore, la traccia delle sue carezze. La perdita del contatto psichico aveva provocato la rimozione delle tracce mestiche del suo contatto. Era stata sepolta viva, ma la sua stessa tomba era scomparsa. Il buco che stava al suo posto faceva temere la solitudine, come se il soggetto rischiasse di sprofondarcisi anima e corpo […] C’è stato incitamento dell’oggetto e cancellazione della sua traccia per disinvestimento, c’è stata identificazione primaria con la madre morta e trasformazione dell’identificazione positiva in identificazione negativa, cioè identificazione non con l’oggetto, ma con il buco lasciato dal disinvestimento".
Questo processo tende ad un triplice scopo:
- mantenere l’Io in vita: con l’odio dell’oggetto, con la ricerca di un piacere eccitante, con la ricerca di un senso;
- rianimare la madre morta, suscitarne l’interesse, distrarla, restituirle il gusto della vita, farla ridere e sorridere;
- competere con l’oggetto del lutto nella triangolazione precoce.
Questo tipo di pazienti, dice Green, pone seri problemi tecnici, e con loro la regola del silenzio non fa che perpetuare il transfert di quello che Green chiama il lutto bianco della madre, cioè quel buco vuoto lasciato dal disinvestimento affettivo.
Greenson aveva capito che con Marilyn non poteva fare un’analisi classica e aveva scritto ad Anna Freud: "La psicoanalisi è ancora fuori discussione e io improvviso di continuo, spesso sorpreso nel vedere dove ciò mi conduce. Nessun’altra direzione da prendere. Se ho successo, avrò imparato qualcosa, ma mi costa un mucchio di tempo e di emozioni" (p. 200).
L’ambivalenza è un tratto fondamentale degli investimenti dei depressi, dice Green, e la loro incapacità di amare deriva dall’ambivalenza e dalla loro eccessiva ostilità. La madre morta è oggetto di un amore congelato, è un oggetto interno in stato di ibernazione. Il soggetto, coscientemente, "ritiene che la sua riserva di amore sia intatta, disponibile per un altro amore, quando questo si presenterà. Si dichiara pronto ad investire un nuovo oggetto, se questi si mostrerà amabile e se egli potrà sentirsi riamato. Suppone che l’oggetto primario non conti più nulla per lui. In realtà incapperà nell’incapacità d’amare, non solo a causa dell’ambivalenza, ma perché il suo amore è ancora perpetuamente ipotecato dalla madre morta. La sua ricchezza non può essere donata, malgrado la sua generosità, perché egli non ne dispone. Nessuno l’ha privato della sua proprietà affettiva, ma egli non ne ha il godimento". Forse è proprio questo che ha impedito a Marilyn di mantenere una relazione affettiva stabile, compromettendo tutti i suoi legami matrimoniali e votandoli all’insuccesso.
"Nel corso del transfert, - prosegue Green - la sessualizzazione difensiva che si era manifestata fino a quel momento […] s’interrompe bruscamente, e l’analizzando vede la sua vita sessuale ridursi o svanire, fino ad essere praticamente nulla […] Una vita sessuale profusa, dispersiva, multipla, fugace non porta più alcuna soddisfazione". Nelle registrazioni che Marilyn consegnò a Greenson poco prima della propria morte, l’attrice rivelò al suo analista che da quando era stata sua paziente non aveva più avuto un orgasmo, e Greenson riteneva che questa fosse la conseguenza di quei traumi sessuali precoci che l’attrice aveva avuto nella sua infanzia, cosa certamente vera, e non anche di quell’oggetto materno ibernato che era dentro di lei, di quell’amore congelato che neppure il suo analista era riuscito a disgelare.
"Bloccati nella loro capacità d’amare - dice Green - i soggetti che sono sotto il dominio di una madre morta possono aspirare soltanto all’autarchia. La vita di coppia gli è preclusa: la solitudine, che era una condizione angosciante, da evitare, cambia di segno, da negativa diviene positiva. Era stata evitata, diventa ricercata. Il soggetto si chiude in un nido. Diventa la sua propria madre, ma rimane prigioniero della sua economia di sopravvivenza. Suppone di essersi congedato dalla madre morta. In realtà quella non lo lascia in pace, se non nella misura in cui essa stessa è lasciata in pace". Tutti quelli che conoscevano Marilyn nella sua vita privata avevano notato la sua angosciante solitudine. Arthur Miller aveva detto di lei che era senza alcun appoggio al mondo e la ragazza più triste che avesse conosciuto (Maerker).
