I PORTI APERTI
L'Inserimento Eterofamiliare Supportato di Adulti in Psichiatria
di SERVIZIO IESA ASLTO3

LE CONVIVENZE IESA DALLA PROSPETTIVA DEL TIROCINANTE

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6 settembre, 2018 - 10:24
di SERVIZIO IESA ASLTO3

Il Servizio IESA dell’ASL TO3 è sede di tirocinio per studenti che si affacciano al mondo della riabilitazione psichiatrica, per neo-psicologi e specializzandi in psicoterapia. La loro permanenza è variabile, da qualche settimana a un anno, a seconda del piano di studi, e il loro ruolo in sede è di affiancare gli operatori nelle varie fasi del lavoro di costruzione e monitoraggio dei progetti di convivenza e di osservare sul campo le diverse sfaccettature di questo lavoro così affascinante e complesso. Dal loro sguardo emergono spesso nuovi punti di vista, che sono una ricchezza per l’équipe, poiché portano un valore aggiunto alle osservazioni degli operatori. Ecco tre ritratti, Filippo, Adriana e Ascanio, tre vite che si intrecciano con quelle delle famiglie ospitanti, visti attraverso gli occhi, le emozioni e la penna di Cinzia Musso, tirocinante del corso di laurea di tecniche della riabilitazione psichiatrica dell’università di Torino.

“Filippo: l’importanza di un sorriso”

