Intervista a Giorgio Bedoni su "Arte e psichiatria"
Nota editoriale: Giorgio Bedoni (giorgio.bed@tiscalinet.it), psichiatra e psicoterapeuta, lavora presso il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura dell'Azienda Ospedaliera di Melegnano. Ha pubblicato in volumi e riviste specializzate diversi saggi su arte e psicopatologia, arte terapia, e si occupa di formazione in questo specifico campo disciplinare. Insegna presso il Centro di Formazione nelle Arti Terapie di Lecco; Docente del I° corso post-laurea "Assistenti di arti terapie" all'Accademia di Belle Arti di Brera. E' coautore con Bianca Tosatti del volume Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile edito da Mazzotta Editore, Milano
Anna Grazia: L'introduzione al testo "Arte e psichiatria" è dedicato a Lou Salomé, ripresa in una suggestiva immagine fotografica, sembra invitare il lettore ad usare un punto di vista particolare, per accostarsi al tema del libro: infatti "la vista richiede accortezza e orientamento, e quella particolare riduzione morbida dal cerchio all'ellissi che la trasforma in visione". Il lettore quindi intraprende un viaggio storico di grande interesse, sotto lo sguardo acuto e benevolo della famosa allieva di Freud. Può dirci qualcosa su questa scelta?
Giorgio Bedoni. Nel libro si parla di artisti e di psichiatri, dei loro incontri inevitabili sul ciglio franoso di un sapere instabile: un dialogo che attraversa il Novecento, ma soprattutto si delinea nel testo un viaggio segnato dall'irrequietezza, ricco di coincidenze e di contaminazioni tra pensiero visivo, psicopatologia ed ipotesi terapeutica. Con uno sguardo Bianca Tosatti ed io abbiamo scelto Lou Salomé, immaginando fascinazioni e irrequietezza di una straordinaria viaggiatrice. Ci piaceva pensare come quello sguardo sottile vedesse l'invisibile. Lou Salomé appartiene al genere della femme ispiratrice, nonostante numerosi indizi orientino a considerarla una sorta difemme fatale, non ultimi i suoi noti rapporti con Rilke e con Nietzsche.
A.G.: La vostra ricerca mi sembra centrata sulle corrispondenze tra arte e psicopatologia, attraverso una vasta carrellata storica, aperta dal saggio di Jaspers del 1922 dedicato a Strinberg e van Gogh, dominata dal tema "genio e follia".
Oggi cosa rimane di questa affinità tra opera artistica e schizofrenia (o dimensione psicotica) indagata da psicoanalisti e fenomenologia, alla luce della crescente spinta della psichiatria biologica (es. cit. di Nancy Andreasen) che interpreta la stretta correlazione tra creatività e disturbi della sfera affettiva come manifestazione di un errore genetico? Crede che lo psichiatra si possa interessare ancor oggi, per gli aspetti clinici all' "art des fous"?
G.B.: L'Art des fous ha impegnato nel corso del Novecento la migliore tradizione psichiatrica europea. Una stagione di studi che ha prodotto una florida letteratura, tanto da rendere "dimezzata", per certi versi, una storia della psichiatria che intenda prescindere da essa. Ne sono un esempio le magnifiche pagine di Ludwig Binswanger sul manierismo schizofrenico, gli scritti di Eugene Minkowski, e, in anni più recenti, le riflessioni di Franco Basaglia sulle forme d'arte nella psicosi. E poi tutta quella corrente d'impronta fenomenologica che in Germania, negli anni venti, rovescia il paradigma lombrosiano del "genio e follia". Un costrutto in apparenza lontano dal nostro sentire contemporaneo e tuttavia così vicino a noi quando ritorna in questi anni sotto altre forme in certe interpretazioni fornite dalla psichiatria biologica. Il termine art des fous tuttavia individua un'epoca precisa e un teatro di espressione artistica altrettanto particolare e definito : l'asilo manicomiale. Oggi art des fous è parola poco usata quanto storicizzata: rimanda ad un periodo aureo in questo genere di studi e ad immagini straordinarie che possiedono un'intensità perturbante ed un "suono profondo", come scriveva Kandinsky. Queste stesse immagini hanno oggi sia un valore di testimonianza e di memoria sia la capacità di stimolare la ricerca. Si pensi alle immaginifiche creazioni di Adolf Wölfli nell'isolamento dell'ospedale psichiatrico di Waldau, al suo complesso e labirintico linguaggio che ha ancora molto da dire alla clinica sulla funzione del simbolo nella schizofrenia e sulle potenzialità reintegrative e generative sollecitate dall'esperienza estetica. Oggi la fiducia nelle qualità espressive, anche nelle forme psicotiche più gravi, ha esplicite finalità terapeutiche e riabilitative. Il setting artistico, l'area dell'invenzione, è un campo d'esperienza importante per lo psichiatra: è un campo relazionale che prefigura punti di vista "altri" e scenari aperti ad esperienze con la "materia" libere da condizionamenti direttivi, indirizzate alla scoperta e alla sperimentazione.