C’è una bellissima poesia di Marilyn, che Schneider (p. 353) crede che lei avesse scritto per Norman Rosten, uno scrittore e suo vecchio amico, mentre invece Marilyn l’aveva scritta per se stessa. Questa poesia è la più bella testimonianza di come Marilyn, chiusa nel suo nido, sia diventata la madre di se stessa; se vogliamo è anche una testimonianza della sua dissociazione traumatica, ma è a se stessa che Marilyn rivolge queste tenere parole:
Non piangere bambolina mia,
no, non piangere.
Ti abbraccio e ti cullo per farti addormentare.
Sst! Sst! Adesso faccio come se
non fossi la tua mamma morta…
In fondo al sentiero
clic clac clic clac
come la mia bambola nel suo passeggino
passava sopra le fessure.
Andremo molto lontano.
Green afferma che a questo tipo di paziente "la sua psicoanalisi gli permette molto più di comprendere gli altri che di veder chiaro in se stesso. Di qui l’inevitabile delusione circa gli attesi effetti dell’analisi, peraltro molto investita, il più spesso narcisisticamente". Non c’è alcun dubbio che Marilyn avesse investito in maniera narcisistica la propria analisi, anche grazie alla complicità e ad alcuni errori tecnici del suo analista, il quale preferiva considerarli, invece, dei "parametri", secondo la definizione che ne aveva dato Eissler. Marilyn arriverà a dire a Greenson: "ho ancora bisogno di lei per tenere insieme i pezzi per almeno un anno. La pagherò per essere la sua unica paziente" (p. 336). Marilyn sapeva di sfondare una porta aperta, perché più volte Greenson l’aveva vista anche due volte al giorno e per parecchie ore, e ripetutamente aveva annullato i suoi appuntamenti con altri pazienti per dedicare il suo tempo esclusivamente a Marilyn, che già di fatto era stata per diverso tempo la sua unica paziente, e l’unica ad avere la libertà di chiamarlo al telefono in qualunque momento del giorno e della notte.
"La madre morta - dice Green - si rifiuta di morire della sua morte seconda. Molto spesso l’analista si dice: "Questa volta è fatta, la vecchia è morta davvero, lui (o lei) può finalmente vivere e io respirare un po’". Ma un trauma minimo compare nel transfert, o nella vita e, per così dire, restituisce all’imago materna una nuova vitalità". Questo era successo mille volte nella vita di Marilyn, così fragile e così intollerante a qualsiasi frustrazione, così refrattaria a qualsiasi dipendenza che non fosse la dipendenza dall’alcool, dai barbiturici e dal suo analista. E più di qualche volta Greenson aveva sperato, pur ignorando il complesso della madre morta, che Marilyn ce l’avrebbe fatta, che il suo telefono non sarebbe squillato nel cuore della notte, che l’attrice non si sarebbe presentata a casa sua o dai suoi figli, che non avrebbe dovuto ancora una volta modificare i parametri dell’analisi per dedicare supplementi di ore e di emozioni alla sua celebre paziente.
Lo psicoanalista, lo scaldabagno e il controtransfert.
Fino a questo punto, la chiave di lettura che ho utilizzato per reinterpretare il caso Marilyn Monroe attraverso il complesso della madre morta si è rivelata così sorprendentemente efficace da farmi pensare che Green sarebbe riuscito nell’impresa nella quale Greenson aveva fallito. Vediamo se questa chiave regge anche la prova del transfert, che secondo Green comporta delle rilevanti singolarità nei pazienti che sono sotto il dominio di questo complesso. Egli afferma che questi pazienti investono più l’analisi che l’analista, anche se quest’ultimo rimane comunque un oggetto privilegiato del loro investimento, ma questo assume una tonalità prettamente narcisistica. Ciò conduce, prima o poi, ad una "segreta disaffezione, al di là delle espressioni riconosciute come portatrici d’affetto, spesso fortemente drammatizzate. Tale disaffezione è giustificata da una razionalizzazione del tipo: "So bene che il transfert è un’illusione e che con Lei sul piano della realtà ogni cosa è impossibile; e allora a che serve?". Questa posizione si accompagna a un’idealizzazione dell’immagine dell’analista, da mantenere intatta e insieme da sedurre, per suscitare il suo interesse e la sua ammirazione".
Marilyn ne era consapevole, se le parole che Schneider le fa dire sono la fedele trascrizione delle registrazioni che aveva consegnato al suo analista: " "Ho messo in lei la mia anima. La cosa le fa paura?" dice la voce sussurrante. "Che cosa posso darle? Non denaro, so che non significa gran che per lei. Non il mio corpo, la sua etica professionale e la sua fedeltà alla sua meravigliosa moglie lo rendono impossibile […] Come posso dirle grazie, dato che la mia moneta è fuori corso con lei? Lei mi ha dato tutto. Grazi a lei sono diversa, con me stessa e con gli altri. Sento di essere quella che non ho mai conosciuto. Adesso ho il controllo di me stessa, il controllo della mia vita. Ciò che posso darle? Un’idea mia, che rivoluzionerà la psicoanalisi"" (pp. 332-3). Marilyn si riferiva appunto all’idea che i pazienti registrassero da soli, nella loro intimità, i propri pensieri per consegnarli poi al loro analista come fece lei poco prima di morire. Sapeva anche che avrebbe dovuto separarsi da lui, che non poteva continuare a dargli "quell’eccesso d’amore che lei gli testimoniava" (p. 381).