“Era sempre stato pacato e tranquillo, fin dal primo momento che l’avevo conosciuto, sempre seduto su quella poltrona, sotto quella coperta gialla che era solito tirare fin sopra la testa per non essere disturbato, quasi fosse un modo per comunicarci di non voler essere coinvolto nelle nostre vite, di non voler essere integrato in questa nuova seconda familia. Si, spesso penso alla mi familia come ad una seconda familia per qualcuno che ne ha veramente bisogno, e quel qualcuno en ese momento de mi vida è Felipe (il suo vero nome è Filippo pero yo soy colombiana y me piace chiamarlo così). Una seconda familia, una seconda vita, la possibilità di essere felice, di essere amato; io voglio dargli quell’amore che nessuno ha mai avuto premura di donargli. Perché nella vita si tratta di questo, si tratta di donare se stessi agli altri. Io lo faccio ogni giorno da 15 anni ormai, dono a Felipe la mia vita, la mia casa, il mio tempo, il mio amore; e lo faccio senza avere niente in cambio. Las chicas del servizio IESA dicono che quelli come noi si chiamano volontari, perché si offrono di ospitare in casa propria qualcuno di “speciale”, ecco, speciale, perché il mio Felipe (ormai posso chiamarlo “mio” perché è come se fosse il mio bambino, nonostante abbia quasi raggiunto i 90 anni di età) è proprio una persona speciale; da quando sono in Italia ho sentito troppe volte questo termine con una connotazione negativa, ad indicare los locos, come si dice en mi pais, ma io credo che sia sbagliato. Loro sono speciali perché vedono le cose a modo loro, vedono o sentono una realtà un poco diversa dalla nostra, ma chi dice che la nostra realtà sia quella giusta? Loro amano a modo loro, forse anche più en profondidad, con mas intensidad. Io so che anche il mio Felipe mi ama almeno quanto io amo lui, so che mi ama come se fossi su madre, perché ormai ho imparato a conoscerlo, ormai fa parte della mia familia. Adesso so che se mi guarda dritto negli occhi, due occhi così profondi e pieni de dolor, anche se può sembrare che sia arrabbiato, in realtà mi sta ringraziando; adesso so che se mi guarda con la coda dell’occhio senza nemmeno alzare la testa, vuol dire che non gli piace quello che sto facendo, così come se grugnisce significa che devo lasciarlo tranquilo. E io lo prendo in giro come se fosse un bambino e gli faccio il verso; e lui mi sorride un poco. Gli è sempre mancato poter sorridere, credo potrebbe contare sulle dita delle mani il numero delle volte che ha sorriso in toda su vida. Quando è arrivato da noi era solitario, taciturno, no hablaba y non guardava mai nessuno, aveva siempre quella smorfia di disgusto per il mondo, un disgusto che gli era lecito e che era dovuto al periodo di internamento durato più di 50 anni; la prima volta che lo vidi pensai che non ci fosse speranza, devo ammetterlo, che ormai si fosse completamente perso. E’ un pensiero che mi portai dentro per i primi mesi, quando lui a stento partecipava alla quotidianità; yo soy colombiana, soy abituata a lavorare tutti insieme, con tutta la comunità, noi siamo como una grande familia, y para mi era strano pensare una realtà diferente alla mia. Ma poi ho capito, poi ho avuto esperanza, ho visto in lui la grazia e l’innocenza di un bimbo che aveva appena iniziato a vivere davvero. A questo serve l’ospitalità, a vivere un mundo diferente dal nostro, un mondo che non conosciamo, che non ci viene presentato realmente, per paura che si scopra la verità o per desiderio di nascondere ciò che non si conosce; perché ciò che non si conosce spesso e volentieri fa paura, ma è quando poi si inizia ad aprire gli occhi e a conoscere che ci si accorge di quello che si ha intorno (eso me lo dijo una dotoresa dello IESA en el periodo iniziale del percorso).
Ci sono dei momenti in cui mi fermo a guardarlo mentre sonnecchia con la testa reclinata verso un lato, le dite affusolate e rugose intrecciate tra di loro come fossero piccoli rametti rampicanti, mi concentro sul suo respiro, sui piccoli movimenti del torace, sugli scatti delle palpebre; ripenso ai momenti di angoscia che deve aver trascorso durante il periodo del manicomio, alle notti insonni, alla paura che ogni sua piccola proprietà gli venisse sottratta. Sono tutti i condizionamenti della sua vita che lo hanno reso l’uomo insicuro e diffidente che è ancora oggi, non la sua “malattia”, se così si può chiamare; era l’opinione pubblica che lo vedeva solo come un “pericolo per se e per gli altri” a convincerlo di essere en realidad una minaccia. Ma io non credo, io voglio credere solo a quello che vedo con mis ojos, a quello che vivo con lui ogni giorno.
Quando si diventa volontari del servizio IESA si deve essere consapevoli che ci saranno dei momenti difficili, delle situazioni che faranno riemergere nella mente del ospite i ricordi del pasado, che molto spesso saranno dolorosi. Me acuerdo quando lo portai a fare le analisi del sangue e pur di non farsi toccare continuava a strapparsi via l’ago per il prelievo, ferendosi ogni volta; ne io ne l’infermiera riuscivamo a farlo calmare, era visibilmente agitato, così ad un certo punto dovetti prendergli i polsi per impedirgli di muoversi e di farsi del male. Il mio era un gesto in buona fede, ma scatenò in lui una risposta del tutto aggressiva ed impulsiva, no se paraba! Non capivo el porque de questa violenta reazione, ma solo dopo mi fu tutto più claro; quando era stato internato capitava che i medici bloccassero le sue crisi legandolo al letto con delle fascette, era per questo che non riusciva più a farsi avvicinare da nessuno. Lui non era pericoloso, aveva solo paura. Il mio compito e il mio volere è quello di rimuovere ese sentimento de paura, de timor, de inadeguatezza, porque la unica cosa che voglio è vedere il suo sorriso para siempre.”

Ci sono persone come Filippo che non hanno mai imparato cosa significhi avere una famiglia ed essere amati per quello che si è; queste persone non vanno aiutate perché indifese o in difficoltà, ma vanno capite e ascoltate. Tutti hanno una voce e devono avere la possibilità di usarla appieno; non c’è nessuno che possa essere definito “scandaloso”, ma esiste la diversità, che va alimentata. Non si tratta quindi di correggere o addirittura nascondere delle parti di sé, ma di reindirizzare la propria vita verso un’autonomia e una consapevolezza di sé e del mondo circostante, ossia per un netto miglioramento delle condizioni di vita.