A.G.: Tra i vari esempi di collezioni psichiatriche e in riferimento anche alla scheda sull' art des fous, quale ritiene di poter segnalare come esemplificazione per i nostri lettori?
G. B.: Senza dubbio la Collezione Prinzhorn, custodita presso la Clinica Psichiatrica di Heidelberg: la più ricca di materiali di grande valore storico ed artistico, quella che ha suscitato in tempi recenti il rinnovato interesse degli specialisti. La Collezione venne costituita nell'arco di due anni: grazie all'opera dello psichiatra e storico dell'arte Hans Prinzhorn dal 1919 al 1921 confluirono ad Heidelberg circa 4500 opere, provenienti da istituti asilari tedeschi, europei e latino-americani (anche l'Italia ha contribuito alla Collezione, con opere provenienti da l'Aquila, Ceccano e da Roma). Prinzhorn è stato il vero artefice della Collezione, che aveva, sin dalle origini, finalità comparative con l'arte primitiva e infantile. La Collezione divenne subito nota tra gli artisti delle avanguardie: Paul Klee la conosceva direttamente, così come Kubin, Max Ernst e tanti altri. Quella di Prinzhorn è una figura complessa: un uomo immerso nel clima convulso dell'epoca, sensibile alla causa dei movimenti d'avanguardia, che condivide le aspirazioni di una generazione di artisti, la sua generazione. Per certi versi è figura speculare a quella di Andrè Breton, dapprima medico con interessi psichiatrici e poi fondatore del movimento surrealista. Prinzhorn ha il merito storico di aver sottratto il campo agli stereotipi letterari dell' "arte patologica" : la sua formazione culturale gli ha concesso una via di fuga rispetto a facili letture delle opere dei malati. Il suo famoso saggio, "Bildnerei der Geisteskranken", pubblicato nel 1922 e dedicato alle opere della Collezione, è un'opera aperta, innovativa nel linguaggio e nelle premesse teoriche, che non cedono alle lusinghe di facili ipotesi esplicative sui materiali. Con la sua opera Prinzhorn ha ricercato un riconoscimento senza pregiudizio alcuno per le produzioni artistiche dei malati, riconoscimento reso possibile misurando l'insufficienza tanto degli approcci patografici quanto di studi orientati in senso strettamente psicopatologico.
A.G.: Fausto Petrella sottolinea nel suo intervento sul tema "Arte e Psicoanalisi", come lo psicoanalista sembra oggi rimanere, rispetto alla dimensione della sofferenza psichica, l'interprete più attento di mondi variegati e complessi legati anche alle produzioni artistiche. Al riguardo è senz'altro importante ricordare anche il lavoro di Benedetti svolge da molto tempo. Ricordo un caso clinico che Benedetti illustrò diversi anni fa in un seminario clinico: si trattava del trattamento psicoterapeutico di una sua paziente, caratterizzato da un'intensa attività pittorica piuttosto strutturata (che servì ad illustrare efficacemente i vari sviluppi della terapia), ma decisamente drammatica nei contenuti. Con il progressivo miglioramento clinico l'attività pittorica divenne meno intensa e drammatica, fino ad una spontanea cessazione in fase di guarigione. Rimasi colpita allora dall'interpretazione di Benedetti che valutava l'attività pittorica della sua paziente niente affatto come 'creativa', bensì come una modalità espressiva della dimensione psicotica della paziente (quindi in fondo la sua produzione artistica come un equivalente del sintomo): questa ipotesi fu confermata dal fatto che alla risoluzione dei sintomi psicotici (attraverso una lunga elaborazione psicoanalitica) cessò anche la produzione artistica. Penso che Lei possa spiegare questo fenomeno, ha esperienze analoghe al riguardo?