La seduzione dell’analista si effettua attraverso la ricerca del senso perduto in un reciproco coinvolgimento intellettuale. Questa attività - dice Green - si accompagna "a una capacità di auto-interpretazione veramente notevole, che contrasta con il suo scarso effetto sulla vita del paziente, che si modifica ben poco, soprattutto nella sfera affettiva". Lo stile narrativo che il paziente adotta ha lo scopo "di commuovere l’analista, di coinvolgerlo, di farlo testimone nella rappresentazione dei conflitti incontrati nel mondo esterno. Come un bambino racconterebbe a una madre la giornata passata a scuola e i mille piccoli drammi che vi ha vissuto, per interessarla e farla partecipare a quello che ha vissuto in sua assenza". Dalle registrazioni che Marilyn aveva consegnato a Greenson è possibile riconoscere questo stile narrativo. Nella prima parte dei nastri che l’attrice aveva registrato poco più di due mesi prima della propria morte, ella descriveva i suoi sentimenti per il suo ex-marito, un’analisi dei suoi matrimoni falliti, un piccante catalogo dei suoi incontri sessuali, dettagli delle sue dispute con la 20th Century Fox, la sua amicizia con Frank Sinatra, e le sue lagnanze riguardo alla governante Eunice Murray, che le era stata assegnata dallo stesso Greenson.
"In effetti - dirà Green - dietro il complesso della madre morta, dietro il lutto bianco della madre, s’intravede la passione folle di cui ella è e rimane l’oggetto, e che fa del suo lutto un’esperienza impossibile. Tutta la struttura del soggetto mira a una fantasia fondamentale: nutrire la madre morta, per conservarla eternamente imbalsamata". Così il paziente fa la stessa cosa con il suo analista, nutrendolo con la propria analisi, non per aiutarsi a vivere fuori dell’analisi, ma per prolungarla indefinitamente. In questo modo "il soggetto si pone come la stella polare della madre, il bambino ideale, che prende il posto di un morto idealizzato, rivale inevitabilmente invincibile perché non vivente". Di fatto Marilyn era rimasta prigioniera della propria analisi, che non l’aveva aiutata gran che a vivere meglio fuori della stanza del suo analista, e che le rendeva difficile staccarsi da lui. Schneider dice che Marilyn "aveva voglia di lasciare Romi. Era necessario. Altrimenti non avrebbe mai trovato se stessa, sarebbe rimasta senza uomo, senza amici, nella dipendenza di un uomo che non poteva più considerare come il suo salvatore" (p. 339).
Green sostiene che ciò che è sostanzialmente perduto è "il contatto con la madre, segretamente conservato nei recessi della psiche" e ogni tentativo di rimpiazzarlo con oggetti sostitutivi è destinato a fallire. Se l’analista affronta il complesso della madre morta con l’atteggiamento classico, rischia di ripetere, col suo silenzio e la sua passività, la relazione con la madre morta. Su questo punto Greenson aveva avuto ragione a ritenere di non poter intraprendere con Marilyn una psicoanalisi classica, anche se il suo ragionamento partiva, probabilmente, da altre considerazioni. Green esprime il timore che, se il complesso della madre morta non viene avvertito, l’analisi rischi di "sprofondare nella noia funerea, o nell’illusione di una vita libidica finalmente ritrovata. In ogni caso non tarderà a venire il tempo della disperazione e la disillusione sarà pesante". E’ preferibile un atteggiamento tecnico che faccia dell’analista "un oggetto costantemente vivo, interessato, sveglio nei confronti del suo analizzando e in condizioni di testimoniare la sua vitalità per mezzo dei legami associativi ch’egli comunica all’analizzando, senza mai uscire dalla neutralità".
L’atteggiamento di Greenson era sicuramente, almeno all’inizio, quello di un analista vivamente interessato alla sua paziente, ma egli uscì ben presto dalla neutralità coinvolgendo l’attrice nella propria vita familiare ed intervenendo attivamente nella sua vita privata e professionale, fino a sottoporre a supervisione le sceneggiature dei suoi film e a intervenire attivamente nella regia, non senza ottenere generose parcelle dalla 20th Century Fox, illudendosi di poter garantire la puntualità dell’attrice sul set.