“Adriana: la felicità esiste per tutti”

22 aprile 2004

“Non credevo che sarei stata di nuovo così male, era un periodo talmente roseo che non mi sembrava più di ricordare cosa fosse il dolore, la solitudine, l’abbandono. E invece eccomi qui di nuovo sola. Mi ero illusa di poter avere una famiglia normale e di poter vivere con loro per sempre, ma mi sbagliavo. Oggi, giovedì 22 aprile 2004 è morto Giorgio, la figura che mi accoglieva nella sua casa e nella sua vita.
Sto addirittura peggio di quando era successa la stessa cosa due anni fa, quando un tumore si era portato via anche Rossella, sua moglie, nonché la mia guida, la mia confidente, la mia “mamma”, il mio tutto. Ricordo quel giorno come se fosse ieri, io e Giorgio eravamo seduti a tavola, da soli, non ci siamo guardati negli occhi neanche una volta, ognuno con lo sguardo fisso nel piatto; io sono riuscita a mangiare, nonostante le lacrime che mi riempivano gli occhi mi impedissero di vedere bene quello che prendevo con la forchetta, ma Giorgio no, lui non ha toccato nulla, il suo piatto era immacolato, così come il suo volto era statico e freddo. Per tutta la casa arieggiava un clima di solitudine e malinconia, si sentiva già la mancanza di Rossella; era una donna solare, le piaceva cantare a squarcia gola mentre passava lo straccio, sorrideva sempre, portava la sua gioia in ogni angolo della casa. Quando finimmo di mangiare Giorgio si alzò, mi fissò per un istante, si impietosì alla vista delle mie lacrime e mi concesse un lieve sorriso. Sua moglie era appena morta. Per me era successo tutto all’improvviso, non avevo ancora realizzato; i miei “genitori” non mi avevano mai messo al corrente degli sviluppi della malattia e, a dire la verità, io non avevo mai chiesto più di tanto, anche perché Rossella era una donna forte e non mi voleva mai fare preoccupare. Ma per Giorgio non era stato così, lui lo sapeva, ne avevano parlato molte volte, se lo aspettava già.
Eppure nonostante il suo dolore aveva deciso di tenermi con sé, aveva acconsentito a mandare avanti il progetto di convivenza anche senza sua moglie; e così era diventato lui il mio accompagnatore di vita…Dico era perché ormai non c’è più nemmeno lui. Quei due anni dopo la morte di Rossella erano stati duri ma intensi, avevamo cercato di sfruttare ogni occasione per fare sempre nuove esperienze, proprio come avrebbe fatto lei; eravamo andati in Francia per una settimana, avevo persino fatto un corso di nuoto per occupare le mie giornate. Ma quei due anni si sono conclusi oggi, un’altra fase della mia vita è morta con loro, con tutti e due; uno dopo l’altro mi hanno lasciato da sola.
Ho iniziato anche a pensare di essere io il problema, di essere io la causa di tutto il male degli altri…in fondo anche mio zio quando avevo 6 anni era morto, anche se lui si era suicidato. Mi ero sempre chiesta il motivo che lo aveva spinto a salire su quella sedia presa dalla mia camera e a lasciarsi cadere nel vuoto con solo il collo appeso ad una corda…Mia mamma aveva rimesso quella sedia nella mia camera, anche se io non mi ci ero più seduta, mi faceva paura, pensavo che se lo avessi fatto mi sarebbero venuti gli stessi pensieri; mi immaginavo mio zio in piedi su quella sedia con il volto bianco, come di uno zombie…ogni tanto mi parlava, ma ora non ricordo cosa mi diceva. Adesso inizio a pensare che tutti cerchino di allontanarsi da me, perché altrimenti non mi spiegherei il motivo della mia solitudine; anche mio figlio non mi vuole più vedere…non me lo ha mai detto ma io lo so, per questo non mi viene mai a trovare.
Stefania del Servizio IESA, l’operatrice che si occupa del mio inserimento in famiglia, mi ha chiesto di farmi coraggio e di dare una possibilità alla nuova famiglia in cui verrò ospitata, ma io non vedo più speranza per me, non vedo più nessuna luce alla fine del tunnel. Ero convinta di aver trovato la felicità con loro, e pensare di averla persa e di dover ricominciare mi sta divorando…non penso di meritare niente di buono, perché io non sono niente di buono…”