G.B.: Se ben ricordo nella analisi di quel caso, Benedetti individuava tre livelli di lettura dell'immagine, rispettivamente la dimensione psicopatologica e quelle psicodinamica e psicoterapeutica. Ripensando a quella descrizione clinica sono convinto che venisse enfatizzato il processo relazionale, terapeutico, entro il quale, come ha scritto lo stesso Benedetti, lo psicoterapeuta ritrova se stesso non meno del suo paziente. Egli inoltre fa riferimento al concetto di "psicopatologia progressiva", sottolineando così quegli aspetti trasformativi cui può andare incontro il sintomo. In realtà non possiamo leggere le immagini come una sorta di sintomi illustrati: le immagini sono "pensiero visivo", che individua tutta una dimensione prelogica; l'arte è un linguaggio che indubbiamente permette di ravvisare elementi tipici dell'autore, comprendendo quindi le stesse tensioni irrisolte, le torsioni, le coazioni. Dunque tutto ciò che noi chiamiamo "sintomi". Tuttavia una griglia esclusivamente psicopatologica è una griglia riduttiva, che oscura una parte rilevante del nostro campo d'indagine, rischiando di scotomizzare la soggettività dell'autore: non è un caso che Benedetti introduca più livelli progressivi. Di fronte all'immagine, a maggior ragione nel lavoro terapeutico con pazienti psicotici, credo sia necessario mantenere il più possibile aperto il campo osservativo, saper "sospendere il giudizio" per poter intraprendere un percorso che richiede qualità di osservazione estetica. Qui è prioritario il rispetto del linguaggio visivo, delle forme e dei colori visti nella loro prospettiva fenomenologica. L'immagine prodotta deve essere protetta da inopportune incursioni interpretative. L'opera è uno sguardo aperto sul mondo del malato: al linguaggio dell'arte la clinica dovrebbe chiedere di ampliare lo spazio intersoggettivo, di mantenere un dialogo e una relazione laddove si spezza. Non deve invece pretendere di "normalizzare" l'arte, né di fare dell'oggetto estetico prodotto nel lavoro terapeutico una sorta di arte minore, chiusa nei confini della psicopatologia. E' invece comune osservare l'interruzione del lavoro artistico al termine di certe crisi psicotiche. La letteratura psichiatrica e psicoanalitica si è occupata di questo fenomeno sin dagli anni venti. Lo psicoanalista viennese Ernst Kris ha scritto pagine importanti su questo argomento, interpretandolo alla luce della Psicologia dell'Io. Si potrebbe dire che la pulsione creativa, il bisogno d'espressione, che si manifesta nel corso di una crisi rappresenti anche un tentativo di reintegrazione di fronte alla realtà in via di dissolvimento. In questi casi il processo creativo è un dispositivo che permette di reinvestire gli oggetti esterni: un processo riparativo come osserva Katan. Qui l'arte è un linguaggio "altro", sostitutivo nel veicolare simboli e bisogni. Nella mia esperienza di lavoro in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ho l'occasione di verificare con una certa frequenza questo fenomeno: solo una parte dei malati continua l'esperienza creativa alla dimissione; gli altri pongono i codici espressivi dell'arte al servizio della crisi. Anche il linguaggio formale è in questi casi caratteristico, con prevalenza di segni primari e di cifre stilistiche essenziali, che sarebbe riduttivo definire semplicemente regressive. Qui il discorso si apre ad un campo d'indagine di grande interesse che coinvolge non solo l'arte, ma le stesse discipline antropologiche.