Ciò che questi pazienti vivono in maniera conflittuale, dice Green, è la passività, che fu un tempo quella della madre. Se l’analisi arriva a dar vita, "almeno parzialmente, a questa parte del bambino identificata con la madre morta", si produrrà un rovesciamento e adesso sarà la madre a dipendere dal bambino, ma questo comporterà per il paziente il sacrificio della sua vitalità "sull’altare della madre, come rinuncia ad utilizzare le nuove potenzialità dell’Io per ottenere piaceri possibili". Lo stesso rovesciamento coinvolgerà anche il rapporto terapeutico, e d’ora innanzi sarà il paziente a nutrire il suo analista con il materiale che gli fornisce, come se "fosse l’analista ad avere bisogno dell’analisi". Quando Greenson decise, nel bel mezzo dell’analisi e in un periodo critico per Marilyn, di prendersi una vacanza per un lungo viaggio in Europa, fu a lungo perplesso nella sua decisione non soltanto perché temeva di abbandonare l’attrice in quel particolare momento, ma anche perché sentiva egli stesso che quell’analisi era importante anche per lui, e anch’egli viveva quell’interruzione come una perdita. Possiamo immaginare che in questo caso sia successo ciò che successe a Breuer con Anna O., cioè che fu la gelosia della moglie il fattore determinante che fece maturare in Greenson la decisione di affrontare infine quel viaggio.
Green conclude la sua analisi affermando che il paziente "passa la sua vita a nutrire il suo morto, come se fosse l’unico ad averne l’incarico. Custode della tomba, unico a possedere la chiave della cripta, egli adempie in segreto la sua funzione di genitore adottivo: trattiene la madre morta, prigioniera, ed essa rimane il suo bene esclusivo. La madre è diventata il bambino del bambino. Spetta a lui riparare la ferita narcisistica". Quale migliore immagine, per questo rovesciamento, di quella espressa nella poesia di Marilyn, ove è ora la bambola inerte ad essere la madre morta di cui Marilyn si prende cura con quella tenerezza che avrebbe voluto per se stessa?
Il complesso della madre morta impedisce quell’"esperienza di separazione che favorisce l’individuazione". L’Io si accanisce a trattenere presso di sé la madre morta e a riviverne ripetitivamente la perdita, sperimentando ripetutamente quel "sentimento di vuoto tanto caratteristico della depressione […] L’oggetto è "morto" (nel senso di non vivente, anche se non è intervenuta nessuna morte reale), perciò trascina l’Io verso un universo abbandonato e mortifero". Il lutto per la madre morta porta a sotterrare una parte dell’Io del bambino nella "necropoli materna". "Nutrire la madre morta sarebbe allora come mantenere, sotto il sigillo del segreto, la forma più antica d’amore per l’oggetto primordiale, seppellito nella rimozione primaria della malriuscita separazione fra i due partners della fusione primitiva".
Quella bambina precocemente abbandonata e prigioniera di un corpo sensuale, divenuta ormai MM, quando entrò per la prima volta nello studio del dottor Greenson, si trovò di fronte ad un uomo che, anziché gettarle gli occhi addosso con una volgare intrusività cui era ormai tristemente abituata, l’ha guardata "come dal suo intimo" (p. 43) e questo le ha fatto bene. Si trattava di quel riconoscimento come persona che Marilyn ha inseguito per anni come sostituto di quel riconoscimento materno che fonda il senso primario della nostra esistenza.
Ferenczi (1931) ha detto che passionalità o perversione incontrollata sono "quasi sempre la conseguenza di un trattamento privo di tatto subito dal bambino da parte delle persone del suo ambiente", e nel caso di Marilyn questa affermazione andrebbe presa alla lettera, quando lei stessa dice che sua madre non l’aveva mai toccata, non aveva mai posato le sue mani morbide sul suo corpo, né l’aveva mai raggiunta con delle parole. Allora anche la sua ricerca compulsiva del sesso aveva radici lontane in questa mancanza di contatto con il corpo materno, poiché Marilyn era "consumata da una mancanza che aveva radici profonde, che nessun corpo avrebbe placato, né di sicuro alcuna parola" (p. 83).