27 dicembre 2004

“Chiusura del progetto di convivenza con Adriana su richiesta della Care Giver.
Questo c’era scritto sull’etichetta che Stefania ha attaccato sulla busta cristal che contiene tutti i documenti firmati da Carmela, la mia nuova (ormai vecchia) ospitante. Carmela ha deciso di interrompere la nostra convivenza, non so bene per quale motivo; ora non riesce neanche a guardarmi dritto in faccia, non riesce a parlarmi direttamente. Ormai è il momento che io vada via per sempre e lei non fa altro che svicolare, come se non vedesse l’ora che io varchi per l’ultima volta la soglia di casa sua. “Casa sua”, perché ormai non è più mia, non mi appartiene più; lascerò una parte di me qua dentro, così come ho lasciato una parte di me in ogni luogo a me caro, al punto che credo che alla fine rimarrò vuota…anche se in fondo un po’ lo sono già.
Forse questi 7 mesi non hanno significato niente per Carmela, forse non le sono piaciuta, forse è perché ho rotto la lavastoviglie. Questa è la prova che sono io il problema. Non voglio ascoltare le parole delle operatrici del Servizio IESA, loro mi dicono che non mi abbandoneranno, che staranno sempre al mio fianco e mi troveranno una nuova famiglia, mi dicono che non sono un peso e che il loro lavoro è aiutarmi a trovare il mio posto, il mio essere, il mio perché. Ma non voglio più credere alle voci che sento, anche se so che le loro sono reali, non voglio più ascoltare, perché ascoltare fa male e io non voglio più soffrire.”

13 febbraio 2006

“Sono rinata. Ora sono finalmente viva. Credevo che non avrei avuto più una famiglia e invece eccomi qui, a scrivere di nuovo su questo diario. Me lo aveva regalato Rossella quando avevo appena iniziato a vivere insieme a loro; sia lei che Stefania erano convinte che mettere per iscritto i miei pensieri fosse un modo per alleviare le mie sofferenze, per sfogarmi e soprattutto svuotarmi di tutto quello che portavo dentro, per dare un ordine alle cose e fare pulizia nella mia mente. Ho sempre avuto alcune difficoltà a leggere e a scrivere, ma da quando sono stata presa in carico dallo IESA ho frequentato alcuni corsi per migliorare la mia scrittura, per potermi sentire un po’ più umana, un po’ più “normale”, simile a tutti gli altri.
Ieri sera mi ha telefonato Stefania, abbiamo parlato per circa mezz’ora; mi chiama spesso per sapere come sto, per sentire anche solo se la mia voce è normale o alterata; si prende cura di me. Ieri sera mi ha detto “Sono fiera di te Adriana”. E questo perché finalmente, dopo tutti questi anni trascorsi a cambiare famiglie e a sentirmi inadeguata e a creare problemi, mi sono resa conto che il mio intero percorso fitto di ostacoli mi ha portato fin dove sono ora e con una famiglia che mi ama; mi ha portato ad essere la persona che sono ora. E so di essere una persona migliore. Ho lavorato molto su me stessa, ho fatto molti passi avanti; certo, ci sono e ci saranno sempre degli aspetti negativi del mio essere che non riuscirò a cambiare e che spesso e volentieri tendo a negare, ma sono cresciuta, finalmente all’età di 54 anni mi sono liberata delle mie vecchie vesti da bambina e ho indossato quelle nuova da adulta. La mia nuova famiglia è molto più grande di quella precedente, ci sono 3 bambini, un gatto e due cani; mi hanno insegnato ..ah no, ho imparato (le operatrici mi ripetono ogni volta che devo dire “ho imparato” perché sono stata io a realizzare quella cosa, è merito mio se ce l’ho fatta) a prendermi cura di loro, della casa e soprattutto di me stessa. Sono stata tanto aiutata, probabilmente avrò sempre bisogno di un aiuto per tutta la vita, ma finché ci saranno persone disposte a supportarmi io sarò felice. Perché adesso so che la felicità esiste anche per me e che posso raggiungerla.”

Adriana ha compiuto un percorso davvero soddisfacente, superando molti ostacoli, identificabili con l’abbandono e il senso di vuoto interiore, ma ha ancora molta strada da fare. Adriana è una giovane donna che non smetterà di imparare, perché il suo cervello è elastico, proprio come quello di qualunque essere umano, è in continuo divenire, seppur con molte difficoltà in più. Non si deve mai perdere la speranza ne dubitare delle incredibili potenzialità della mente umana; ma soprattutto non si può condannare una persona alla ricaduta sicura ancor prima di iniziare a provare, soprattutto ancor più grave se coloro che li condannano sono proprio quelli che si prendono a carico la cura e la riabilitazione dell’individuo.