A.G.: Nel testo viene sottolineata l'importanza del linguaggio figurativo (che inizia già nell'ambito del sogno) nelle sue varie espressioni (legate al lavoro artistico e alla espressione in psicopatologia). Mi sembra di capire, leggendo l'interessante esempio clinico di M. Corti, (che rimanda alla linea di ricerca di Benedetti e altri) - che siate d'accordo sul fatto che la transazione sul piano dell'immaginario permette l'accesso al mondo psichico di malati che per profondi motivi di insicurezza si difendono dal rapporto verbale, o si sentono influenzati da questo nel loro pensiero. Inoltre il terapeuta, con questo particolare tipo di comunicazione, attinge al vasto mondo dell'immaginario e al simbolico, che può consentire al paziente di ritrovare nella relazione terapeutica elementi vicarianti del proprio Sé. Un altro vantaggio dell'espressione attraverso il linguaggio pittografico (o simbolico) è messo talora di percepire parti di sé che sul piano verbale sono rimosse dalla coscienza.
Ritiene, in base alla sua esperienza, che ci siano elementi comuni a varie forme di arte terapia (penso anche alla musicoterapia o al dramma terapia) che consentono il recupero di elementi legati al mondo immaginario e simbolico permettendo l'espressione di emozioni altrimenti difficilmente comunicabili?
G.B.: L'esperienza sensoriale e corporea avvicina, indubbiamente, le varie forme di arte terapia: si potrebbe dire che la distinzione traKorper e Leib, cioè tra corpo 'organico' e corpo che 'vive l'esperienza del mondo', viene per certi aspetti ricomposta nell'attività artistica. Paul Valery ricorda che il pittore "si dà con il suo corpo", affermazione che il filosofo Maurice Merleau-Ponty utilizzerà per tracciare un percorso esemplare sul valore del corpo nell'esperienza estetica, considerando come prestando il suo corpo al mondo l'artista trasformi il mondo stesso in pittura. La dimensione ludica, del gioco, e i relativi fenomeni illusionali ad essa correlati, costituiscono un ulteriore elemento di vicinanza. Winnicott riconosceva il valore trasformativo di queste esperienze, capaci di attivare le parti creative della personalità. Alcune caratteristiche del prodotto artistico (atemporalità, simultaneità, molteplicità) contribuiscono a definire un'area illusionale. La psicoanalista britannica Marion Milner, che negli anni Cinquanta vive una personale esperienza artistica come pittrice, descrive molto bene questi fenomeni, riscontrando nel processo creativo l'esistenza di stati mentali molteplici e differenziati che, concretamente, la portavano a sperimentare desideri di separazione e di fusione con la materia. Siamo qui nel vivo dell'esperienza estetica che, ad esempio, un pittore come Cezanne riporta negli stessi termini descritti dalla Milner. Tuttavia è necessario ricordare che il setting artistico prefigura contemporaneamente un'esperienza cognitiva. Il "fare", il lavoro concreto e dinamico con la materia richiamano qualità percettive, suscitano il coinvolgimento e indirizzano l'attenzione verso uno scopo: attivano, dunque, risorse, offrendo così uno spazio al processo integrativo e ricostruttivo. In questo senso lo scenario delle arti terapie riveste un certo interesse per la prospettiva riabilitativa. Qui l'esperienza estetica, come documentano diverse storie cliniche, permette di acquisire competenze e linguaggi che rendono il malato autore/produttore di codici espressivi inseriti nel circuito sociale della comunicazione. D'altra parte, per la loro particolare natura, questi dispositivi artistico-terapeutici richiederebbero ulteriori precisazioni di carattere teorico e metodologico. Quello delle arti terapie è infatti un terreno complesso, che si presta ancora a facili semplificazioni nelle esperienze e negli stessi percorsi formativi che vengono oggi proposti nel nostro paese.
A.G.: … Sappiamo che la sua ricerca è in continua evoluzione e che sta scrivendo anche qualcosa di specifico riguardo al delicato e controverso tema della formazione nel campo dell'arte terapia: possiamo anticipare ai lettori di Psichiatry on line che appena sarà pronto metteremo in rete il suo contributo per aprire un dibattito sul tema. A presto e buon lavoro.