Anche quando, negli ultimi anni della sua breve esistenza, Marilyn aveva dimostrato una "inclinazione crescente per gli incontri casuali" che aveva spaventato il suo analista, il quale aveva diagnosticato una "paura degli uomini mascherata da un bisogno di seduzione che la induceva a darsi letteralmente al primo o all’ultimo venuto" (p. 170), io credo che continuasse a manifestarsi quella deprivazione materna che aveva segnato la sua infanzia. Se il suo comportamento oscillava tra l’angelico e il demoniaco, se lei stessa considerava il suo corpo ora come oggetto d’estatica ammirazione ora come oggetto che anche uno sconosciuto poteva profanare e possedere, è perché sua madre non aveva mai saputo o voluto toccare il suo corpo. Lei stessa disprezzava ed umiliava il suo corpo con l’uso si alcool e droghe. Schneider descrive uno di questi casuali incontri sessuali vissuto da Marilyn in una condizione che io ritengo fosse una dissociazione della coscienza. Mentre uno sconosciuto la possiede, come lei stessa chiede, nel modo per lei più umiliante, ella sembra assente dalla scena sessuale e strofina delicatamente il proprio viso con un lembo del lenzuolo, "come se fosse un pupazzetto di peluche, una cosa tenera e tiepida, odorosa" (p. 175). Ma Marilyn non cercava, in quel momento, un "oggetto transizionale" come pensava Greenson, lei cercava di capire come sarebbero state le carezze della propria madre, proprio nel momento in cui consentiva ad uno sconosciuto di violentare quel corpo che la madre non aveva mai accarezzato. Un corpo che non aveva suscitato la tenerezza materna, meritava ben di essere stuprato nel modo più volgare ed umiliante, meritava di essere disprezzato, o al contrario esibito su uno schermo cinematografico come intoccabile, come un miraggio. Io credo che si possa intravedere qui quel fenomeno che Ferenczi (1931) ha chiamato "autoscissione narcisistica", che si manifesta nel bambino abbandonato, quando "una parte comincia a sostenere il ruolo di padre o di madre nei confronti dell’altra e in tal modo annulla l’abbandono, lo rende per così dire un fatto non avvenuto". Abbiamo visto questo fenomeno rappresentato in quella poesia di Marilyn. Quel sogno ricorrente che faceva di essere sepolta nella sabbia e aspettare distesa che qualcuno venisse a tirarla fuori, perché da sola non ce la faceva (p. 70), non è forse sintomatico di un corpo invisibile allo sguardo, riscaldato solo dal calore impersonale della sabbia, e dell’attesa che delle mani tocchino questo corpo rendendolo al contempo visibile allo sguardo dell’Altro? Un corpo sepolto nella sabbia non è un corpo sottratto al calore trasmesso dal contatto e dallo sguardo materno? Allo stesso tempo in quel sogno Marilyn metteva in atto quella identificazione con la madre morta di cui parlava Green.
Quando Schneider afferma che l’analisi di Marilyn uscì dai propri limiti non si riferisce soltanto al fatto che Merilyn diventò praticamente un membro della famiglia Greenson, ma anche al fatto che "invece di voler disintossicare Marilyn, lo psichiatra autorizzava la dose di tre milligrammi di Nembutal al giorno e glielo forniva lui stesso" (p. 171) e ad altre forme di coinvolgimento patologico. Invece di "acconsentire il più possibile ai desideri e agli impulsi affettivi" e di comportarsi "come una tenere madre", come suggerisce Ferenczi (1931), Greenson acconsentì a soddisfare i bisogni patologici di Marilyn. Schneider afferma che "Greenson valutò male l’entità e la cronicità della dipendenza di Marilyn" (p. 181) e nonostante la avesse seguita per trenta mesi non azzardò mai una vera diagnosi (p. 182).
"Man mano che la sua cura procedeva e il transfert si faceva intenso e caotico, i rapporti fra Marilyn e la famiglia Greenson divennero progressivamente più stretti" (p. 176). Greenson aveva preso deliberatamente "la decisione poco ortodossa e molto controversa di integrare Marilyn nella vita di una famiglia riparatrice […] L’analista sperava così di offrire alla sua paziente il calore e l’affetto di una famiglia felice. Voleva compensare le carenze della sua infanzia e alleviare la sua solitudine. Ma accogliendola così, nella propria casa, cercava anche di rendere se stesso reale, di apparire ai suoi occhi come un essere umano fra tanti altri" (p. 177). I colleghi della Los Angeles Psychoanalytic Society criticavano giustamente Greenson perché non capiva che "la terapia con adozione riparatrice non fa che rimetterle sotto gli occhi ciò che non ha mai avuto: un focolare; e ciò che non potrà mai essere: una ragazza amata dai genitori, una madre, una sorella" (p. 182). Greenson, inoltre, non aveva valutato in maniera sufficientemente realistica che Hildi, la ragazza svizzera che aveva sposato, non avrebbe potuto tollerare indefinitamente di aggregare alla propria famiglia una diva divenuta un sex-symbol e che stava minacciando di travolgere il suo analista in un transfert piuttosto pericoloso. Infatti, quando Marilyn assunse una dose eccessiva di barbiturici e necessitava di assistenza, Hildi Greenson si rifiutò di ospitarla a casa propria (p. 123).