“Ascanio: l’arte di salvarsi da soli”

-“Io mi chiedo solamente come sia possibile a cinquant’anni entrare a far parte di una famiglia, ecco…”
Il signor Ascanio proferì queste parole con un filo di voce appena percettibile; gli occhi verdi fissi verso il basso, le mani strette in una solida morsa, le dita che sfregavano violentemente le une contro le altre, quasi volessero cancellare i ricordi dolorosi del passato ormai incisi nella pelle. Mi sorprese molto quella domanda, di solito nessun potenziale candidato ospite chiedeva una cosa del genere, nessuno toccava un argomento così profondo fin da subito; in genere non lasciano trasparire il benché minimo imbarazzo o timore, non cercano il significato profondo del progetto, tutte queste cose vengono dopo; si sviluppa solo col tempo questo tipo di profondità. Ma questa volta era diverso, il signor Ascanio era diverso, aveva una sensibilità e una delicatezza incredibili.
-“Lei deve pensare che qualunque individuo può far parte di una famiglia indipendentemente dall’età che possiede e ha il diritto di essere amato nello stesso identico modo di tutti gli altri.- provai a spiegargli con semplici parole che c’era ancora tempo per trovare la propria felicità- Entrare in una famiglia non la farà più sentire solo; i nostri volontari sono selezionati, subiscono un’attenta analisi sia dal punto di vista intrapersonale che familiare o sociale, vengono messi in mostra tutti gli aspetti della loro vita, del presente e del passato. Non le proporremmo mai una famiglia che non sia in grado di fornirle tutto il beneficio possibile, questo è poco ma sicuro.”
Non è mai facile per noi operatori rimanere fermi e lucidi quando veniamo a contatto con delle realtà simili a quella del signor Ascanio, ma non possiamo sbilanciarci troppo, non possiamo farci coinvolgere personalmente, sia per il nostro bene che per il loro; dobbiamo essere in grado di mantenere un certo distacco professionale, pur interagendo costantemente e vivamente con la persona, al fine di garantire la massima riuscita possibile dell’inserimento in famiglia.
-“Io non dubito della vostra selezione, ma sa, io non sono mai stato molto fortunato con la mia famiglia, anzi proprio per niente.”
Seguì una risata alquanto malinconica che non mi sarei mai aspettata e che mi colse impreparata.
-“Io avrei bisogno di una famiglia che possa capirmi, amarmi, vedermi e sentirmi come uno di loro e non come un estraneo, come un peso”.
Nella mezz’ora successiva ci raccontò alcuni fatti salienti della sua vita, gli episodi di violenza subiti sia dalla madre che dal padre, i lividi che all’età di 9 anni doveva già nascondere agli insegnanti e ai compagni quando andava a scuola, il lungo periodo di distacco dall’ambiente familiare e l’uso smodato ed incontrollato di droghe.
-“Signor Ascanio, le voglio parlare chiaramente, senza troppi giri di parole. La sua situazione è molto particolare e il suo sarà un percorso lungo e difficile, ma noi tutti insieme ci impegneremo a creare un clima di fiducia. Quello che le posso dire con certezza è che non sarà mai solo, noi come servizio ma soprattutto come persone le saremo sempre accanto, ci prenderemo carico dei suoi dolori. E per rispondere alla sua domanda iniziale, non è mai troppo tardi per iniziare una nuova vita.”

A volte le parole di incoraggiamento non bastano, nonostante cerchino di esprimere il complesso lavoro che sta dietro ad ogni progetto, o meglio, ad ogni persona. Le capacità “perdute” si acquisiscono con il “tempo” e con il “sudore”. Perché alla fine tutto quello che si guadagna da soli non è forse più gratificante? Ed è proprio quello che il signor Ascanio sta cercando di fare, salvarsi da solo con tutte le sue forze, ma sapendo di poter contare sempre su qualcuno che questa volta non lo abbandonerà.

 

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