L’ingenuità di Greenson di pensare di poter offrire un’ennesima famiglia adottiva a Marilyn e che la sua sarebbe stata migliore di tutte le precedenti, è per me una testimonianza del fatto che il suo coinvolgimento emotivo in questo trattamento aveva ormai superato una normale reazione di controtransfert. Greenson, tra l’altro, non teneva conto che all’interno di queste famiglie adottive Marilyn non aveva trovato accoglienza e calore ma aveva conosciuto le prime molestie sessuali già all’età di otto anni, e poi di nuovo a undici e a tredici anni (Mecacci; Maerker); dunque la sua esperienza con le adozioni era stata altamente traumatica. Perché quella che le offriva Greenson avrebbe dovuto essere diversa? Inoltre c’era un altro particolare che accomunava queste adozioni familiari, e cioè che non erano disinteressate, ma la famiglia adottiva riceveva dallo stato un compenso mensile, così come anche Greenson riceveva un onorario per la sua prestazione professionale, onorario che compensava anche l’ospitalità familiare. Bisogna aggiungere che Marilyn, che nella sua infanzia aveva dovuto soggiornare presso numerose famiglie adottive, da adulta aveva imparato come insinuarsi in una famiglia che le sembrava potesse rispondere alle sue aspettative di calore e di protezione. Lo aveva fatto una prima volta con John e Lucille Carroll, che convinti da una storia compassionevole l’avevano ospitata nel loro appartamento. Maerker sostiene che Marilyn era divenuta sempre più invadente e ormai voleva "vivere soltanto con i coniugi, che utilizza come nuovi genitori sostitutivi" (p.121), finché non mise in pericolo il loro matrimonio e i coniugi si convinsero a congedarla. Una seconda volta riesce ad intrufolarsi nella famiglia di Fred Karger, che si occupava delle musiche da film per la Columbia. Dopo il divorzio Karger "vive in una casa insieme alla madre, alla figlia e alla sorella, anche lei divorziata, e ai figli di lei. Una famiglia! Marilyn sente odore di felicità. Vuole vivere là, con le donne, i bambini, e Fred. A tal fine gli racconta di una presunta situazione abitativa insopportabile, lo commuove e si trasferisce da loro. Gioca con i bambini, aiuta nei lavori domestici, si considera indispensabile e sogna di diventare presto la signora Karger" (p. 125). Non era con spirito diverso che Marilyn, con l’ingenua compiacenza di Greenson, si era insinuata nella sua famiglia, se, come racconta Schneider, un giorno che il suo scaldabagno non funzionava si recò di mattina presto a casa Greenson per lavarsi i capelli. Arthur Miller aveva capito che doveva "fuggire la sua voracità infantile" (Maerker, p. 18), mentre Greenson la assecondò.
Schneider ha sostenuto che Greenson "non riconobbe mai l’errore di trattamento commesso nell’aprire la propria casa a Marilyn e poi nel farne un membro della famiglia. Lui che definirà scopo dell’analisi il raggiungimento da parte del paziente dell’indipendenza di pensiero, lavorò esattamente in direzione contraria" (p. 51). Lo psicoanalista aveva ormai perduto il senso della realtà e si stava librando in un’atmosfera onnipotente che gli farà esprimere la convinzione che Marilyn era "così incantevole e vulnerabile che lui solo poteva salvarla" (p. 171). Dopo la morte di Marilyn, Greenson dirà: "Era diventata mia figlia, il mio dolore, mia sorella, la mia follia" (p. 18). Arthur Miller, che fu sposato con Marilyn per alcuni anni, disse di lei parole simili a quelle di Greenson: "Come se l’avessi amata per tutta la vita; il suo dolore era il mio dolore. Era come una voce del sangue". (Maerker, 56). Dunque anche Greenson l’aveva amata, e solo di un amore transferale?
Greenson non tenne realisticamente conto che quando Marilyn abbandonava il set cinematografico o la sua famiglia, non aveva più nessuno, sprofondava in una solitudine dolorosa, sebbene si fosse reso conto della paurosa assenza di relazioni oggettuali nella sua vita. Cercando di crearle attorno una famiglia accogliente per nascondere il vuoto affettivo in cui viveva, la rese sempre più dipendente da lui e dalla sua presenza.
Schneider si dimostra molto critico nei confronti della condotta terapeutica di Greenson, talvolta con punte di malcelata ostilità, che mette in bocca al suo collega più anziano Wexler, il quale aveva notato "cose evidenti che lui non aveva visto nella folie à deux che lo aveva unito a Marilyn: "Sapevi bene che i transfert massicci sono rivolti alla madre […] Morendo, a modo suo, Marilyn è ritornata dalla madre"" (p. 384). Greenson sostenne di non avere mai giocato alla mamma con Marilyn, e Wexler gli fa notare che a un certo punto si è fatto crescere la barba per rassicurare se stesso e la sua paziente sul fatto che era un padre e non una madre, e aggiunge: "Non ne potevate più l’uno dell’altra. L’hai lasciata e non hai potuto lasciarla. Marilyn voleva lasciarti e tu non hai potuto lasciarla andare via. Punto e basta! Il tuo sconforto era quello del bambino abbandonato" (p. 384). Ma ascoltiamo direttamente il pensiero di Schneider: "Fino alla fine Greenson si considerò come un padre per Marilyn. Il 20 agosto 1962, scrive a Marianne Kris: "Ero il suo terapeuta, il buon padre che non l’avrebbe delusa e le avrebbe dato una comprensione di se stessa, o per lo meno semplicemente della bontà. Ero diventato la persona più importante della sua vita, e mi sento colpevole di avere imposto questa situazione alla mia famiglia. Ma c’era in lei qualcuno che si poteva solo amare e Marilyn sapeva mostrarsi deliziosa". Non capì probabilmente mai che la sua cura si collocava in luoghi psichici lontani dalla teoria freudiana, e che i suoi temi, più che padre, vita, amore, desiderio, erano madre, omosessualità, escremento, morte. Proferite da una voce che non ne poteva più di simulare la bambina gentile innamorata del suo papà, cose impensabili erano state infine pronunciate su quei nastri, nella distanza dal transfert, con una voce che non poteva tenersi a freno. Cose nude. Cose nere. Nere come la madre, come la morte […] E se Marilyn si fosse potuta separare da lui solo morendo? E se Greenson avesse potuto possederla solo uccidendola? Ascoltando i nastri, Wexler aveva creduto di indovinare ciò che era successo fra di loro e che non aveva potuto formulare davanti al collega: si può uccidere qualcuno a forza di cura. La partitura che Greenson aveva voluto suonare, quella di un "transfert in padre maggiore", come diceva lui, si era spostata insensibilmente verso smarrimenti arcaici e lui aveva suonato la musica della compassione "in madre minore". Greenson aveva deciso di rinunciare a ogni puntura, atto troppo chiaramente fallico ai suoi occhi, ma poi si era rimangiato questa astensione e le aveva fatto frequenti iniezioni di sedativi negli ultimi mesi […] l’analista aveva occupato insensibilmente il posto della madre nell’amore di Marilyn e anche nel proprio amore per Marilyn" (p. 385).
Padre o madre, si trattava di un ruolo impossibile, come lo è la professione dell’analista. Padre e madre erano due figure inesistenti per Marilyn, l’uno sconosciuto e l’altra inconoscibile. Sembra che Marilyn avesse scritto ad Arthur Miller, prima del loro matrimonio: "Quasi tutti possono ammirare il loro padre, ma io non ne ho mai avuto uno. Ho bisogno di qualcuno da ammirare" (Maerker, p. 19). Greenson divenne questa figura da ammirare, ma Marilyn aveva bisogno anche di riempire il buco lasciato vuoto da una madre assente, irraggiungibile. Ma l’imago materna che Marilyn aveva internalizzata era quella di una madre morta e di una madre che voleva fare di lei una morta, e Greenson non poteva essere ai suoi occhi una madre diversa, poiché anche lui la avvelenava lentamente con i suoi sedativi, la soffocava imponendole una famiglia che lei non aveva chiesto e intromettendosi nella sua vita privata e artistica. L’amore che Greenson credeva di averle dato l’aveva resa totalmente dipendente da lui.
Schneider fa spesso riferimento ad alcuni scritti di Greenson ma soprattutto a quel manuale di Tecnica e pratica psicoanalitica (pubblicato in Italia da Feltrinelli) che considera come una reazione di lutto alla morte di Marilyn, come l’Interpretazione dei sogni fu, a detta di Freud, la sua reazione al lutto per la morte del padre. "I libri sono i figli del dispiacere, e lo psicoanalista, che non fu visto versare una lacrima per la morte di Marilyn, ma che raccontò il suo lutto e la sua pena in ogni occasione, pianse la sua paziente in cinquecento pagine fitte di raccomandazioni agli analisti debuttanti o esperti. E’ su se stessi che si piange in primo luogo, sempre. E’ anche contro se stessi che si combatte in primo luogo quando si denunciano senza pietà i difetti e gli errori altrui […] In questo manuale si trova la lista di tutto ciò che non bisogna fare con un paziente. Pressappoco tutto ciò che lui aveva fatto con Marilyn durante i trenta mesi di terapia" (p. 404).
Non sappiamo se Greenson abbia aperto la propria casa a Marilyn Monroe per ansia o sensi di colpa, o per inconsci sentimenti sessuali nei suoi confronti o per una miscela di questi stati affettivi, ma è certo che questo doveva indicare che Marilyn era diventata per lui una figura transferale, senza che l’analista fosse riuscito a mettere a fuoco i propri sentimenti controtransferali verso l’attrice. Soltanto dopo la morte dell’attrice Greenson dichiarerà, come abbiamo visto: "Era diventata mia figlia, il mio dolore, mia sorella, la mia follia" (Schneider, p. 18). E’ probabile che Greenson non fosse consapevole di questa esplosiva miscela controtransferale nel corso della terapia.
Io non sono un bioniano, ma Bion (1998) ha detto delle cose importanti raccomandando agli analisti di imparare a conoscere quali sono le condizioni minimali per loro per fare analisi. "L’analista deve avere chiaro in mente dove stabilire un limite, quando le condizioni per lui minimali per fare analisi sono venute meno perché così erose dal diniego […] l’analista deve essere molto chiaro e molto fermo nello stabilire le sue richieste minimali, al di là delle quali risulta per lui impossibile fare analisi. Questo è l’unico motivo per esercitare una qualche disciplina: non perché vogliamo impedire a qualcuno di fare quello che vuole, non vogliamo neppure obbligarlo a venire a fare l’analisi per forza […] bisogna essere preparati a dire al paziente "fin qui sì, ma non oltre": non perché gli si voglia impedire di fare quello che desidera, ma perché si intende che egli ci chiede un’analisi e si deve sapere se si è in grado di fare un’analisi alle condizioni che il paziente propone".
Greenson non solo non disse a Marilyn "fin qui sì, ma non oltre", ma non lasciò neppure alla sua paziente la possibilità di dire altrettanto al suo analista, poiché si insinuò nella sua vita privata pretendendo di dirigerla come un regista, le affiancò una domestica di sua fiducia che era in realtà un’infermiera psichiatrica e il cognato come avvocato. Non solo non stabilì alcun limite per la sua paziente, ma superò egli stesso ogni limite con lei, assumendo ruoli che non gli competevano e decisioni che non gli spettavano.
Cursum perficio.
Questa iscrizione latina, che significa "ho compiuto il mio percorso", era inserita in una mattonella dell’ingresso della casa di Marilyn Monroe. "L’analisi ormai non fa più al caso mio" avrebbe detto Marilyn in uno dei due nastri che consegnò al dottor Greenson. Cursum perficio. Anch’io concludo qui il mio percorso attraverso il libro di Schneider e il caso Marilyn Monroe.
"Un caso clinico — dice Schneider — non è un romanzo che narri ciò che è successo, ma una sorta di fiction che l’analista dà di se stesso. La vita dell’analista non è separabile dal caso del paziente. Si incrociano e ciò che ne viene detto pubblicamente è del tutto diverso da ciò che è successo in privato" (pp. 426-7). Questo è ciò che sappiamo da quando abbiamo cominciato a percorrere quei casi clinici freudiani che secondo il loro stesso autore si leggevano come novelle: Katharina, Dora, il piccolo Hans, l’Uomo dei topi, l’Uomo dei lupi.
"La psicoanalisi - dice ancora Schneider - non dice la verità degli esseri che vi si imbarcano. Essa dà loro un racconto sopportabile di ciò che sono e narra come potrebbero essere andate le cose" (p. 426). La psicoanalisi aiutò Marilyn o, come lei stessa aveva intuito, non le sarebbe stata di nessun aiuto? Greenson non si rivelò lo psicoanalista onnipotente quale pensava di essere e quale l’aveva idealizzato la sua celebre paziente, il suo salvatore; anzi, fu per lungo tempo sospettato di essere implicato nella morte di Marilyn. "La psicoanalisi - Schneider fa dire a Greenson — non l’ha uccisa… ma non l’ha aiutata a sopravvivere" (p. 421). Ma era davvero possibile per Marilyn sopravvivere portandosi dentro una madre morta? Se è vero che Marilyn fu assassinata, non è difficile pensare che il suo complesso della madre morta abbia agito come complice dei suoi carnefici, impedendole di lottare per la vita.
Bibliografia.
Bion W. R., Addomesticare i pensieri selvatici, Franco Angeli, Milano 1998.
Green A, "La madre morta" (1980), in: Green, Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Borla, Roma 2000.
Ferenczi S., "Analisi infantili con gli adulti", Opere, vol. IV, 65-78, Raffaello Cortina, Milano 2002.
Maerker Ch., Marilyn Monroe e Arthur Miller, Pratiche Editrice, Milano 1997.
Mecacci L., Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, Laterza, Bari 2000.
Schneider M., Marilyn, ultimi giorni, ultima notte, Bompiani 2007.
Summers A., Marilyn Monroe. Le vite segrete di una diva, Bompiani, Milano 1986.
Wolfe D. H., Marilyn Monroe. Storia di un omicidio, Sperling & Kupfer, Milano 2001.